Quest’ultima disposizione contiene la definizione del buono pasto come «un servizio sostitutivo di mensa di importo pari al valore facciale del buono»[1] e utilizzabile «esclusivamente dai prestatori di lavoro subordinato, a tempo pieno o parziale, anche qualora l’orario di lavoro non preveda una pausa per il pasto, nonché dai soggetti che hanno instaurato con il cliente un rapporto di collaborazione anche non subordinato».[2]
La normativa deve, inoltre, essere letta congiuntamente con gli accordi derivanti dalla contrattazione collettiva nazionale che, generalmente disciplinano l’erogazione dei buoni pasto nel proprio settore di riferimento.
La disposizione legislativa è stata quindi oggetto di diversi contenziosi volti a riconoscere l’effettivo inquadramento giuridico del buono pasto. Il più delle volte il ricorrente, quasi esclusivamente il lavoratore o l’organizzazione sindacale in sua rappresentanza, è ricorso allo strumento giudiziario affinché venisse riconosciuta all’erogazione del servizio sostituivo della mensa un valore inscindibile e direttamente collegato alla retribuzione e quindi al contratto di lavoro; volendo definire il buono pasto più che un onore per il datore di lavoro un vero e proprio obbligo.
Il risultato dei diversi contenziosi ha invece escluso, più volte, una definizione giuridica volta a classificare il buono pasto come un’obbligazione contrattuale e anzi, ha tracciato una giurisprudenza consolidata con esito non favorevole al lavoratore.
Già nella sentenza della Corte di Cassazione n. 14388 del 14 luglio 2016, richiamando un indirizzo giurisprudenziale consolidato nella stessa corte e, in particolare, la sentenza n. 11212 del 17 luglio 2003 e la n. 14047 del 1 luglio 2005 in merito all’effettivo obbligo per il datore di lavoro di versare all’INPS i contributi derivanti dalle somme volte a garantire il servizio mensa, i giudici hanno ribadito come il «valore del c.d. buono pasto, salva diversa disposizione, non è un elemento della retribuzione concretandosi lo stesso in una agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale»[3] in quanto, orientando la lettura sia in ambito normativo europeo (decreto legislativo n. 66 dell’8 aprile 2003 in recepimento delle direttive comunitarie 93/104 e 2000/34) sulla disciplina dell’organizzazione dell’orario di lavoro affinché venga garantito un ambiente salubre al lavoratore e, nel nostro ordinamento attraverso una necessaria lettura dell’art. 32 sulla tutela della salute quale diritto irrinunciabile, si attribuisce appunto ai buoni pasto un carattere assistenziale volto a garantire una finalità conciliativa tra le esigenze dell’organizzazione del lavoro con le esigenze quotidiane del lavoratore.[4]
Data questa premessa, si può comprendere come, la stessa Corte di Cassazione abbia, nell’ordinanza n. 16135 del 28 luglio 2020, addirittura, attribuito alla corresponsione del buono pasto una «unilaterale»[5] revocabilità da parte del datore di lavoro, in tutti quei casi dove non si ravvedano più le condizioni di agevolazione nell’ambiente lavorativo che sono il presupposto per l’erogazione del «servizio».
Nel caso di specie, la Corte oltre a ribadire la costante giurisprudenza precedente, ha respinto l’interpretazione proposta dal lavoratore quale erogazione dei buoni pasto «in funzione del rapporto contrattuale»[6] e basata sulla sua «reiterazione nel tempo» e quindi appartenente alla retribuzione, negando che tali elementi modifichino la natura del buono pasto da prestazione assistenziale a retributiva e, quindi, accogliendo la possibilità di una modifica unilaterale da parte del datore di lavoro attraverso un semplice «atto interno» (Corte di Cass. N. 10354, 19 Maggio 2016).
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SMART WORKING E CORONA VIRUS
Lo sviluppo delle nuove tecnologie e il processo di digitalizzazione, denominato Industria 4.0, che coinvolge l’attuale contesto economico e sociale, ha determinato necessariamente dei cambiamenti anche nel modo di concepire la prestazione lavorativa, ad oggi caratterizzata dalla destrutturazione spazio-temporale.La flessibilità degli orari e del luogo della prestazione di lavoro, diventa una necessità ed una soluzione che grazie all’utilizzo dell’ ITC (information technology) si realizza concretamente.Le nuove tecnologie, in particolare quelle collaborative ed i social media, hanno concesso la possibilità di mettersi in contatto con chiunque ed in qualsiasi momento, e ciò ha completamente stravolto la cultura d’impresa.Invero, il sempre maggiore utilizzo di internet nonchè dei nuovi mezzi di comunicazione ha fatto sì che le distanze venissero meno o comunque si accorciassero, modificando notevolmente quello che era il modo di lavorare e di fare impresa.A tal proposito il diritto del lavoro si trova a fare i conti con queste nuove esigenze che necessitano di un intervento regolativo.Con la legge 81/2017 è stato introdotto e disciplinato il “Lavoro Agile”, meglio definito “Smart Working” e, per la prima volta in Italia, tale specifica modalità di svolgimento della prestazione lavorativa è stata inserita all’interno di un quadro normativo, che verrà trattato nel proseguo.Lo Smart Working, più precisamente, può essere definito come quell’“insieme di modelli organizzativi, moderni e non convenzionali, caratterizzato da un elevato livello di flessibilità nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti di lavoro, e che fornisce a tutti i dipendenti di un’azienda le migliori condizioni di lavoro”.Una delle tendenze che caratterizza il mercato del lavoro è, senza ombra di dubbio, la richiesta di flessibilità da parte dei lavoratori e di soluzioni che diano risposta al loro bisogno di conciliazione tra vita privata e vita lavorativa.Ed infatti la ratio posta alla base della L. 81/2017 è rappresentata proprio dall’incremento della competitività e della conciliazione dei tempi vita lavoro definito come work life balance.Questo concetto assai significativo consiste proprio nel bilanciamento tra il tempo dedicato al lavoro e alla carriera e quello dedicato a prendersi cura della famiglia e del proprio tempo libero.Le difficoltà nel gestire e bilanciare i tempi di vita nonché quelli di lavoro possono comportare, ancora, un ulteriore costo per il lavoratore in termini di riduzione del benessere; ciò può portare di conseguenza anche a compromettere la qualità della prestazione lavorativa e la produttività delle ore dedicate al lavoro.Come emerge dagli ultimi dati elaborati dall’Osservatorio smart working, i lavoratori smart mediamente presentano un grado di soddisfazione e coinvolgimento nel proprio lavoro molto più elevato di coloro che lavorano in modalità tradizionale: il 76% si dice soddisfatto della sua professione, contro il 55% degli altri dipendenti; uno su tre si sente pienamente coinvolto nella realtà in cui opera e ne condivide valori, obiettivi e priorità, contro il 21% dei colleghi. Inoltre, sono più soddisfatti dell’organizzazione del proprio lavoro (il 31% degli smart worker contro il 19% degli altri lavoratori), ma anche delle relazioni fra colleghi (il 31% contro il 23% degli altri) e della relazione con i loro superiori (il 25% contro il 19% degli altri).Tutto ciò naturalmente, comporta risvolti positivi anche nei confronti delle aziende, tra questi spiccano l’incremento di produttività, la riduzione del tasso di assenteismo, la capacità di attrarre i talenti, l’aumento dell’engagement, il miglioramento delle competenze digitali e l’ottimizzazione della gestione degli spazi.Uno spazio all’interno di questa trattazione è dedicato agli ultimi interventi normativi circa l’utilizzo dello smart working come strumento per consentire la prosecuzione dell’attività lavorativa nella situazione di emergenza in cui si trova il nostro paese, dovuta al diffondersi del virus Covid-19.Massimiliano MatteucciConsulente del Lavoro in Roma. Partner Nexumstp Spa. Cultore della materia e Professore a contratto presso università pubbliche e private. Autore di numerose pubblicazioni in materia di Lavoro e relatore a convegni e seminari.
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Buono pasto e smart-working
Questa conclusione risulta ancora più importante nel periodo attuale della pandemia da COVID-19 in quanto, l’erogazione del buono pasto ai lavoratori in c.d. smart-working ovvero lavoro agile, risulta una discrezionalità rimessa agli accordi tra l’azienda e le parti (sia in abito di contrattazione collettiva sia individuale) che potranno decidere in autonomia se il buono pasto debba spettare anche nei confronti di coloro che prestano il lavoro attraverso tale modalità.
Il legislatore infatti ha sommariamente previsto, nel decreto legislativo 81/2017, la parità del trattamento economico del lavoratore in lavoro agile e del lavoratore in azienda ma non ha inserito una puntualizzazione specifica sul buono pasto. Il silenzio del legislatore, quindi, soprattutto nel settore del pubblico impiego, sembrerebbe protendere verso un’interpretazione del lavoro agile come una prestazione che non necessita di una vicinanza all’azienda e quindi del servizio mensa ovvero del buono pasto ma anzi, ai sensi dell’art.18 del d.lgs. 81/2017 il lavoro agile deve essere organizzato «per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luoghi di lavoro»[7] e ancora, l’art. 19 dello stesso decreto assicura al lavoratore il diritto alla disconnessione dagli strumenti informatici necessari alla prestazione lavorativa.
Tutto ciò sembrerebbe quindi non rendere più attuale il binomio esistente tra previsione di un servizio mensa, volto ad agevolare il lavoratore vicino alla sede di lavoro, e la modalità smart-working.
È di recente attualità infatti la pronuncia del Tribunale di Venezia tramite il decreto n. 3463 del 08/07/2020. Quest’ultimo, dovendo decidere sul ricorso presentato da un’organizzazione sindacale che lamentava l’eliminazione della corresponsione dei buoni pasto da parte dell’Ente essendo i propri lavoratori in smart-working, ha rigettato la domanda poiché, oltre a rilevare le già citate pronunce giurisprudenziali sulla natura non retributiva del buono pasto (ma anzi, assistenziale), non ravvede una violazione del medesimo trattamento economico e normativo ai sensi dell’art. 20 della legge 22 maggio 2017. Tale decisione è validata in quanto i presupposti della natura del buono pasto lo definiscono come un elemento volto a corrispondere «un beneficio conseguente non alla prestazione di lavoro in quanto tale ma alle modalità concrete dell’organizzazione dell’orario di lavoro».[8]
Quindi quando la prestazione, secondo il Tribunale, viene effettuata in modalità «agile» il lavoratore, avendo possibilità di organizzare il lavoro nella maniera più flessibile alle sue esigenze, non matura il buono pasto poiché non soggetto a stringenti cadenze lavorative imposte dall’orario lavorativo o dalla sede fisica in cui svolge il lavoro (nel caso di specie il riferimento è, tra l’altro, direttamente contenuto nella disciplina del contratto nazionale lavorativo di settore ex art. 45 CCNL di comparto).
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Note
[1] Art. 2, d. ministero dello sviluppo economico, 7 giugno 2017, n. 122.
[2] Art. 2, d. ministero dello sviluppo economico, 7 giugno 2017, n. 122.
[3] Corte di Cass. n. 14388, 14 luglio 2016.
[4] Direttive 93/104/CE e 2000/34/CE, recepite con il d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66.
[5] Corte di Cass. n. 16135 del 28 luglio 2020.
[6] Corte di Cass. n. 16135 del 28 luglio 2020.
[7] Art. 18, d.lgs. 81/2017.
[8] Tribunale di Venezia sez. lavoro, Decreto n. 3463, 08/07/2020.
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