T.s.o. e contenzione
Il trattamento sanitario obbligatorio consiste in una serie definita di cure psichiatriche, di fatto limitative della libertà personale, le quali si rendono necessarie al verificarsi di condizioni che richiedano urgenti interventi terapeutici, eventualmente anche già rifiutati dalla persona interessata.
La contenzione è invece un atto medico reso idoneo da un’inderogabile necessità di assistenza medica la quale, proprio poiché in presenza di una circostanza eccezionale, può essere attuata con l’utilizzo di mezzi di contenzione anche da parte di un infermiere[1]. La pratica contenitiva può essere esercitata nei modi che seguono: a) fisicamente, con il bloccaggio dei movimenti del paziente; b) meccanicamente, attraverso l’uso di mezzi omologati per limitare i movimenti del paziente; c) farmacologicamente, mediante la somministrazione di farmaci ad effetto sedativo.
In particolare, secondo l’art. 32, comma 2, Cost.: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. La riserva di legge che può notarsi nel principio costituzionale appena citato trova la sua species nella l. 13 maggio 1978, n. 180, la quale detta la delicata disciplina in materia di accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori.
L’art. 1, comma 1, della norma succitata, stabilisce il principio indissolubile in base al quale “Gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari”. Nei confronti di persone affette da malattie mentali, invero, può essere disposto dall’autorità sanitaria competente un trattamento sanitario obbligatorio con degenza ospedaliera solamente qualora ricorrano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, o quando questi non siano accettati dal paziente o, infine, qualora non sussistano le condizioni o le circostanze che consentono di adottare misure sanitarie idonee con una degenza extra ospedaliera. Il t.s.o., anche in condizione di degenza ospedaliera, deve essere disposto dal sindaco su proposta del medico curante e deve essere da quest’ultimo opportunamente motivato.
Sulla scorta di tale doppia valutazione si rende altresì necessaria, ai fini della limitazione della libertà personale del paziente, la sussistenza obbligatoria della disposizione di cui all’art. 13, comma 3, Cost.
Il provvedimento in parola, infatti, deve essere notificato entro quarantotto ore al giudice tutelare nella cui circoscrizione rientra il comune il quale, dopo aver assunto le opportune informazioni, decide entro le successive quarantotto ore, con decreto motivato, al fine di convalidare o non convalidare il provvedimento. Qualora si verifichi quest’ultimo caso, il sindaco sarà tenuto a disporre l’immediata cessazione del trattenimento del paziente in t.s.o. presso la struttura ospedaliera di riferimento.
Il trattenimento convalidato dal giudice tutelare è valido per sette giorni: purtuttavia, qualora per insuperabili esigenze curative e comunque in presenza delle condizioni che legittimano il trattenimento in condizioni di degenza ospedaliera, il sanitario responsabile sarà legittimato a formulare in tempo utile una richiesta motivata di proroga dei termini al sindaco il quale investirà nuovamente del quesito il giudice tutelare.
Le formalità prescritte per la limitazione della libertà personale possono configurare, ove illegittimamente superate – ed a seconda del caso – i reati di omissione di atti d’ufficio, di sequestro di persona e di violenza privata.
La tutela giurisdizionale dei diritti del paziente ricoverato[2] prevede in ogni caso che questi e chiunque vi abbia interesse possa appellarsi al tribunale competente per territorio contro il provvedimento emanato e convalidato dal giudice tutelare.
Ad ogni modo, qualora il paziente sottoposto a t.s.o. in condizioni di degenza ospedaliera dovesse manifestare intenzioni auto od eterolesive o dovesse versare in uno stato di delirio incontenibile, di incoscienza o di forte ebrezza, il medico curante[3] potrà “contenere” i comportamenti del paziente solo all’esito di una serie di prescrizioni così individuate: a) osservazione ai fini valutativi del quadro clinico; b) rilevazione di uno stato di necessità; c) riscontro di una situazione emergenziale; d) rispetto continuo della dignità personale; e) acquisizione, possibile, del consenso informato; f) sussistenza del principio di proporzionalità.
Oggi, in ogni caso, risultano poco definite a livello normativo le prescrizioni da rispettare per la contenzione quale atto medico prescrittivo-terapeutico. Ad esempio, è del tutto assente una norma diretta a sancire con esattezza quando la contenzione debba essere usata quale atto alternativo alle emergenze gestionali del paziente; una legge che imponga con termini certi il riesame della condizione clinica del paziente; una definizione chiara di “sorveglianza” del paziente durante il periodo in cui lo stesso sia forzatamente contenuto; una norma che imponga una valutazione quotidiana per valutare gli eventuali aumenti, nel paziente, di aggressività e cambiamenti d’umore.
La necessità di definire i limiti imposti dall’art. 32 Cost. alla contenzione fisica
Con particolare riferimento alla contenzione fisica, si rende necessaria, a tal punto, una riflessione che nasce dall’art. 32 Cost. nella parte cui viene sancito che La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana e si esaurisce nel limite naturale stabilito in uno dei principi della libertà personale incardinati nell’art. 13 Cost., in base al quale viene punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni della libertà.
Un recente orientamento della Suprema Corte è intervenuto al fine di dirimere una delle delicate questioni afferenti la natura della contenzione fisica: con sentenza n. 50497/2018, infatti, la Cassazione, nel chiarire la propria giurisprudenza, ha stabilito un principio di diritto in base al quale la contenzione fisica non solo non coincide con un atto medico avente la finalità di tutelare la salute del paziente ma non si sostanzia altresì in un procedimento logico per la cura dello stesso. Così, la pratica contenitiva fisica non risulta legittimata a rientrare nella tutela della cd. “scriminante costituzionale” sancita nell’art. 32 Cost., la quale consente, come visto, l’effettuazione di trattamenti sanitari obbligatori nei casi previsti dalla legge.
Il caso in parola riguarda la morte di un insegnante di 58 anni, avvenuta nel 2009 dopo una contenzione fisica durata 83 ore: il paziente è rimasto immobilizzato a letto nonostante le continue richieste di aiuto. La ricostruzione avvenuta in sede processuale ha messo alla luce il fatto che lo stesso, quando fu legato, non era aggressivo né rifiutava la terapia: purtuttavia, la legatura del suo corpo al letto venne effettuata per consentire ai Carabinieri il prelievo coatto di urina – poi ritenuto anch’esso illegittimo – al termine del quale venne lasciato senza una vigilanza opportuna, e così costretto, per altri quattro giorni.
In sostanza, la decisione dei giudici di legittimità ha chiarito che, in tutti i casi, l’azione dei medici sanitari risulta protetta dalla Costituzione non in quanto frutto della decisione di uno di essi ma in quanto caratterizzata da una precisa finalità terapeutica. La contenzione meccanica, come sottolineato dalla S.C., non può in alcun modo essere identificata come atto medico poiché non possiede né una finalità terapeutica né conferisce l’effetto più importante, quello di migliorare le condizioni di vita del paziente, provocando la stessa, senza dubbio e di contro, lesioni anche gravi di natura fisica o psichica.
La Corte, dunque, stabilendo in punto di diritto che la contenzione meccanica non risulta autorizzata dall’art. 2 l. 180/1978, ha stabilito che la stessa non ha in re ipsa la “la dignità di una pratica terapeutica o diagnostica” e costituisce “un mero presidio cautelare il cui utilizzo è lecito solo al ricorrere delle condizioni di urgenza”. Sulla base di quanto affermato, la S.C. ha condannato gli imputati del procedimento in parola avendoli ritenuti responsabili del reato di sequestro di persona.
Dalla triste vicenda appena narrata è nato un principio morale e di diritto in base al quale è vietato procedere alla contenzione meccanica in via precauzionale a meno che non si manifesti uno stato di necessità[4] reso palese dal “pericolo di un danno grave e imminente” e non solamente “sulla base della astratta possibilità o anche mera probabilità di un danno grave alla persona”.
A questo punto può notarsi come dal 2018 la riserva inserita nel principio costituzionale che tutela il diritto alla salute si sia notevolmente avvicinata al limite posto dall’art. 13, comma 4, Cost.; il punto d’equilibrio emerso, in sostanza, al fine di poter privare forzatamente una persona della sua libertà personale – per tutelare la sua salute – risiede nel rispetto della salute quale bene giuridico tutelato. Le persone sottoposte a privazione della libertà lo sono esclusivamente per vedersi tutelare la propria salute come fondamentale diritto.
I rapporti del “paziente contenuto” con il mondo esterno
Supponendo che un paziente in cura venga valutato – dal medico curante prima e dal sindaco poi – idoneo a subire un trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera e, sulla base delle valutazioni del giudice tutelare, venga legittimata la privazione della sua libertà personale oltre le seconde 48 ore, decorrenti dall’inizio del trattamento e che, inoltre, nel tempo in cui il paziente sia in cura, subisca altresì un periodo di contenzione perché il personale sanitario preposto abbia ritenuto palese il pericolo di un danno grave alla sua persona, risulterebbe indispensabile domandarsi quanto segue.
In che modo il paziente può esercitare i suoi diritti? Come può manifestare liberamente e credibilmente il suo pensiero? Quali facoltà può esercitare nei confronti dell’amministrazione sanitaria che ha disposto la sua degenza ospedaliera obbligatoria?
Richiesta di revoca o modifica del provvedimento che dispone il t.s.o.
L’art. 33 della l. 23 dicembre 1978, n. 883 e l’art. 4 della l. 13 maggio 1978, n. 180 disciplinano una parte sostanziale nella tutela giurisdizionale dei diritti della persona trattenuta in condizioni di degenza ospedaliera[5]. È infatti stabilito all’interno dei due articoli il principio in base al quale “Chiunque può rivolgere al sindaco richiesta di revoca o di modifica del provvedimento con il quale è stato disposto o prolungato il trattamento sanitario obbligatorio”.
Analizzando la norma appena riportata può notarsi come la tutela dei diritti del paziente possa essere esercitata e fatta valere da chiunque ne abbia interesse; gli atti dispositivi della propria volontà, infatti, possono essere fatti valere “con il mondo esterno” personalmente o per il tramite di un’altra persona, al fine di far valere al meglio due distinti beni giuridici tutelati: la salute e il buon andamento dell’amministrazione sanitaria. L’istanza di revoca o di modifica totale o parziale del provvedimento che ha disposto la misura trattamentale obbligatoria, infatti, può essere oggetto di rivisitazione per rintracciare la cura più corretta che medio tempore potrebbe essersi resa necessaria, come anche, e soprattutto di conseguenza, affinché l’amministrazione sanitaria rispetti con la massima aderenza i principi dell’efficacia e dell’efficienza della sua azione.
L’istanza di revoca e di modifica, in ogni situazione, viene definita dal sindaco entro dieci giorni dalla ricezione della stessa: ci si interroga, oggi, se questo termine non necessiti di subire una consistente compressione affinché l’intera macchina amministrativa possa dimostrarsi continuamente pronta e, come si accennava, efficiente, nel disporre l’azione più corretta tempestivamente data la delicatezza della situazione ospedaliera del paziente in t.s.o.
Ricorso avverso il decreto di convalida del provvedimento che dispone il t.s.o.
Il paziente sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera ha la facoltà, riconosciuta anche a chiunque vi abbia interesse, di impugnare la decisione con cui si è convalidata la restrizione della sua libertà per motivi di tutela della salute. Nello specifico, la legge istitutiva del servizio sanitario nazionale[6] prevede espressamente, all’interno dell’art. 35, che la persona in cura, un suo familiare, o chiunque dimostri di avere un interesse concreto, può proporre al tribunale territorialmente competente un ricorso avverso il provvedimento con cui il giudice tutelare ha convalidato il t.s.o. con degenza ospedaliera obbligatoria.
Per questioni di celerità, data l’imminenza con cui si è disposta la situazione limitativa della libertà personale del paziente, è consentita la promozione del ricorso attraverso l’invio di una raccomandata con avviso di ricevimento, sulla base della quale, il presidente del tribunale, investito della volontà del paziente di procedere, fissa senza indugio l’udienza di comparizione delle parti con decreto in calce al ricorso che, a cura del cancelliere, è notificato alle parti nonché al pubblico ministero.
Con questo atto il paziente trattenuto, anche tramite chiunque abbia deciso di procedere in concreto, ha modo di venire a conoscenza del buon esito dell’esercizio di un suo diritto fondamentale, in base al quale Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi (art. 24 Cost.).
Il presidente del tribunale, da questo momento, entra immediatamente nel merito del ricorso e, sentito il pubblico ministero, valuta le condizioni cliniche e naturali del paziente al fine di sospendere, se del caso, il t.s.o. anche prima dell’udienza di comparizione, comunque entro un termine massimo di dieci giorni decorrenti dal decreto di fissazione dell’udienza di comparizione. In ogni caso, il tribunale delibera in camera di consiglio non appena ha terminato, sempre in tempi compatibili con il caso di specie, di aver raccolto le prove assunte d’ufficio o disposte dalle parti.
Diritto di comunicare e diritto d’informarsi.
L’art. 1, comma 4, della legge 13 maggio 1978, n. 180, stabilisce che durante il trattamento sanitario obbligatorio “chi vi è sottoposto ha diritto di comunicare con chi ritenga opportuno”. La forza della disposizione appena citata risiede nel riconoscimento alla persona sottoposta a t.s.o. di esercitare alcuni dei suoi diritti fondamentali, anche al fine di esprimere compiutamente ove possibile il proprio consenso a sottoporsi al programma trattamentale.
La questione però trova, nella prassi, un interrogativo non del tutto risolto: fino a che punto tali facoltà debbano essere riconosciute ai casi definiti nel susseguente articolo 2, comma 2, ovvero quando è resa necessaria la degenza ospedaliera obbligatoria?
Il quesito ha ricevuto una prima risposta da parte della giurisprudenza di legittimità[7], in base alla quale occorre verificare se la natura del vizio di mente sia totale o parziale. Ai fini di tale riconoscimento occorre verificare in concreto se le turbe della personalità del paziente siano di tale gravità da determinare una situazione psichica incolpevolmente incontrollabile da parte del soggetto che, conseguentemente, non può gestire le proprie azioni. In sostanza è utile valutare, in maniera attenta e non discontinua, se il paziente trattenuto in condizioni di degenza ospedaliera sia coscientemente idoneo a recepire l’informazione richiesta e, in particolar modo, che la stessa non risulti ancor più lesiva alla sua situazione clinica.
Quanto, invece, al diritto di comunicare non v’è dubbio sul fatto che non possa essere negato in ogni situazione, anche durante la pratica contenitiva.
Come la succitata sentenza della S.C. n. 50497/2018 insegna, e in base a qualunque principio nazionale e sovranazionale che imponga, tra gli altri, il divieto di trattamenti inumani e degradanti, il paziente ha diritto di comunicare ogniqualvolta lo richieda con chi ritenga opportuno, al fine di esprimere una sensazione, un sentimento o un particolare dolore, come anche per porre dei quesiti o per manifestare un suo pensiero.
In ogni situazione il paziente ha il diritto ad essere informato sulla tipologia delle cure. Non esiste infatti una previsione normativa esplicita che possa negare a priori, ovvero senza necessità di evitare l’informazione per ragioni di tutela del paziente, il coinvolgimento dello stesso nel procedimento terapeutico-decisionale che lo riguardi.
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Note
[1] Art. 30 Codice Deontologia Infermieristica: “L’infermiere si adopera affinché il ricorso alla contenzione sia evento straordinario, sostenuto da prescrizione medica o da documentate valutazioni assistenziali.”
[2] Art. 5, comma 1, l. 13 maggio 1978 n. 180.
[3] Il quale avrà dovuto adottare protocolli operativi per la traduzione corretta dei comportamenti da compiere per la tutela della salute della persona ed aver istruito gli operatori: a) ad osservare e riportare con esattezza ogni dettaglio che possa aiutare a decifrare il comportamento del paziente al fine di predisporre risposte coerenti e adeguate; b) a trasmettere correttamente le informazioni ai colleghi. P. Minghetti, Legislazione farmaceutica, IX ed., 2018.
[4] Da intendersi sulla scorta dell’art. 54 c.p.: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”.
[5] Sull’iter motivazionale definito dalla S.C., si vedano, ex plur: Cass. pen., 23 giugno 1998, n. 6240; Cass. pen., 18 agosto 2006; Cass. pen., 20 giugno 2018, n. 50497; Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 8 ottobre 2013 – Ricorso n. 25367/11, Patience Azenabor c. Italia.
[6] Legge 23 dicembre 1978, n. 833, “Istituzione del servizio sanitario nazionale”, G.U. n. 360 del 28.12.1978.
[7] Cass. pen., 10 dicembre 2014, n. 53600.
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