Responsabilità medica: i profili processualistici
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In proposito, deve evidenziarsi come la legge n. 24/2017 abbia introdotto svariate disposizioni di indubbio rilievo dal punto di vista processuale, sia in termini di deflazione del contenzioso, a monte, attraverso l’introduzione (con correlata previsione di sua obbligatorietà) di uno strumento stragiudiziale di composizione in via preventiva di eventuali controversie, sia, a valle, attraverso l’ampliamento delle possibilità di tutela per il paziente danneggiato, analogamente a quanto accaduto con il d.lgs. 209/2005 che ha introdotto il codice delle assicurazioni che, come noto, ha previsto, ad esempio, l’azione ex art. 141 in favore del trasportato, sia quella ex art. 149 (il c.d. risarcimento diretto), offrendo pertanto al soggetto danneggiato un ampio panorama di strumenti per conseguire la soddisfazione del proprio diritto al risarcimento; situazione che per certi versi ed entro certi limiti viene replicata, a seguito dell’introduzione della citata legge di riforma, anche nel settore – invero non meno caldo rispetto a quello dell’infortunistica stradale – delle controversie in tema di responsabilità medica, pur con le innegabili e rilevanti differenze che rendono difficile pensare che la mera trasposizione di norme ed istituti della r.c.a. sia realmente in grado, in re ipsa, di produrre gli effetti sperati dal legislatore.
Le novità di specifica rilevanza processualistica apportate dalla citata legge di riforma sono rappresentate dalle previsioni contenute negli articoli 8, 9, 12, 13 e 15 del provvedimento legislativo in questione, che di seguito si esamineranno, anche se non può trascurarsi di evidenziare che la norma di cui all’art. 7, di matrice e contenuto indiscutibilmente sostanziale (in quanto definisce la natura della responsabilità delle strutture sanitarie ed assimilate, nonché dei soggetti esercenti le professioni sanitarie) produce, in virtù del suo contenuto, indubbie quanto rilevanti ricadute sul piano processuale, in termini di individuazione e ripartizione dell’onere probatorio e del suo contenuto che, in relazione a ciascuna delle fattispecie di responsabilità in essa delineate, gravano sulle diverse parti di ogni controversia in materia di responsabilità medica; secondo alcuni, poi, le disposizioni di natura processuale introdotte dalla l. n. 24/2017 trovano applicazione esclusivamente per le azioni proposte in sede civile, e non anche all’azione civile esercitata nel processo penale (Di Marco, Campidelli).
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Si tratta di una serie di disposizioni che, nell’ottica del conseguimento dei due sopra richiamati obiettivi (che il legislatore ha inteso perseguire con lo stesso provvedimento legislativo, ma che nulla assicura non si pongano in conflitto, di guisa che il perseguimento concreto dell’uno non si riveli suscettibile di impedire o, quantomeno, il raggiungimento dell’altro, e viceversa) appaiono chiamate a confrontarsi con un sistema (ed inserirsi in esso) ad oggi senza dubbio consolidato, dopo oltre un ventennio di elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.
Sistema, si diceva, il cui raggiunto equilibrio non può escludersi, per un verso, siano suscettibili di mettere in discussione, con le conseguenti problematiche
– in particolare con riguardo al conseguimento dell’obiettivo, certo di non minore importanza, di apprestare la migliore e più ampia tutela possibile, per il soggetto danneggiato – senza che, per altro verso, possa dirsi assicurato il raggiungimento, tramite dette previsioni, degli obiettivi avuti di mira dal legislatore, che appaiono, per certi versi, sin troppo ottimistici e, per altri versi, anche potenzialmente messi in discussione – ad esempio, l’auspicato abbattimento del contenzioso – proprio da alcune delle innovazioni introdotte dalla riforma stessa.
Occorre infine brevemente accennare al fatto che, come del resto anche altra opinione mostra di ritenere, mentre le norme di carattere processuale della riforma sono da ritenersi di immediata applicazione – e come tali applicabili anche a fatti accaduti anteriormente alla loro entrata in vigore – quelle di natura sostanziale, al contrario, sono suscettibili di trovare applicazione solo ai fatti accaduti dopo la loro entrata in vigore, anche se il processo che riguarda i fatti in questione sia insorto vigenti le stesse (Liguori).
Il tentativo obbligatorio di conciliazione
La prima norma a carattere processuale contenuta nella legge di riforma, che disciplina detto istituto, e che ha dato vita, come affermato da alcuni, 230 capitolo VI
ad un’ennesima ipotesi di giurisdizione condizionata (Penta) è l’art. 8, che si articola in quattro commi: il primo comma stabilisce che il soggetto che abbia intenzione di agire in sede civile, per conseguire il risarcimento di un danno che assume essergli derivato in conseguenza di una ipotesi di responsabilità
sanitaria, preliminarmente deve proporre al giudice competente un ricorso ex art. 696-bis c.p.c., avanzando, cioè, istanza di consulenza tecnica conciliativa, con evidente intento deflattivo del contenzioso, intento reso non solo palese, quanto anche rafforzato, dai commi successivi; come si osserva in dottrina, allora, tale dizione testuale della norma porta a ritenere che, ove la domanda giudiziale proposta dal paziente non contenga una pretesa risarcitoria ma abbia un oggetto diverso, ad esempio il mero accertamento della responsabilità a carico della struttura e/o dell’esercente una professione sanitaria, viene meno l’alternativa – ma sempre obbligatoria – tra ATP ex art. 696-bis c.p.c. e mediazione (Vaccari), per cui l’eventuale domanda di accertamento della responsabilità risulterà sottoposta alla sola condizione di procedibilità della mediazione (Vaccari).
Il secondo comma qualifica espressamente, in termini di condizione di procedibilità della domanda risarcitoria, la preventiva presentazione del ricorso ex art. 696-bis c.p.c., e questo costituisce un primo passaggio attraverso cui viene concretizzata, quindi, la finalità deflattiva perseguita dal legislatore; la norma prosegue prevedendo, come alternativa, sempre quale condizione di procedibilità, il previo esperimento del procedimento di mediazione previsto ex art. 5, comma 1-bis, d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, e tanto costituisce un evidente secondo step nella richiamata prospettiva di abbattimento (quantomeno in termini di tentativo) del contenzioso relativo alla medical malpractice; sia nel caso di proposizione del ricorso per consulenza tecnica preventiva ai fini conciliativi, sia nell’ipotesi di esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione, viene fatta espressa esclusione dell’applicabilità di disposizioni contenute nell’art. 3, d.lgs. 12 settembre 2014 n. 132, convertito
con modificazioni, dalla l. 10 novembre 2014, n. 162: quindi, consulenza preventiva ovvero mediazione escludono il ricorso alla negoziazione assistita, e del resto non poteva essere altrimenti, dato che, in caso contrario, l’eccessivo ed irragionevole aggravio dell’esercizio del diritto alla difesa per il danneggiato – realizzato attraverso l’imposizione di molteplici condizioni di procedibilità della sua domanda risarcitoria – sarebbe stato fortemente sospetto di incostituzionalità, quantomeno con riguardo agli artt. 3 e 24 Cost.; si assiste, quindi, ad un rafforzamento della scelta già operata dal legislatore nel 2013 (con il c.d. decreto del fare, ovvero il d.l. n. 69 del 21 giugno 2013, convertito in l. n. 98 del 9 agosto 2013) con la reintroduzione dell’obbligatorietà della mediazione nelle controversie in materia di responsabilità medica, che nel 2012, con la sentenza n. 272 del 6 dicembre di tale anno, era stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale; a seguito di tale decreto del 2013, e della correlata legge di conversione, per quanto qui di interesse, il nuovo art. 5 del d.lgs. 28/2010, oltre ad avere reintrodotto l’obbligatorietà della mediazione nelle controversie in materia di responsabilità medica, la ha estesa anche a quelle in materia di responsabilità sanitaria, da intendersi come ricomprendente tutte quelle controversie in cui viene in rilievo una condotta colposa, ed un danno che si assume da essa scaturito, non direttamente collegata al compimento (in senso commissivo ovvero omissivo) di un atto medico, ma più in generale ad una prestazione sanitaria latamente intesa, essendo invero innegabile che sono ben diverse, e superiori, le responsabilità ed i correlati rischi, che gravano sui medici, da un lato, e sugli esercenti le altre professioni sanitarie, dall’altro.
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