Premessa
In un mercato sempre più competitivo, quale quello attuale, la capacità delle imprese di essere produttive nella competizione internazionale dipende, in modo sempre più pregnante, dalla loro capacità di innovare i propri processi organizzativi e produttivi.
Tale processo innovativo avviene sempre più spesso e anche attraverso la professionalità dei propri collaboratori: quanto più l’impresa è dinamica e innovativa, tanto più facilmente l’originalità dei suoi processi produttivi, che ne costituisce peculiare fattore di successo, si fonda su conoscenze e competenze tecniche, nonché abilità specifiche, che sono fatte valere dai lavoratori nell’esecuzione del contratto di lavoro e di cui, in costanza di rapporto di lavoro, l’azienda è legittimata ad avvalersi dopo che, magari per anni nella prospettiva della propria affermazione e crescita nel mercato, ne ha curato lo sviluppo anche con specifici investimenti.
In tale così competitivo contesto, non di rado emergono questioni riguardanti il c.d. “storno di personale”, ovvero quella condotta che, in linea generale, si sostanzia nell’acquisizione di lavoratori da parte di un’impresa (l’impresa stornate) dopo che la stessa li ha in qualche modo indotti ad abbandonare un’altra impresa (l’impresa stornata).
Le maggiori difficoltà sono nate, e permangono a tutt’oggi nonostante i numerosi interventi giurisprudenziali in tal senso, nel momento in cui è necessario stabilire se condotte del genere, che vedono un’impresa arricchirsi e un’altra impoverirsi della collaborazione di determinati lavoratori, siano lecite o, invece, illecite.
Il contesto normativo di riferimento.
In tema di storno di personale, vengono prima di tutto in rilievo norme di rango costituzionale.
Gli art.4 e 36 della Costituzione, ad esempio, che riconoscendo il diritto al lavoro a tutti i cittadini, affermando che lo Stato promuove le condizioni affinché l’esercizio di tale diritto sia effettivo e precisando che ogni lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro, consentono di affermare che ogni lavoratore ha diritto di cercare, trovare e cambiare il lavoro che più gli aggrada e gli è confacente.
Il successivo art.41 della Costituzione, inoltre, riferendosi ai datori di lavoro, se da un lato precisa che l’iniziativa privata economica è libera, da altra parte ne indica altresì i limiti, precisando che essa non deve arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
Ciò senza considerare che nell’ordinamento italiano vige un generale principio di libertà contrattuale ed un divieto di rapporti contrattuali permanenti. La regola generale è che, ciascuno, è libero di decidere fino a quando vuole essere parte di un rapporto contrattuale e, conseguentemente, di chiudere un rapporto contrattuale e di iniziarne uno nuovo. Questa regola si applica anche ai rapporti di lavoro subordinato.
Sotto il profilo meramente civilistico, vanno altresì tenuti presenti gli art.2596 c.c. in tema di concorrenza tra imprese e l’art.2125 che disciplina il patto di non concorrenza con il dipendente, il quale non vieta al lavoratore di dimettersi dal posto di lavoro, ma gli preclude lo svolgimento, per un certo periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, di attività lavorative in concorrenza con il suo vecchio datore di lavoro, in un dato ambito geografico previsto nel patto medesimo.
Non bisogna inoltre tralasciare le norme del codice civile in tema di concorrenza sleale. In particolare, l’art. 2598 c.c. che fornisce indicazioni in merito a cosa possa intendersi per atto di concorrenza sleale e, come vedremo meglio infra, il terzo comma della richiamata disposizione, che può essere applicato alla fattispecie che ci occupa.
Lo storno di dipendenti quale atto di concorrenza sleale.
La costruzione della figura giuridica dello storno di dipendenti come atto di concorrenza sleale e, come tale, in particolare rientrante nell’ipotesi di cui all’art. 2598, comma 3, c.c. è di natura meramente giurisprudenziale.
Come è noto, infatti, e come abbiamo appena precisato, la suddetta disposizione tratta degli atti di concorrenza sleale e, fra l’altro, con una formulazione aperta, annovera fra questi ogni atto “non conforme ai principi della correttezza professionale idoneo a danneggiare l’altrui azienda”. Si tratta di una categoria a carattere generico e, pertanto, non deve meravigliare che, in assenza di espressi pronunciamenti della legge in tema di storno di personale, è proprio intorno ad essa che è venuta a ruotare la riflessione sulle condizioni di liceità/illeceità dello storno.
Da parte della dottrina, ma in particolare modo della giurisprudenza, sono state quindi elaborate due correnti di pensiero al fine di configurare la distrazione di personale dipendente quale atto di concorrenza sleale: una prima corrente tendeva a valutare l’illiceità dell’atto sulla scorta della mera indagine fattuale; una seconda corrente, a tutt’oggi prevalente, invece, ritenendo insufficiente la sola valutazione oggettiva degli eventi, ha fatto leva sull’elemento soggettivo, richiedendo quindi la sussistenza del c.d. animus nocendi.
Dapprima concepito quale equivalente del dolo specifico, e richiedendo quindi che l’impresa stornante si fosse consapevolmente prefissa lo scopo di danneggiare l’impresa concorrente, col tempo la giurisprudenza ha ritenuto che l’animus nocendi non fosse da interpretare quale equivalente dell’elemento psicologico – per l’appunto dolo o colpa – di matrice penalistica, precisando in termini più generici che “affinché l’attività di acquisizione di collaboratori e dipendenti integri l’ipotesi della concorrenza sleale è necessario che sia attuata con la preminente volontà di danneggiare l’impresa altrui, in misura che ecceda il normale pregiudizio che può derivare dalla perdita di prestatori di lavoro che scelgano di lavorare presso altra impresa” (Tribunale Milano, Sez. Spec. Impresa, 26 febbraio 2015 n.2611).
Si è anche imposto un orientamento secondo il quale la sussistenza dello stesso può anche essere desunta dalle modalità con cui lo storno viene attuato. Ed infatti, è stato precisato che “il problema relativo alla illiceità concorrenziale dell’assunzione del personale altrui deve essere risolto facendo riferimento allo specifico intento di recare pregiudizio all’impresa concorrente, con la conseguenza che la fattispecie del cosiddetto storno dei dipendenti deve essere affermata ogniqualvolta detta assunzione sia avvenuta con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nella condotta della agente l’animus nocendi” (Cassazione Civile, 22.7.2004, n. 13658; nello stesso senso, ex multiis Cassazione Civile, 7.3.2008 n. 6194).
Coerentemente con tale opzione interpretativa, la giurisprudenza è passata quindi a valutare (nuovamente) elementi oggettivi capaci, in ipotesi, di determinare effetti dannosi e, al tempo stesso, espressivi dell’animus nocendi dell’impresa agente, dando rilievo, di volta in volta a circostanze di tipo quantitativo, relative, ad esempio, al numero dei dipendenti stornati, e soprattutto di tipo qualitativo, relative alle competenze e al ruolo degli stessi nell’organizzazione dell’azienda che subisce lo storno.
Partendo, pertanto, dal presupposto che “la concorrenza illecita per mancanza di conformità ai principi della correttezza non può mai derivare dalla mera constatazione di un passaggio di collaboratori (cosiddetto storno di dipendenti) da un’impresa ad un’altra concorrente, né dalla contrattazione che un imprenditore intrattenga con il collaboratore del concorrente, attività legittime come espressione dei principi della libera circolazione del lavoro e della libertà di iniziativa economica” (Cassazione Civile 4.9.2013 n.20228), è stata confermata la legittimità della trasmigrazione di lavoratori ove le conoscenze da essi acquisiti nell’azienda, pur se di pregio, non hanno carattere di esclusività, né rendono tali lavoratori assolutamente essenziali per l’impresa stornata, tanto più se vie è convenienza per il lavoratore medesimo nel passaggio (Cassazione Civile, 8.6.2012 n. 9386). Parimenti, non rappresenta un’operazione di storno illegittimo l’assunzione di personale da impresa concorrente che non abbia competenze esclusive e, quindi, facilmente sostituibile e non utilizzabile per avvantaggiarsi scorrettamente nei confronti dell’azienda che in precedenza ha avuto tale personale alle proprie dipendenze (Cassazione, 14.4.2017 n.9672).
Al contrario, costituisce atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art.2598, n. 3, l’assunzione di dipendenti altrui o la ricerca della loro collaborazione, non tanto per la loro qualificazione professionale, quanto per entrare in possesso, tramite essi, delle conoscenze tecniche riguardanti l’impresa concorrente, altrimenti impossibili da raggiungere, e posto in essere in modo tale da “impedire al concorrente di continuare a competere, attesa l’esclusività di quelle nozioni tecniche e delle relative professionalità che le rendono praticabili”, al fine di evitare “il costo dell’investimento in ricerca ed esperienza” e di “alterare significativamente la correttezza della competizione” (Cassazione Civile, 8.6.2012 n. 9386, che però conclude nel senso innanzi indicato; nello stesso senso Cassazione 20.1.2014 n.1100, in tema di acquisizione di informazioni riservate).
Sotto altro aspetto, invece, la giurisprudenza, al fine di verificare la sussistenza di un atto illecito, valorizza il numero e la qualità dei prestatori assunti dall’impresa concorrente, oltre che la particolare qualificazione degli stessi (Cassazione 20.2.2012 n.2439), con l’avvertenza che “non può considerarsi illecita l’utilizzazione del valore aziendale esclusivamente costituito dalle capacità professionali dell’ex dipendente, non distinguibili dalla sua persona, perché si perverrebbe altrimenti al risultato duplicemente inammissibile, di vanificare i valori della libertà individuale inerenti alla personalità del lavoratore, costringendolo ad una situazione di dipendenza che andrebbe oltre i limiti contrattuali, e di privilegiare nell’impresa, precedente datrice di lavoro, una rendita parassitaria derivante una volta per tutte, dalla scelta felicemente a suo tempo fatta con l’assunzione di quel dipendente” (Tribunale Roma 10.5.2013, n.13347)
E può ancora aversi atto illecito allorquando l’impresa stornante pone in essere “una strategia diretta ad acquisire uno staff costituito da soggetti pratici del medesimo sistema di lavoro entro una zona determinata, svuotando l’organizzazione concorrente di sue specifiche possibilità operative mediante sottrazione del modus operandi dei propri dipendenti, delle conoscenze burocratiche e di mercato da essi acquisite, nonché dell’immagine in sé di operatori di un certo settore” (Cassazione 4.1.2017 n.94).
Detto in altri termini, per riscontrare un caso di concorrenza sleale, non solo viene richiesto che i lavoratori che passano da un’impresa all’altra siano particolarmente qualificati ma che siano anche depositari di competenze esclusive, maturate grazie alla collaborazione con l’impresa stornata, che li renda insostituibili o, quanto meno, difficilmente sostituibili da parte di tale impresa
Il principio innanzi illustrato è stato ancora di recente ribadito dalla Suprema Corte di Cassazione, la quale ha altresì precisato che, ai fini di una pratica illecita di distrazione di personale, “assumono rilievo innanzitutto le modalità del passaggio dei dipendenti e collaboratori dall’una all’altra impresa, che non può che essere diretto, ancorché eventualmente dissimulato (….); la quantità e la qualità del personale stornato; la sua posizione nell’ambito dell’organigramma dell’impresa concorrente; le difficoltà ricollegabili alla sua sostituzione e i metodi adottati per indurre i dipendenti e/o collaboratori a passare all’impresa concorrente” (Cassazione 17 febbraio 2020 n.3865).
In conclusione, in linea teorica, lo storno di dipendenti, quale atto di concorrenza sleale, si caratterizza per le modalità della condotta non conformi a correttezza professionale e per la finalità di danneggiare l’azienda concorrente, e dunque non solo nell’intento di rafforzare la propria organizzazione, obiettivo quest’ultimo di per sé lecito anche attraverso la promessa di migliori condizioni di lavoro. E’, pertanto, tale elemento teleologico a qualificare la fattispecie concreta e, ciò, invero, nonostante i numerosi interventi giurisprudenziali sul punto, appare di difficile dimostrazione sul piano concreto, imponendosi conseguentemente una valutazione prudenziale (considerati gli interessi, anche di rango costituzionale, in gioco), da effettuarsi caso per caso.
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