La Cassazione chiarisce diversi profili applicativi inerenti il delitto di manovre speculative su merci: vediamo quali

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(Annullamento con rinvio)

(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 501-bis)

Il fatto

Il Tribunale di Vicenza aveva, solo in parte, confermato il provvedimento con il quale era stato convalidato dal Pm presso lo stesso ufficio giudiziario un sequestro probatorio eseguito dalla Guardia di Finanza avente ad oggetto una serie di documenti contabili rinvenuti presso la sede di una società di un rotolo di tessuto in cotone e di una matrice utilizzata dalla medesima società per la produzione di mascherine filtranti protettive generiche.

In particolare, il Tribunale – dato atto che dalle indagini eseguite dai militi della Guardia di Finanza era risultato che tale società, produttrice delle mascherine in questione, le aveva immesse sul mercato con un ricarico pari al 350%, rilevandosi altresì come, a carico del titolare della predetta impresa, fosse stato provvisoriamente ipotizzato dalla pubblica accusa il reato di cui all’art. 501-bis c.p. – aveva osservato che la sussistenza della finalità probatoria del compendio sequestrato, qualora sia di immediata percezione la diretta connessione tra il vincolo di temporanea indisponibilità del bene sequestrato ed il corretto sviluppo dell’attività investigativa, può essere oggetto di una motivazione anche sorretta da formulazioni di tipo sintetico.

Ciò posto, quanto alla sussistenza del fumus delicti, il Tribunale aveva rilevato come, premessa la necessaria ricorrenza della sola astratta configurabilità del reato ipotizzato, nel caso in esame, sussistessero gli elementi per ritenere utile, onde verificare l’ipotesi accusatoria, l’espletamento di ulteriori indagini per acquisire altri elementi probatori non diversamente accertabili in assenza della sottrazione all’indagato dei beni in questione.

Il Tribunale, peraltro, pur osservando che, alla luce della recente legislazione emergenziale finalizzata al contenimento del contagio da Covid-19, le mascherine protettive del tipo di quelle oggetto di produzione da parte della impresa gestita dall’indagato dovevano essere ritenute equiparabili a prodotti di prima necessità in quanto obbligatoriamente da indossare in una serie di abituali circostanze, onde potere compiere atti della vita ordinaria, aveva, tuttavia, rilevato che, non comportando le indagini riguardanti il reato in provvisoria contestazione alcuna verifica in merito alla rispondenza a previsioni normative sia della materia prima necessaria per la realizzazione delle mascherine protettive, sia della metodica attraverso la quale, tramite l’uso del macchinario sequestrato, le medesime erano state realizzate riteneva di potere accogliere sul punto la istanza di riesame e disporre, limitatamente al rotolo di cotone ed alla matrice delle mascherine, l’annullamento, limitatamente a questi, del provvedimento di convalida del sequestro disponendo la parziale restituzione del compendio agli aventi diritto e confermando, invece, il provvedimento oggetto di riesame quanto alle sole scritture contabili.

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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso questa decisione proponeva ricorso per Cassazione la difesa dell’indagato lamentando come la ordinanza non avesse fornito alcun elemento in relazione alla funzione probatoria di quanto conservato in sequestro mentre, in via gradata, veniva contestato, lamentando l’erronea applicazione della normativa sostanziale, l’astratta configurabilità del reato in provvisoria contestazione sia in relazione alla riconducibilità delle mascherine protettive in questione alla categoria del “beni di prima necessità“, sia in relazione alla sussistenza del “rischio di rarefazione o rincaro del mercato interno“, sia infine in merito alla configurabilità di un “manovra speculativa” nella condotta dal ricorrente posta in essere.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso veniva stimato fondato nei seguenti termini.

Quanto alla prima doglianza, gli Ermellini osservavano in via preliminare che, sebbene l’art. 325 c.p.p., comma 1, disponga nel senso che il ricorso per cassazione avente ad oggetto i provvedimenti cautelari reali possa essere proposto articolando censure esclusivamente riguardanti il vizio di violazione di legge, tuttavia la consolidata giurisprudenza della Cassazione ha affermato che in tale categoria possono essere annoverati sia gli errores in iudicando che quelli in procedendo ossia tutte le ipotesi in cui sia ravvisabile un vizio della motivazione così radicale da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice nell’emettere il provvedimento impugnato (per tutte: Corte di cassazione, Sezione II penale, 20 aprile 2017, n. 18951) posto che, in una tale fattispecie, il vizio della motivazione ha delle caratteristiche di tale radicalità che la stessa risulta essere dal punto di vista sostanziale del tutto mancante sicché il provvedimento giurisdizionale si pone in contrasto con la stessa previsione legislativa contenuta nell’art. 125 c.p.p., comma 3, il quale prescrive, a pena di nullità, che tutti i provvedimenti giurisdizionali aventi carattere decisorio siano corredati da un’idonea motivazione.

Orbene, declinando tale criterio ermeneutico rispetto al caso di specie, i giudici di piazza Cavour evidenziavano come nell’occasione, diversamente da quanto ritenuto dal ricorrente, il provvedimento impugnato risultava essere stato indubbiamente motivato relativamente all’utilizzabilità a fini probatori della documentazione contabile in sequestro attraverso il richiamo degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità in punto di adeguatezza delle ragioni che possono giustificare la adozione del sequestro probatorio e, quindi, tale motivo veniva reputato del tutto inammissibile in quanto, ad avviso del Supremo Consesso, non ci si trovava sicuramente di fronte ad un provvedimento corredato da una motivazione solamente apparente.

Oltre a ciò, si osservava, peraltro, che, a dispetto di quanto ritenuto da parte della ricorrente difesa, l’orientamento giurisprudenziale cui i giudici del merito si erano legittimamente ricondotti non risultava essere minoritario posto che, seppure sia indiscutibile che, anche nel caso in cui l’oggetto del sequestro probatorio sia costituito dallo stesso corpo del reato, il provvedimento con il quale il soggetto che aveva la disponibilità del bene ne viene privato deve essere sorretto da un’idonea motivazione (così, infatti, oltre a Corte di cassazione Sezioni unite penali, 27 luglio 2018, n. 36072, si veda anche: Corte di cassazione, Sezione III penale, 13 marzo 2017, n. 11935), è stato, tuttavia ritenuto, sempre in sede nomofilattica, che l’onere motivazionale in ordine all’esistenza del presupposto della finalità perseguita in concreto, per l’accertamento dei fatti, può essere anche congruamente soddisfatto attraverso il ricorso ad una formula sintetica nel caso in cui la funzione probatoria del corpo del reato, ovvero della cosa ad esso pertinente, sia connotato ontologico ed immanente del compendio sequestrato, cioè di immediata evidenza desumibile dalla peculiare natura delle cose che lo compongono (Corte di cassazione, Sezione III penale, 11 gennaio 2017, n. 1145).

Nel caso in esame, considerata la natura del reato in provvisoria contestazione afferente alla realizzazione ad opera di soggetti esercenti imprese di carattere produttivo di particolari manovre speculative nell’ambito del mercato interno riguardante determinate categorie di merci, per il Supremo Consesso, appariva essere evidente – sì da giustificare un certa sintesi argomentativa della ordinanza impugnata sul punto – l’ontologica ed immanente attitudine probatoria delle scritture contabili riferite al soggetto in questione essendo le stesse, per loro natura, destinate a documentare – quindi a fornirne la prova – il flusso di entrate ed uscite da quello cagionato nell’esercizio della sua attività e le caratteristiche economico-finanziarie delle operazioni commerciali da lui stesso realizzate.

Chiarito ciò, per quanto concerne il secondo motivo, afferente alla ritenuta insussistenza del fumus delicti, si riteneva, a differenza del primo motivo, come questo fosse fondato.

Al riguardo, si osservava che il reato in provvisoria contestazione ha una articolata struttura ed una relativamente recente storia, oltre che una assai episodica applicazione.

Esso, infatti, è stato delineato in sede di novellazione codicistica a seguito della entrata in vigore del D.L. n. 704 del 1976, convertito con modificazioni con L. n. 787 del 1976; la sua introduzione era chiaramente finalizzata, in un’epoca segnata da gravi crisi economiche per lo più legate alle tensioni internazionali riguardanti il mercato degli idrocarburi, ad impedire che siffatte tensioni economiche, non oggetto di un facile controllo da parte dei Governi locali dei Paesi, come il nostro, importatori delle indicate materie prime, potessero essere prese a spunto, ampliandone ingiustificatamente la portata in ambito nazionale, per la realizzazione nel mercato interno di manovre esclusivamente speculative su merci di largo consumo.

Detto questo, veniva osservato in primo luogo come questo illecito penale sia un “reato proprio” posto che, pur a dispetto della possibile attribuzione della condotta delittuosa a “chiunque“, così come indicato nel testo normativo, questa, per come successivamente specificato nella stessa norma precettiva, deve essere stata posta in essere da un soggetto che abbia operato “nell’esercizio di qualsiasi attività produttiva o commerciale” (così art. 501-bis c.p., comma 1, con espressione richiamata anche al successivo comma 2).

Un siffatto costrutto linguistico, attraverso l’uso del sostantivo “esercizio” (espressione questa che nel suo significato richiama una condotta di tipo sistematico o, comunque, metodicamente ripetuta), a sua volta, appare riferirsi non allo svolgimento del tutto occasionale ed estemporaneo dell’attività in discorso, ma al fatto che questa sia praticata da parte di chi ad essa sia addetto con una certa stabile continuità.

Si è, pertanto, secondo la Cassazione, di fronte ad un “reato proprio” in quanto lo stesso potrà essere commesso solo da chi rivesta, dal punto di vista operativo, la qualifica soggettiva di esercente, nell’accezione dianzi delimitata, un’attività produttiva ovvero commerciale avente oggetto determinati beni o servizi.

Questo con riferimento al profilo dell’agente; riguardo alla condotta si evidenziava come essa possa presentarsi sotto due forme, rispettivamente disciplinate, pur con identità di sanzione, nel primo e nel comma 2 dell’articolo di codice in questione.

Essa, infatti, può consistere, secondo la previsione di cui al comma 1 della disposizione in esame, nella realizzazione di manovre speculative ovvero nell’occultamento, accaparramento od incetta di materia prime, generi alimentari di largo consumo o di prodotti di prima necessità, in modo atto a determinarne la rarefazione o il rincaro sul mercato interno, oppure, e questa è la previsione contenuta nell’art. 501-bis c.p., comma 2, nella condotta di chi, consapevole della esistenza delle condizioni di rarefazione o di rincaro sul mercato interno dei prodotti di cui sopra, ne sottragga all’utilizzazione o al consumo rilevanti quantità fermo restando che, se la prima fattispecie, ad avviso della Cassazione, parrebbe riconducibile ad una ipotesi di reato di pericolo, sebbene di pericolo concreto in quanto la locuzione “atta a determinare…” evidenzia chiaramente la mera attitudine di una determinata condotta alla produzione di un effetto ma non impone anche, ai fini della integrazione del reato, che questo si sia realizzato, la seconda individua una fattispecie di pura condotta in quanto, presupposta la situazione di “crisi del mercato“, il reato è perfezionato sulla base della semplice sottrazione, all’utilizzazione od al consumo di rilevanti quantità di un determinato prodotto, in relazione al quale si era manifestata rarefazione o rincaro sul mercato.

Pertanto, mentre i concetti di occultamento, accaparramento ed incetta, corrispondendo a fenomeni naturalistici sono facilmente indentificabili nella condotta di chi, avendoli prodotti, sottragga, tenendoli nascosti e negandone la disponibilità, in via primaria al mercato determinati beni ovvero li accumuli, acquisendoli presso altri soggetti, in misura ampiamente superiore ai propri bisogni imprenditoriali, senza riversarli sul mercato, più complessa è l’attribuzione di significato alle parole compie manovre speculative“, dovendosi comunque, in prima approssimazione, ritenere che l’espressione valga a descrivere la condotta di chi intenda – peraltro attraverso il compimento di azioni per lo più riconducibili, appunto, all’occultamento, l’accaparramento o l’incetta – conseguire un guadagno parassitario attraverso lo stravolgimento consapevole e voluto del bilanciamento fra la domanda e l’offerta di un bene avente le caratteristiche descritte dalla norma incriminatrice, onde renderne così artatamente più elevato il prezzo di cessione.

Ai fini della integrazione del reato le merci debbono avere la natura o di materie prime (e ciò è logico ove si rifletta sulla descritta genesi della norma) ovvero di generi alimentari di largo consumo (beni questi che, per lunga tradizione storica, in caso di crisi, sono i primi in relazione ai quali si dubita del corretto funzionamento del mercato) o i “prodotti di prima necessità” dovendosi per tali intendere quelle merci, di vario genere la cui disponibilità è indispensabile per lo svolgimento di una vita libera e dignitosa.

Sul punto si notava tra l’altro come l’assai numericamente contenuta giurisprudenza della Cassazione avesse chiarito che le categorie di merci dianzi elencate sono tutte riferibili a beni mobili, dovendosi, pertanto escludere dal fuoco della norma in questione le eventuali manovre speculative aventi ad oggetto beni immobili quali edifici o terreni (Corte di cassazione, Sezione VI penale, 26 maggio 1979, n. 2030, ord.)

Precisato ciò, come si accennava anche in precedenza, quanto alla ricorrenza della fattispecie di cui al comma 1, l’evento da cui dipende l’esistenza del reato è identificabile nella possibile rarefazione o rincaro sul mercato interno delle merci oggetto della condotta dell’agente fermo restando che è evidente che il rincaro o la rarefazione debbono assumere della forme, per intensità e durata, di assoluta eccezionalità, posto che, diversamente, qualunque momentanea penuria di merci, essendo questa fisiologicamente idonea a comportare, per la stessa dinamica del punto di equilibrio fra la domanda e l’offerta, un aumento dei prezzi del genere in questione potrebbe costituire il limite per la contestazione del reato in questione.

Detto questo, con riferimento al concetto di “mercato interno“, si sottolineava, come stato già segnalato dalla giurisprudenza della Cassazione, che questo concetto, sebbene non debba essere inteso come tale da esaurire l’intero mercato nazionale, deve tuttavia intendersi evocabile solamente ove di tratti di fenomeni atti a implicare – stante le dimensioni dell’impresa interessata dalla manovra speculativa, la notevole quantità delle merci oggetto di essa e la probabile influenza che la manovra potrebbe avere sui comportamenti di altri operatori del mercato – il coinvolgimento nel meccanismo di ingiustificato aumento dei prezzi non di una fetta solamente marginale del mercato, avente, pertanto, una rilevanza solo microeconomica, ma di una, se non generalizzata, significativa parte di esso dato che la diffusa influenza del fenomeno sull’andamento dei prezzi, in particolare su quelli al consumo, deve essere, infatti, tale da comportare un serio pericolo per la situazione economica generale, tale cioè da determinare i suoi effetti non esclusivamente su di un ambito meramente locale di mercato ma su una zona sufficientemente ampia del territorio nazionale sì da integrare un situazione di pericolo e di possibile nocumento per la economia pubblica generale (Corte di cassazione, Sezione VI penale, 27 ottobre 1989, n. 14534; nello stesso senso, in precedenza, anche Corte di cassazione, Sezione VI penale, 18 marzo 1983, n. 2385).

Orbene, declinando tali criteri ermeneutici rispetto alla fattispecie qui in esame, gli Ermellini facevano presente come fosse indubbia l’attribuibilità all’indagato della qualifica soggettiva necessaria ai fini della integrazione del reato in quanto questi, avvalendosi di una società, aveva svolto un’attività sicuramente di carattere imprenditoriale avente, verosimilmente unitamente ad altre finalità, anche lo scopo di produrre le mascherine filtranti di cui alla provvisoria imputazione così come veniva stimata parimenti indubbia la circostanza che siffatti prodotti, il cui uso era, per effetto delle molteplici normative, di diversa fonte e rango, di carattere emergenziale legate alle manovre di contenimento della diffusione del contagio da Covid-19, necessario per lo svolgimento di taluni atti elementari della vita di relazione (si parlava infatti, a titolo di esempio, dello svolgimento delle attività lavorative al di fuori di ambienti frequentati dal solo soggetto lavoratore, che, in casi non marginali, non possono essere compiute senza avere indossato la mascherina oppure delle attività strumentali alla acquisizione presso i pubblici esercizi del cibo per alimentarsi degli abiti, per vestirsi e così via o, infine, della utilizzazione dei mezzi pubblici di trasporto) fossero ascrivibili alla categoria dei prodotti di prima necessità cioè di quei prodotti che sono necessari per lo svolgimento degli atti elementari della vita.

Si riteneva per la Corte però, all’opposto, assai arduo, convenire con il giudice di merito nella individuazione nella condotta dell’indagato nel senso di poterla considerare speculativa atteso che l’applicazione di un ricarico del 350% sul prezzo di vendita di un prodotto, peraltro in occasione di una situazione in cui la estrema ampiezza della domanda era originata da una obbiettiva necessità di procacciamento del prodotto in questione, non poteva essere considerata altrimenti che il frutto di una speculazione commerciale del requisito della attitudine a determinare un generalizzato rincaro dei prezzi tale da incidere sul mercato interno atteso che la modestia della struttura imprenditoriale a disposizione del ricorrente, dimostrata dalla esiguità delle scorte presso di lui sequestrate e dalla unicità del macchinario da lui utilizzato nella catena produttiva, ad avviso del Supremo Consesso, rendeva del tutto improbabile la possibilità che, attraverso la sua condotta, fosse consentito incidere sul mercato in maniera tale da determinare un generale rincaro dei prezzi della mascherine protettive fermo restando che tanto meno ciò si sarebbe potuto verificare in una ambito territoriale (il mercato interno) avente quelle caratteristiche di ampiezza che il senso della norma in ipotesi violata presuppone dato che,
sebbene l’espressione mercato interno non deve essere intesa quale sinonimo di mercato nazionale, tuttavia neanche è pensabile che, al fine di integrare il reato di cui trattasi, tenuto conto che il bene da esso tutelato è l’ordine economico nazionale, sia sufficiente incidere sui prezzi praticati in un ambito di mercato solo di vicinato.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante in quanto in essa si chiariscono molti profili applicativi del delitto preveduto dall’art. 501-bis c.p..

Difatti, posto che tale norma incriminatrice, per quel che rileva in questa sede, dispone, per un verso, che, fuori “dei casi previsti dall’articolo precedente, chiunque, nell’esercizio di qualsiasi attività produttiva o commerciale, compie manovre speculative ovvero occulta, accaparra od incetta materie prime, generi alimentari di largo consumo o prodotti di prima necessità, in modo atto a determinarne la rarefazione o il rincaro sul mercato interno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 516 a euro 25.822” (art. 501-bis, c. 1, c.p.), per altro verso, alla “stessa pena soggiace chiunque, in presenza di fenomeni di rarefazione o rincaro sul mercato interno delle merci indicate nella prima parte del presente articolo e nell’esercizio delle medesime attività, ne sottrae all’utilizzazione o al consumo rilevanti quantità” (art. 501-bis, c. 2, c.p.), in tale pronuncia, come appena dedotto, si chiariscono molti profili attinenti la portata applicativa di tale disposizione legislativa.

Invero, in siffatto, provvedimento, viene affermato che: 1) tale delitto è un reato proprio in quanto tale reato può essere posto in essere solo da un soggetto che abbia operato “nell’esercizio di qualsiasi attività produttiva o commerciale”; 2) tale illecito penale è un reato di pericolo dal momento che la locuzione “in modo atto a determinarne” di cui all’art. 501-bis c.p. deve essere intesa come una mera attitudine di una determinata condotta alla produzione di un effetto ma non impone anche, ai fini della integrazione del reato, che questo si sia realizzato; 3) il reato de quo è perfezionato sulla base della semplice sottrazione, all’utilizzazione od al consumo di rilevanti quantità di un determinato prodotto, in relazione al quale si era manifestata rarefazione o rincaro sul mercato; 4) per i “prodotti di prima necessità“, devono intendersi quelle merci di vario genere la cui disponibilità è indispensabile per lo svolgimento di una vita libera e dignitosa; 5) le merci a cui fa riferimento questo illecito penale concernono beni mobili e non quindi beni immobili quali edifici o terreni; 6) il rincaro o la rarefazione, a cui fa riferimento l’art. 501-bis, c. 2, c.p., per potere rilevare ai fini della sussistenza di questo delitto, devono assumere della forme, per intensità e durata, di assoluta eccezionalità posto che, diversamente, qualunque momentanea penuria di merci, essendo questa fisiologicamente idonea a comportare, per la stessa dinamica del punto di equilibrio fra la domanda e l’offerta, un aumento dei prezzi del genere in questione, potrebbe costituire il limite per la contestazione del reato in questione; 7) il “mercato interno” menzionato nel primo comma dell’art. 501-bis c.p., se non deve essere inteso come l’intero mercato nazionale, deve tuttavia intendersi evocabile solamente ove ci si trovi in presenza di fenomeni atti a implicare – stante le dimensioni dell’impresa interessata dalla manovra speculativa, la notevole quantità delle merci oggetto di essa e la probabile influenza che la manovra potrebbe avere sui comportamenti di altri operatori del mercato – il coinvolgimento nel meccanismo di ingiustificato aumento dei prezzi non di una fetta solamente marginale del mercato avente, pertanto, una rilevanza solo microeconomica ma di una, se non generalizzata, significativa parte di esso.

Tale sentenza, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione al fine di verificare la sussistenza o meno di questa fattispecie delittuosa.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in cotale provvedimento, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su cotale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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