Rapporti tra norme internazionali e interne
L’art. 117 Cost. ha reso gli obblighi internazionali parametri interposti di costituzionalità, perché “di rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio tra questa e la legge ordinaria”(Corte Cost. sent. n. 348/2007).
Pertanto, in merito ai rapporti interordinamentali, la Corte Costituzionale, con sent. n. 80/2011, ha statuito che il giudice interno debba dapprima interpretare la norma/legge nazionale/locale in senso conforme alla Convenzione/trattato, e qualora ciò non sia risolutivo, non potendo applicare direttamente la fonte pattizia, adirà la Corte Costituzionale sollevando la questione di legittimità costituzionale sulla norma interna (nel frattempo sospesa) con riferimento all’art. 117 comma 1 Cost. o art. 10 comma 1 Cost.. Precisandosi che, qualora la Corte Costituzionale dovesse accertare il contrasto del trattato/convenzione con la Costituzione, la norma convenzionale non fungerà da parametro interposto di costituzionalità per quel singolo caso[1].
Quindi, le norme internazionali come interpretate dalla Corte EDU integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, perché devono essere conformi alla Costituzione, operandosi un bilanciamento tra l’art. 117 Cost. e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione.
Criterio di determinazione dell’indennizzo
Per quanto riguarda l’esecuzione delle pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la L. 12/2006, affida tale attività al Governo e al Parlamento, perché sono gli unici legittimati a dare esecuzione agli obblighi che da esse discendono.
Ovviamente, l’art. 56 CEDU prevede che l’Accordo internazionale deve adeguarsi alle necessità locali, cosicché l’applicazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo potrà non essere uniforme fra i vari Stati aderenti[2] .
Pertanto, nell’ipotesi in cui si voglia contestare una legge/norma sul criterio di determinazione dell’indennizzo non si potrà demandare tale compito al Giudice, invocando l’art. 6 CEDU sui principi del giusto processo e delle condizioni di parità delle parti davanti giudice, altrimenti si determinerebbe un’operazione «palesemente ammantata da margini di discrezionalità che competono solo al legislatore»[3], perché la stessa giurisprudenza CEDU non è univoca con riferimento alla identificazione del valore venale dei beni quale unico criterio indennitario ammissibile alla luce dell’art. 1 del primo Protocollo, dovendosi tenere conto delle risorse finanziari disponibili e delle esigenze del territorio, aspetti estranei all’attività meramente applicativa della legge cui sono tenuti i giudici.
Infatti, la Corte europea, con decisione della Grande Camera, in data 29 marzo 2006, nella causa Scordino contro Italia, ha preso le mosse dal dettato dell’art. 1 del protocollo n. 1 CEDU (Protezione della proprietà) che recita: «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali di diritto internazionale. Le precedenti disposizioni non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi oppure di ammende», fissando alcuni principi generali:
- un atto della autorità pubblica, che incide sul diritto di proprietà, deve realizzare un giusto equilibrio tra le esigenze dell’interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui (punto 93);
b) nel controllare il rispetto di questo equilibrio, la Corte riconosce allo Stato «un ampio margine di apprezzamento», tanto per scegliere le modalità di attuazione, quanto per giudicare se le loro conseguenze trovano legittimazione, nell’interesse generale, dalla necessità di raggiungere l’obiettivo della legge che sta alla base dell’espropriazione (punto 94);
c) l’indennizzo non è legittimo, se non consiste in una somma che si ponga «in rapporto ragionevole con il valore del bene»; se da una parte la mancanza totale di indennizzo è giustificabile solo in circostanze eccezionali, dall’altra non è sempre garantita dalla CEDU una riparazione integrale (punto 95);
d) in caso di «espropriazione isolata», pur se a fini di pubblica utilità, solo una riparazione integrale può essere considerata in rapporto ragionevole con il valore del bene (punto 96);
e) «obiettivi legittimi di utilità pubblica, come quelli perseguiti da misure di riforma economica o di giustizia sociale possono giustificare un indennizzo inferiore al valore di mercato effettivo» (punto 97)[4].
A riscontro, nella successiva giurisprudenza, la Corte di Strasburgo ha riconfermato i principi stabiliti dalla sopra menzionata decisione, a titolo esemplificativo, si ricordano: la sentenza del 19 gennaio 2010, in causa Zuccalà contro Italia; sentenza dell’8 dicembre 2009, in causa Vacca contro Italia; e la sentenza della Grande Camera del 1°aprile 2008, in causa Gigli Costruzioni s.r.l. contro Italia.
Dal canto suo, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 348/2007, pone in evidenza che l’art. 42 Cost. prescrive alla legge di riconoscere e garantire il diritto di proprietà, ma deve essere posto in bilanciamento con l’art. 2 Cost. che prescrive a tutti i cittadini l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale. Ne consegue che, come precisato nella citata sentenza: “livelli troppo elevati di spesa per l’espropriazione di aree edificabili destinate ad essere utilizzate per fini di pubblico interesse potrebbero pregiudicare la tutela effettiva di diritti fondamentali previsti dalla Costituzione (salute, istruzione, casa, tra gli altri) e potrebbero essere di freno eccessivo alla realizzazione delle infrastrutture necessarie per un più efficiente esercizio dell’iniziativa economica privata.”
Se ne deduce che, l’indennizzo dovuto a norma dell’art. 42 Cost. non deve realizzare l’integrale ristoro del sacrificio subito per effetto dell’espropriazione, ma rappresenterà un’adeguata riparazione che pur non risultando meramente simbolica, permetta di avere le risorse necessarie per realizzare i fini di utilità pubblica perseguiti.
A riscontro, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 5 del 1960, ha affermato che “ il legislatore, nella sua discrezionalità , può legittimamente stabilire criteri diversi di determinazione delle indennità di espropriazione, in relazione agli scopi perseguiti dalle singole leggi ed agli interessi pubblici e privati da contemperare”.
Quindi, partendo dal presupposto che l’indennizzo non deve essere meramente apparente o simbolico, il legislatore avrà margini di discrezionalità nel criterio di determinazione dell’indennizzo, utilizzando il valore effettivo del bene come criterio non esclusivo di riferimento, purchè l’ammontare così determinato non scenda sotto il livello di congruità. (Corte Cost. sentenza n. 231/1984, 216/1990).
In conclusione si rappresenta che, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 283/2007, ha chiarito che non esistono criteri che possano avere caratteri di assolutezza e definitività, ma l’adeguatezza dei criteri di calcolo deve essere valutata nel contesto storico, istituzionale e giuridico esistente al momento del giudizio.
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Note
[1] Luca Passarini, L’adattamento delle fonti internazionali per la giurisprudenza, Studio Cataldi, del 26/11/2018.
[2]avv. Emanuela Pellicciotti, “LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE N. 348/2007 UN COMMENTO FRA STORIA, DIRITTO E PROSPETTIVE”, Studio legale Delli Santi & Partners , del 09.11.2007
[3] Corte Cost. sent. n. 348/2007
[4] Cfr. L’evoluzione costituzionale delle libertà e dei diritti fondamentali: saggi e casi di studio, a cura di Roberto Nania, Giappichelli Editore, maggio 2012, P. 52, 53
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