Normativa di riferimento: Art. 702 ter co. 2, ultimo periodo c.p.c.; Art. 3 e 24 Cost.
L’ordinanza di rimessione.
Il caso sottoposto all’attenzione della Corte Costituzionale trae origine dal ricorso promosso ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c., avanti al Tribunale di Termini Imerese, dagli eredi nominati in un testamento olografo, i quali chiedevano la condanna del di loro padre, alla restituzione dei beni ereditari in suo possesso, devoluti agli stessi secondo le disposizioni testamentarie.
Costituendosi in giudizio, la parte resistente domandava in via riconvenzionale l’accertamento della nullità del testamento olografo attribuito, rivendicando la qualità di erede in virtù di un precedente testamento pubblico effettuato dal de cuius.
Il giudice a quo, investito del ricorso, segnalava come la domanda riconvenzionale proposta dalla parte resistente, in assenza di una declaratoria di incostituzionalità dell’art. 702 ter co.2, ultimo periodo, c.p.c., essendo di competenza del tribunale in composizione collegiale, debba essere dichiarata inammissibile in virtù di quanto espressamente disposto dalla norma censurata, tenuto conto che l’art. 702 bis co. 1 c.p.c. delimita l’ambito di applicazione del rito sommario di cognizione alle cause devolute alla competenza del Tribunale in composizione monocratica.
Con ordinanza del 19.10.2019, n. 37 del registro ordinanze 2020, pubblicata in Gazzetta Ufficiale della Repubblica al numero 11, prima serie speciale, del 2020, il giudice adito promuoveva questione di legittimità costituzionale dell’art. 702 ter, co. 2, ultimo periodo c.p.c. per violazione degli art. 3 e 24 Cost.
Per quanto concerne la non manifesta infondatezza della questione sollevata, considerato che la domanda riconvenzionale risulta pregiudiziale rispetto all’oggetto del ricorso, il giudice remittente affermava che la norma censurata, nella parte in cui prevede, in ogni caso, la declaratoria di inammissibilità della domanda riconvenzionale di competenza collegiale, è contraria al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., tenuto conto che la decisione separata delle due cause può verosimilmente comportare un successivo contrasto di giudicati.
L’art. 702 ter co. 2, ultimo periodo, c.p.c. andrebbe ritenuto irragionevole anche sotto un ulteriore profilo in quanto, nell’ipotesi di due cause rientranti nella competenza per materia o valore di un altro giudice, ai sensi dell’art. 34 c.p.c., la proposizione con domanda riconvenzionale di una questione pregiudiziale determina lo spostamento di entrambe le controversie davanti al giudice superiore, trattazione congiunta che non è assicurata, stante la disposizione censurata, nel caso in cui la questione pregiudiziale possa essere trattata dal medesimo ufficio giudiziario ma in diversa composizione.
La norma censurata, nella parte in cui impone la declaratoria di inammissibilità della domanda riconvenzionale demandata alla decisione del tribunale in composizione collegiale, si porrebbe inoltre in contrasto con l’art. 24 Cost., nella misura in cui consente al ricorrente di abusare dei propri poteri processuali, ottenendo celermente una decisione sulla domanda principale dipendente, in virtù della maggiore celerità del procedimento sommario rispetto a quello ordinario di cognizione che il convenuto è tenuto ad incardinare a fronte della declaratoria di inammissibilità della domanda riconvenzionale proposta.
Secondo il Tribunale remittente, la chiara formulazione della norma censurata non consentirebbe neanche un’interpretazione costituzionalmente orientata del sistema normativo, nonostante parte della dottrina ritenga, per evitare la declaratoria di inammissibilità della domanda riconvenzionale in ipotesi di connessione “forte” per pregiudizialità-dipendenza tra cause, che il giudice possa disporre per entrambe le controversie avvinte dal nesso di pregiudizialità per subordinazione il mutamento del rito in quello ordinario.
Costituendosi in giudizio, il convenuto sosteneva che fosse possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata del sistema normativo nel senso di ritenere che il giudice adito con ricorso ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c. possa mutare il rito nell’ipotesi in cui venga proposta domanda riconvenzionale pregiudiziale demandata alla cognizione del Tribunale in composizione collegiale; in via subordinata, qualora non fosse ritenuta fondata l’interpretazione proposta, dichiarava di uniformarsi alla richiesta di declaratoria di incostituzionalità sollevata dal Tribunale di Termini Imerese.
Rilevava inoltre che il diritto di difesa della parte convenuta, a fronte della declaratoria di inammissibilità della domanda pregiudiziale, sarebbe oltremodo compromesso dalla non impugnabilità del relativo provvedimento.
Con atto depositato il 25.03.2020, interveniva il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall’Avvocatura dello Stato, chiedendo il rigetto delle questioni sollevate dall’ordinanza di rimessione, in quanto, a suo avviso, il Tribunale remittente avrebbe già potuto, con la normativa attuale, disporre il mutamento nel rito sulla base della giurisprudenza di legittimità che l’ha ritenuto necessario in luogo della sospensione della causa pregiudicata ai sensi dell’art. 295 c.p.c., ove quella pregiudicante penda dinanzi ad un altro ufficio giudiziario e finanche nell’ipotesi in cui le due cause siano incardinate di fronte allo stesso ufficio. A detta della Presidenza del Consiglio dei Ministri, pertanto, la questione sollevata può essere risolta sulla base della giurisprudenza di merito.
La posizione della Consulta.
La Corte Costituzionale, dopo aver elencato i punti salienti dell’ordinanza di rimessione, rileva in primo luogo che sussistono le condizioni di ammissibilità della questione costituzionale sollevata, la quale risulta oltremodo rilevante considerato che nel giudizio a quo i ricorrenti, in qualità di eredi testamentari, avevano avanzato ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c. domanda di rilascio dell’immobile di proprietà del de cuius, detenuto dal padre, il quale, a sua volta aveva richiesto l’accertamento dell’invalidità del testamento olografo su cui i figli avevano fondato la loro azione, a fronte di un precedente testamento pubblico con contenuto a lui favorevole.
Entrando nel merito della questione sollevata, la Corte Costituzionale rileva come la domanda riconvenzionale avanzata dal convenuto, da un punto di vista tecnico, risulta pregiudiziale rispetto alla domanda principale promossa dai ricorrenti in quanto presuppone la validità del testamento sul quale fondano la loro richiesta di rilascio.
Si è infatti in presenza di un’ipotesi di pregiudizialità-dipendenza qualora tra le stesse parti si controverta in ordine alla nullità di un titolo che assume in un altro procedimento valore di elemento fondante della domanda, considerato che potrebbe sorgere un contrasto tra il giudicato di accertamento della nullità e il giudicato che si fonda sul medesimo titolo, contrastante con il primo in quanto presupponente un antecedente logico giuridico opposto[1].
Da un punto di vista della competenza, occorre osservare che la domanda finalizzata all’accertamento della nullità del testamento è devoluta, ai sensi dell’art. 50 bis co. 1, n. 6, al Tribunale in composizione collegiale perché rientrate “nelle cause di impugnazione dei testamenti e di riduzione per lesione di legittima”, ragion per cui risulta rilevante la questione sollevata dal giudice a quo.
Ai fini di addivenire ad una soluzione della questione prospettata, la Consulta ha effettuato una ricostruzione del quadro normativo di riferimento in cui va collocata la disposizione censurata.
La ratio che ha comportato l’introduzione nell’ordinamento del rito sommario di cognizione, in alternativa al rito ordinario di cognizione[2], è da ricercare nella volontà del Legislatore di ridurre la durata dei giudizi di primo grado, da un punto di vista istruttorio, nei casi in cui è richiesta la soluzione di controversie di facile risoluzione, in applicazione del principio della ragionevole durata del processo ai sensi dell’art. 111 Cost.[3].
L’elemento caratterizzante il rito sommario di cognizione è da ricercare nella destrutturazione formale della fase istruttoria, la quale viene tendenzialmente svolta in una singola udienza e non sottoposta ai termini previsti dal secondo libro del codice di rito.
Come chiarito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con l’ordinanza del 10.07.2012, n. 11512, la sommarietà del rito di cui agli artt. 702 bis e ss. c.p.c. non ha alcuna ripercussione sulla cognizione, la quale risulta a tutti gli effetti una cognizione piena, ma bensì consiste nella destrutturazione formale del procedimento, il quale, pur concludendosi nella forma dell’ordinanza è idoneo al giudicato sostanziale.
Data la ratio dello strumento processale, l’art. 702 ter co. 3 c.p.c. consente al giudice, qualora ritenga necessario lo svolgimento di un’istruttoria non sommaria, di disporre il mutamento del rito in quello ordinario di cognizione, fissando l’udienza di trattazione di cui all’art. 183 c.p.c.
Allo stesso modo, ai sensi dell’art. 183 bis c.p.c., il giudice del rito ordinario di cognizione può disporre, alla prima udienza di trattazione, dopo aver valutato la complessità della lite e previo contraddittorio tra le parti, il mutamento del rito ai sensi dell’art. 702 ter c.p.c.
Ne deriva che rientra nel potere discrezionale del giudice adito indirizzare il giudizio di primo grado, incardinato dall’attore nelle forme ordinarie o in quelle sommarie, verso il rito più adeguato, tenuto conto delle esigenze derivanti dall’istruttoria e dalla complessità, in fatto e in diritto, della controversia.
È nel quadro sopradescritto che deve essere collocata la disposizione censurata che, con riferimento alle eventuali domande riconvenzionali, stabilisce che se esse non rientrano nell’ambito di applicazione del rito sommario di cognizione ovvero tra le controversie demandate alla decisione del tribunale in composizione monocratica ai sensi dell’art. 702 bis co. 1 c.p.c., il giudice adito è tenuto a dichiararle inammissibili.
A tal proposito, va considerato che per pregiudizialità “tecnica” si intende il collegamento esistente sul piano del diritto sostanziale tra rapporti giuridici diversi, caratterizzato dalla circostanza che alla fattispecie dell’uno appartiene uno degli effetti dell’altro, nel senso che è pregiudiziale il rapporto il cui effetto rappresenta un elemento della fattispecie costitutiva di un altro rapporto dipendente o condizionato.
Ne deriva che in presenza di una connessione tra cause per subordinazione, dovuta ad un rapporto di pregiudizialità-dipendenza, è preferibile una trattazione e una decisione congiunta dei diversi rapporti sostanziali, nell’ambito di un unico processo, al fine di realizzare un coordinamento tra le discipline applicabili.
Secondo l’orientamento consolidato della Suprema Corte, sussiste un rapporto di pregiudizialità-dipendenza tra cause quando una situazione sostanziale costituisce un fatto costitutivo o comunque un elemento della fattispecie di un’altra situazione sostanziale, circostanza nella quale, anche attraverso lo strumento processuale della sospensione del giudizio ai sensi dell’art. 295 c.p.c., è necessario garantire uniformità di giudicati, in quanto la decisione del processo principale è idonea a definire in tutto o in parte il tema dibattuto[4].
In presenza di un nesso di pregiudizialità-dipendenza tra cause, al fine di prevenire un conflitto pratico di giudicati, il Codice di procedura civile individua una serie di meccanismi volti a evitare la trattazione separata, in modo tale da garantire il simultaneus processus.
In particolare, se causa pregiudicata e causa pregiudicante pendono dinnanzi a giudici diversi dello stesso ufficio giudiziario, il coordinamento avviene ai sensi dell’art. 274 c.p.c.
Altrettanto rilevante appare il dettato di cui all’art. 34 c.p.c., il quale dispone che il giudice, chiamato a decidere una questione pregiudiziale con efficacia di giudicato, spettante per materia o per valore alla competenza di un giudice superiore, rimetta tutta la causa a quest’ultimo, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa[5]. Qualora la remissione non avvenga, il meccanismo di cui all’art. 34 c.p.c. viene “recuperato” attraverso la sospensione necessaria della causa pregiudicata, laddove la causa pregiudiziale non sia stata ancora decisa in primo grado ai sensi dell’art. 295 c.p.c., oppure attraverso la sospensione facoltativa, prevista nel caso in cui la causa pregiudiziale sia in fase di impugnazione ai sensi dell’art. 337 co. 2 c.p.c.[6].
Ne deriva che qualora fra due cause avvinte da nesso di pregiudizialità-dipendenza non sia possibile alcuna forma di coordinamento, potrebbe determinarsi un conflitto di giudicati, con l’effetto di ottenere la “prevalenza” della pronuncia successiva, sempreché non venga sottoposta a revocazione. Forma di impugnazione quest’ultima che è consentita soltanto laddove la seconda sentenza non abbia pronunciato sulla relativa eccezione di giudicato[7].
Sulla base delle considerazioni sopra enunciate, la Consulta ritiene pertanto fondata la questione di costituzionalità con riferimento ad entrambi i parametri invocati.
La disposizione censurata stabilisce infatti al secondo comma che, in presenza di domande che non rispettano i parametri di cui all’art. 702 bis c.p.c., il giudice deve dichiararle inammissibili con ordinanza non impugnabile, esattamente come in presenza di domanda riconvenzionale. Ne deriva che il giudice è, in ogni caso, tenuto a dichiarare inammissibile la domanda riconvenzionale che, introducendo una causa in cui il Tribunale decide in composizione collegiale e non già monocratica, non può essere proposta con rito sommario di cognizione ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c.
La formulazione letterale di tale norma inoltre non consente di enucleare alcuna distinzione o eccezione, essendo unica la “sorte” di ogni domanda riconvenzionale che introduca una causa riservata alla cognizione dello stesso tribunale in composizione collegiale; ciò ove anche sussista un rapporto di connessione forte di pregiudizialità-dipendenza tra causa principale e causa riconvenzionale.
L’interpretazione adeguatrice, orientata a rendere conforme il dettato normativo a Costituzione, è destinata pertanto ad infrangersi contro l’insuperabile limite costituito dal dato letterale della disposizione[8].
La ratio legislativa di tale normativa, rinvenibile nella volontà di consentire in ogni caso che la domanda principale sia definita celermente nelle forme del procedimento sommario di cognizione, è legittima in quanto funzionale ai fini di garantire la ragionevole durata del processo. Allo stesso tempo però, nel prevedere che a prescindere dal tipo di connessione sussistente tra la causa riconvenzionale e quella principale debba conseguire la declaratoria di inammissibilità della prima, qualora demandata alla cognizione del tribunale in composizione collegiale, la normativa introduce una conseguenza sproporzionata e pertanto irragionevole, ai sensi dell’art. 3 Cost., rispetto allo scopo perseguito dal legislatore.
Nonostante infatti, in materia di conformazione degli istituti processuali, il legislatore goda di ampia discrezionalità, con la conseguenza che il controllo di costituzionalità deve limitarsi a riscontrare se sia stato superato o meno il limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute, ciò non toglie che, secondo il costante orientamento della Consulta, debba essere comunque verificato che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e di conseguenza incompatibile con il dettato costituzionale.
Tale giudizio deve svolgersi attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi scelti dal legislatore nella sua discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità perseguite, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti[9].
Nel caso in esame, il nesso di pregiudizialità implica che la sorte della causa pregiudicata sia condizionata da quella della causa pregiudicante e contestualmente la disposizione censurata impone al giudice adito con ricorso ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c. di dichiarare l’inammissibilità della domanda riconvenzionali, a prescindere dalla valutazione che il medesimo giudicante è tenuto ad effettuare ai sensi dell’art. 702 bis co. 5 c.p.c.
Ne derivano degli inevitabili inconvenienti dalla trattazione separata della causa pregiudicata e della causa pregiudicante, sino a giungere ad un contrasto tra giudicati.
I possibili inconvenienti conseguenti dal contrasto tra giudicati non possono ritenersi esclusi dalla presenza di istituti che consentono il raccordo tra i giudicati, fino alla possibilità di utilizzare il mezzo della revocazione.
Non sono invece eliminabili in alcun modo gli inconvenienti derivanti dalla trattazione separata, i quali non sono in grado di compensare la presumibile maggiore rapidità derivante dalla trattazione distinta.
Le conseguenze eccessive e irragionevoli della regola di inammissibilità della domanda riconvenzionale soggetta a riserva di collegialità si evincono anche da considerazioni di comparazione e di sistema.
Da un lato si osserva che, nel caso in cui la domanda principale, introdotta con il rito sommario, e quella riconvenzionale pregiudicata, soggetta a riserva di collegialità, siano proposte davanti a due giudici diversi, il giudice del procedimento sommario non può sospendere il corso della prima causa ai sensi dell’art. 295 c.p.c. ma deve mutare il rito fissando l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., in applicazione dell’ordinaria disciplina della connessione delle cause. La giurisprudenza di legittimità ha accolto analoga soluzione interpretativa nel caso in cui le due cause siano proposte entrambe in via principale davanti allo stesso giudice, rispettivamente con il rito sommario e con quello ordinario[10].
Pertanto, nelle due ipotesi sopradescritte di cause proposte in processi distinti, legate da nesso di pregiudizialità necessaria, viene affermata l’illegittimità della sospensione, impugnata con regolamento di competenza, del procedimento sommario avente ad oggetto la causa pregiudicata, riconoscendosi invece la necessità del mutamento del rito per assicurare il simultaneus processus.
Ne deriva che risulta ingiustificato che ciò non sia possibile, in ragione della perentorietà testuale della disposizione censurata, quando le due cause siano proposte fin dall’inizio in uno stesso processo, seppur con il rito sommario, allorché la domanda riconvenzionale risulti essere soggetta a riserva di collegialità.
Allo stesso modo, ove la domanda riconvenzionale possa essere decisa dal giudice monocratico in quanto non soggetta a riserva di collegialità e quindi non ricorra la ragione di inammissibilità di cui alla disposizione censurata, il giudice del procedimento sommario può valutare la complessità risultante dall’ampliamento del thema disputatum e dalle difese svolte dalle parti. In questo caso, qualora il giudice ritenga necessaria un’istruzione non sommaria muta il rito fissando l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c.
Occorre inoltre considerare che, a fronte delle intervenute riforme[11], si assiste alla progressiva accentuazione del controllo dell’autorità giudiziaria nella scelta del rito più adatto per la definizione della controversia in primo grado.
L’art. 183 bis c.p.c. infatti, nell’attribuire anche al giudice del procedimento ordinario di cognizione il potere discrezionale di disporre la conversione del relativo rito in quello sommario, ha rimesso all’autorità giudiziaria la scelta finale sul procedimento ritenuto “più adatto”, sulla base delle esigenze istruttorie e delle difficoltà in fatto e in diritto della controversia, per la decisione della causa, considerato che l’art. 702 ter co. 5 c.p.c. già consentiva al giudice adito con rito sommario di cognizione di disporre il mutamento del rito, con la fissazione dell’udienza ai sensi dell’art. 183 c.p.c., ove ritenesse necessaria un’istruttoria non sommaria.
La disposizione censurata, imponendo la declaratoria di inammissibilità della domanda riconvenzionale che veicoli una causa attribuita al tribunale in composizione collegiale, senza consentire al giudice stesso di valutare l’opportunità di disporre il mutamento del rito, appare quindi inevitabilmente distonica rispetto all’assetto normativo delineato dall’art. 183 bis c.p.c., norma che demanda al giudice adito la valutazione ultima relativamente al rito più adeguato per la trattazione della causa.
Ne deriva che la disposizione censurata viola il diritto di difesa del convenuto ai sensi dell’art. 24 Cost.
Infatti, pur non essendo ravvisabile una tutela costituzionale allo svolgimento di un simultaneus processus, data la discrezionalità legislativa in materia, esso è la risultante di regole processuali finalizzate a realizzare un’economia dei giudizi e a prevenire il conflitto tra giudicati, ma la sua inattuabilità non lede, in linea di principio, il diritto di azione, né quello di difesa, se la pretesa sostanziale dell’interessato può essere fatta valere nella competente, pur se distinta, sede giudiziaria con pienezza di contraddittorio e difesa[12].
Al contempo però, la preclusione assoluta, anche se solo iniziale, del simultaneus processus, non è compatibile con la garanzia costituzionale della tutela giurisdizionale ove non risulti sorretta da idonee ragioni giustificative.
Nel bilanciamento tra le opposte esigenze, ovvero l’esigenza di rapidità del processo introdotto dall’attore e quella del simultaneus processus con riferimento alla domanda riconvenzionale formulata dal convenuto, tale preclusione risulta lesiva della tutela giurisdizionale in presenza di una connessione “forte” tra cause, quale quella per pregiudizialità necessaria rispetto al titolo fatto valere dall’attore.
Ne deriva che per una scelta rimessa al solo attore, il convenuto vede inesorabilmente dichiarata inammissibile la propria domanda, circostanza che lede il suo diritto di difesa.
Il convenuto è infatti costretto a proporre separatamente, davanti al medesimo tribunale, la propria domanda, benché pregiudiziale rispetto a quella proposta dal ricorrente nelle forme del procedimento sommario di cognizione, e a confidare nel funzionamento di meccanismi di raccordo eventuali e successivi.
Diversamente il ricorrente che abbia optato per il più celere procedimento sommario può ottenere una pronuncia efficace esecutivamente prima dell’introduzione, nel procedimento ordinario, della causa pregiudicante, avente ad oggetto la domanda riconvenzionale dichiarata inammissibile, causa che se trattata congiuntamente alla prima potrebbe determinare un esito differente della lite.
A tal proposito la Consulta, secondo cui la connessione è da considerarsi quale criterio fondamentale di ripartizione del potere giurisdizionale, dettato con l’esigenza di evitare incoerenze o incompletezze nell’esercizio del potere stesso, ha più volte evidenziato che “al principio per cui le disposizioni processuali non sono fine a sé stesse, ma funzionali alla miglior qualità della decisione di merito, si ispira pressoché costantemente – nel regolare questioni di rito – il vigente codice di procedura civile, ed in particolare vi si ispira la disciplina che all’individuazione del giudice competente (…) non sacrifica il diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al “bene della vita” oggetto della loro contesa”[13].
In conclusione, sebbene la parte convenuta nel procedimento sommario, la quale proponga una domanda riconvenzionale soggetta a riserva di collegialità, legata a quella principale da un nesso di pregiudizialità, non abbia diritto al simultaneus processus, quest’ultimo non le può comunque essere precluso dalla prevista pronuncia di inammissibilità, dovendo il giudice essere messo in condizioni di poter valutare le ragioni del convenuto a fronte di quelle attoree e di poter mutare il rito indirizzando la cognizione delle due domande congiuntamente nello stesso processo secondo il rito ordinario oppure di tenerle distinte dichiarando inammissibile la domanda riconvenzionale.
La reductio ad legitimitatem comporta pertanto che, in caso di connessione per pregiudizialità necessaria, il giudice deve poter valutare la domanda riconvenzionale e mutare il rito fissando l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., come nell’ipotesi di cui all’art. 702 ter c.p.c., in cui le difese svolte dalle parti richiedano un’istruttoria non sommaria.
Sulla base di quanto precede, la Consulta, nel dispositivo della sentenza, “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 702 ter co. 2, ultimo periodo, del codice di procedura civile, nella parte in cui non prevede che, qualora con la domanda riconvenzionale sia proposta una causa pregiudiziale a quella oggetto del ricorso principale e la stessa rientri tra quelle in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, il giudice adito possa disporre il mutamento del rito fissando l’udienza di cui all’art. 183 cod. pro. Civ.”.
Conclusioni
Come di evince dalle motivazioni della Consulta, dettate per giustificare la dichiarazione di incostituzionalità della norma censurata, la sentenza di cui in commento ha il merito di aver eliminato un ostacolo alla corretta sussistenza nell’ordinamento di due differenti riti di cognizione, caratterizzati da iter processuali diversi ma entrambi a cognizione piena, evitando così che la scelta del ricorrente di optare per il rito sommario di cognizione rappresenti un’ingiustificata forma di privilegio e di tutela, pregiudicante il diritto di difesa della parte convenuta.
La neo introdotta possibilità per il giudice adito di disporre il mutamento del rito, con conseguente fissazione dell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., pone pertanto attore e convenuto in una posizione equivalente che consente ad entrambe le parti di svolgere le proprie difese in condizioni di parità, eliminando al contempo il rischio di un contrasto tra giudicati e di tenuta del sistema processuale, a fronte di una normativa censurata inficiata da profili di irragionevolezza.
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Note
[1] Cass., Sez. Lav., n. 1285 del 2006; Cass. Sez. Civ., ord. n. 17317 del 2002.
[2] Art. 51 co. 1 l. 69/2019.
[3] Corte Cost. 172 del 2019.
[4] Cass., Sez. VI, ord. n. 22605 del 2014; Cass., Sez. I, ord. n. 12621 del 2006.
[5] Art. 34 c.p.c.: “Il Giudice, se per legge o per esplicita domanda di una delle parti è necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o valore alla competenza di un giudice superiore, rimette tutta la causa a quest’ultimo, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti a lui”.
[6] Sul punto si sono espresse le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 10027 del 19.06.2012.
[7] Cass., Sez. VI, ord. n. 13804 del 2018; Cass., Sez. Lav., n. 10623 del 2009.
[8] La Consulta ha in più occasioni affermato che “l’unico tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale” (Corte Cost. n. 232 del 2013; in senso conforme n. 174 del 2019; n. 82 del 2017; n. 36 del 2016).
[9] Corte Cost. n. 71 del 2015; n. 17 del 2011; n. 229 e 50 del 2010; n. 221 del 2008; n. 1130 del 1988.
[10] Cass., Sez. VI, ord. 07.12.2018, n. 31801.
[11] D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito dalla L. 10 novembre 2014, 162.
[12] Tale orientamento è fatto proprio dalla costante giurisprudenza della Corte Costituzionale. Tra le altre: Corte Cost. n. 58 del 2020; n. 451 del 1997; n. 295 del 1995; Ordinanze n. 215 e 124 del 2005; n. 251 del 2003; n. 398 del 2000; n. 18 del 1999; n. 308 del 1991.
[13] Tra le altre Corte Cost. n. 77 del 2007.
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