Responsabilità medica: necessario svolgere giudizio controfattuale

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I principi che governano la valutazione della responsabilità degli esercenti la professione sanitaria (nota a Cass. n. 35058/2020).

Sommario:

Il caso.

La valutazione del nesso di causa.

Le linee guida e le buone pratiche clinico assistenziali

I criteri di giudizio adottati dalla Corte.

Con una recente sentenza (n. 35058 del 24.11.2020), la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi nuovamente sul tema del nesso di causalità nell’ambito della responsabilità medica affermando come nella ricostruzione del nesso eziologico, non possa assolutamente prescindersi dall’individuazione di tutti gli elementi concernenti la causa dell’evento.

Solo conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, è infatti, possibile analizzare la condotta (omissiva) colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale e verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta, l’evento lesivo sarebbe stato evitato “al di là di ogni ragionevole dubbio”.

Nel considerare non corretta in diritto la sentenza impugnata, la quarta sezione penale della Corte di Cassazione ha, quindi, ribadito i principi e i criteri da seguire perché possa dirsi sussistente il nesso causale tra la condotta omissiva e l’evento, in ambito di responsabilità medica, sottolineando il ruolo di primo piano rivestito dal giudizio controfattuale, che, come ricorda la Corte, “deve essere svolto dal giudice in riferimento alla specifica attività che era specificamente richiesta al sanitario e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare o ritardare l’evento lesivo, come in concreto verificatosi, con alto grado di probabilità razionale“.

Il caso

Il caso sottoposto all’esame della Corte, trae origine dalla condanna per omicidio colposo di un sanitario. A questi era stato contestato, per colpa specifica, di avere omesso la prescrizione di accertamenti e controlli strumentali e diagnostici a fronte di un dolore interno all’altezza della spalla destra, da parte del paziente, poi deceduto, all’esito di due visite in cui si limitava a prescrivere l’uso di antinfiammatori e antidolorifici.

Il Tribunale aveva ritenuto che l’evento fosse ascrivibile all’imputato in quanto, anche in presenza di una storia clinica di lunga data, relativa a rischi cardiovascolari, constatata dopo la prima visita l’inutilità degli antidolorifici, avrebbe dovuto prescrivere un ECG di urgenza che avrebbe consentito attraverso la diagnosi differenziale di identificare la patologia coronarica e disporre anche accertamenti di laboratorio giungendo ad una percentuale di sopravvivenza del 96,98%

Secondo la Corte d’Appello, che conferma la decisione di primo grado, la sintomatologia del tipo di quella lamentata determinava quanto meno una situazione di particolare attenzione e diligenza in relazione alla storia pregressa, alle sue patologie, al dolore presentato, che non si attenuava con gli antidolorifici somministrati dal medico. Per tale ragione, il comportamento del sanitario era qualificabile come gravemente negligente e superficiale, in violazione delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica ma anche del sapere comune diffuso.

Adita la Suprema Corte, quest’ultima annulla la sentenza impugnata sulla base delle seguenti considerazioni.

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La valutazione del nesso di causa

In particolare, secondo la Suprema Corte, è mancato, da parte di entrambi i giudici di merito, l’accertamento controfattuale “cioè il giudizio necessario a ricostruire, con precisione, la sequenza fattuale che ha condotto all’evento, chiedendosi poi se, ipotizzando come realizzata la condotta, l’evento lesivo sarebbe stato o meno evitato o posticipato”, ovverosia, se la condotta doverosa omessa, qualora eseguita, avrebbe potuto evitare l’evento,

Con un’impostazione che, sostanzialmente, conferma i principi stabiliti dalla recente giurisprudenza, maturata successivamente alla sentenza delle Sezioni Unite (Sez. U. 10.7.2002, Franzese), la Suprema Corte richiama i criteri attinenti al profilo eziologico in tema di responsabilità medica, ripudiando innanzitutto qualsiasi interpretazione che faccia leva, ai fini della individuazione del nesso causale quale elemento costitutivo del reato, esclusivamente o prevalentemente, su dati statistici ovvero su criteri valutativi “a struttura probabilistica”.

In particolare:

  • il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica (universale o statistica), si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa, l’evento non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva;
  • non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile;
  • all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, deve risultare giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”
  • l’esistenza di un ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio.

Sussiste, pertanto, il nesso di causalità tra la condotta omissiva e l’evento, allorché risulti accertato, secondo il principio di controfattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente.

Sulla base dei suddetti principi, nel caso di specie, i giudici hanno rilevato come non fosse, al contrario, stato accertato, se una tempestiva diagnosi differenziale del medico avrebbe certamente salvato la vita del paziente, sulla base di precisi elementi fattuali, vale a dire,  “sulla base degli eventi clinici, delle contingenze logistiche significative del caso concreto, delle condizioni specifiche del paziente e del lasso temporale intercorso dal momento in cui sarebbe insorta la doverosità dell’accertamento diagnostico specifico ed il momento del decesso”.

A tal fine, secondo la Corte, per verificare se, ipotizzando come realizzata la condotta dovuta ma omessa dal sanitario, l’evento lesivo sarebbe stato evitato o differito, particolare rilievo avrebbe assunto l’importanza dell’accertamento del momento iniziale e della successiva evoluzione della malattia, soprattutto in un quadro clinico connotato dalla presenza di sintomi non necessariamente correlati con la patologia in concreto manifestata dal paziente.

 

Le linee guida e le buone pratiche clinico assistenziali

Gli evidenziati vizi logico-giuridici che hanno portato la Corte ad impugnare la sentenza di appello, hanno riguardato anche la tematica delle linee-guida e delle buone pratiche clinico-assistenziali.

Sotto questo aspetto la Suprema Corte constata come il riferimento alle Linee guida sia stato affrontato “in modo generico e confuso” dai giudici di merito che sul punto hanno disatteso con argomentazioni perentorie gli accertamenti svolti dal perito.

Infatti, in tema di responsabilità medica, colposa per morte o lesioni, alla luce della nuova disciplina introdotta dalla L. n. 24/2017, c.d. legge Gelli-Bianco, occorre distinguere tra una condotta del medico connotata da colpa per imperizia, per negligenza o per imprudenza, prendendo come parametro per la valutazione dell’operato del sanitario le linee-guida o, in mancanza, le buone pratiche clinico-assistenziali.

Per ciò che concerne le linee-guida, si è ripetutamente affermato che esse costituiscono, raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate mediante un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni scientifiche, al fine di aiutare medici e pazienti a decidere le modalità assistenziali più appropriate in specifiche situazioni cliniche.

Si è, in proposito, precisato che si può ragionevolmente parlare di colpa grave “solo quando si sia in presenza di una deviazione ragguardevole rispetto all’agire appropriato, rispetto al parametro dato dal complesso delle raccomandazioni contenute nelle linee guida di riferimento, quando cioè il gesto tecnico risulti marcatamente distante dalle necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia ed alle condizioni del paziente” (Sez. 4, n. 22281 del 15/04/2014).

Non è, allora, conforme alle finalità della legge una motivazione che ometta di valutare l’operato dell’esercente la professione sanitaria alla stregua di detti parametri, affrontando la tematica delle linee guida e delle buone pratiche in maniera generica e confusa.

I criteri di giudizio adottati dalla Corte

Secondo la Suprema Corte, i criteri di giudizio da adottarsi in tema di responsabilità medica, da parte dei giudici chiamati a valutare l’operato di un’esercente la professione sanitaria,  devono essere ben precisi, e se omessi, possono rendere la pronuncia passibile di riforma.

La sentenza del giudice, pertanto, deve:

  • indicare se il caso concreto è o meno regolato da linee guida o, in subordine, da buone pratiche clinico-assistenziali;
  • valutare la sussistenza del nesso di causalità tenendo conto del comportamento salvifico indicato dalle linee guida o dalle buone pratiche;
  • specificare se la colpa del sanitario è generica o specifica e se è una colpa per imperizia, per negligenza o per imprudenza;
  • verificare se e in che misura la condotta del medico si è discostata dalle linee guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali.

 

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Avv. Angelo Forestieri

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