Nella azione di responsabilità per contagio da emotrasfusione spetta al ricorrente provare l’avvenuta emotrasfusione

 

Fatto

Nella sentenza in esame la ricorrente aveva adito il tribunale di Viterbo per far accettare i danni subiti a seguito di alcune emotrasfusioni effettuate durante un intervento chirurgico subito presso una struttura sanitaria locale. In particolare, secondo l’attrice a causa di detta emostrasfusione era stata contagiata dal virus dell’epatite C e conseguentemente chiedeva la condanna del ministero competente nonché della regione Lazio al pagamento del relativo indennizzo di cui alla legge numero 210 del 1992.

Il tribunale di Viterbo aveva rigettato la richiesta risarcitoria dell’ attrice, in considerazione della mancanza di prova dell’avvenuta emotrasfusione, e successivamente anche la corte d’appello di Roma aveva affermato la correttezza della decisione di prime cure, in considerazione del fatto che dalla c.t.u. era emersa la mancanza di documentazione dalla quale risultasse l’effettuazione delle emotrasfusioni da parte della ricorrente nonché la mancanza di nesso di causalità materiale fra l’infezione da epatite C lamentata dalla ricorrente e la effettuazione delle emotrasfusioni che sarebbero avvenute durante l’intervento chirurgico lamentato dalla attrice.

La ricorrente aveva, quindi, adito la corte di cassazione con due motivi del ricorso ed in particolare, per quanto qui di interesse, lamentando di aver dato prova, attraverso la testimonianza fornita dal marito della paziente, che durante l’ intervento chirurgico oggetto di causa la ricorrente era stata sottoposta a più emotrasfusioni. In particolare, infatti, la attrice evidenziava come nell’istruttoria svolta nel giudizio di primo grado il marito avesse dichiarato di ricordare che la moglie era stata sottoposta ad una trasfusione con sacche di sangue in quanto, al momento in cui era rientrata dalla sala operatoria all’interno della stanza, la stessa aveva ancora una sacca di sangue attaccata. Inoltre, il teste aveva, altresì, dichiarato di aver visto altre tre sacche di sangue sul tavolo nonché che i sanitari che avevano effettuato l’intervento chirurgico gli avevano confermato che per effettuare quella tipologia di intervento era necessario effettuare delle emotrasfusioni e che le stesse erano state annotate all’interno della cartella clinica.

In considerazione di ciò, la ricorrente evidenziava che attraverso la citata cartella clinica si sarebbe potuto verificare l’effettiva somministrazione della trasfusione ematica alla paziente, ma che, nel caso di specie, non era stato possibile acquisire la documentazione a causa della incolpevole perdita della cartella. Conseguentemente, la ricorrente sosteneva la possibilità di provare con qualsiasi mezzo, quindi anche attraverso la prova testimoniale del marito, le avvenute emotrasfusioni. Secondo la ricorrente, inoltre, la prova per presunzioni e per testimoni delle avvenute emotrasfusioni determinava l’ inversione dell’ onere probatorio a carico dei convenuti, sui quali gravava quindi l’onere di provare che non vi fosse stato un inadempimento da parte dei medesimi o che l’eventuale inadempimento non avesse avuto rilevanza causale nei confronti dell’evento dannoso (cioè il contagio da epatite C).

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La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, esaminati i motivi di ricorso, ha ritenuto il ricorso inammissibile e lo ha quindi rigettato.

Secondo gli ermellini, infatti, la corte d’appello romana ha correttamente applicato i principi in materia di distribuzione degli oneri probatori affermati dalla giurisprudenza in materia di responsabilità da contagio per emotrasfusioni.

A tal proposito, la suprema corte ha evidenziato come il consulente tecnico d’ufficio avesse precisato che dalla cartella clinica del ricovero ospedaliero della ricorrente non risultava l’avvenuta esecuzione di emotrasfusioni a carico della paziente (mentre risultava essere stata effettuata soltanto un atto di interreazione fra il sangue della paziente e alcuni flaconi ematici). Anche nella cartella clinica relativa al successivo intervento, non vi era traccia di emotrasfusioni (in questo caso non erano state effettuate neanche le prove di interreazione). In considerazione di ciò, secondo gli ermellini, la corte territoriale aveva correttamente ritenuto che mancava qualsiasi elemento probatorio che confermasse l’effettuazione delle emotrasfusioni e quindi del contatto fra la persona della ricorrente e la fonte da cui poteva derivare il contagio con il virus dell’epatite C.

Secondo la suprema corte di cassazione, infatti, nei giudizi relativi alle richieste risarcitorie per responsabilità da contatto di emo trasfusione, l’attore danneggiato deve provare il nesso causale sussistente fra la specifica trasfusione ematica dal medesimo subita e il contagio con l’epatite C ed inoltre tale prova può essere fornita anche attraverso il ricorso a presunzioni nel caso in cui la struttura sanitaria non abbia predisposto o non abbia prodotto in giudizio la documentazione obbligatoria sulla tracciabilità del sangue trasfuso al paziente. Tuttavia, tale principio relativo alla ripartizione dell’ onere probatorio, presuppone che l’attore abbia dato prova (eventualmente anche in via presuntiva) del fatto che le emotrasfusioni siano effettivamente avvenute.

Secondo il giudice, invece, nel caso di specie, dalla cartella clinica non risultava effettuata alcuna emotrasfusione e la corte d’appello aveva ritenuto che la prova per testi non fosse idonea a superare le risultanze della documentazione sanitaria.

In considerazione di ciò, la suprema corte ha confermato il proprio orientamento, secondo cui, per ottenere l’indennizzo per danni irreversibili subiti a causa di epatiti derivanti da emotrasfusioni, il danneggiato deve provare, in primo luogo, l’effettuazione della trasfusione ematica e, in secondo luogo, il verificarsi del contagio e il suo nesso causale con l’emotrasfusione.

Secondo gli Ermellini, quindi, attraverso il motivo di ricorso invocato nel caso di specie, il ricorrente ha sostanzialmente chiesto alla corte di cassazione di effettuare una nuova valutazione delle risultanze istruttorie del giudizio di merito e quindi la idoneità della testimonianza resa dal marito della paziente a superare le risultanze documentali. Tale richiesta, secondo gli ermellini, è quindi inammissibile in quanto comporta una rivalutazione inammissibile in sede di legittimità e conseguentemente ha rigettato il ricorso.

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Avv. Muia’ Pier Paolo

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