SOMMARIO: 1. Il fatto. 2. Procreazione medicalmente assistita: la cornice normativa. 3. Il percorso argomentativo dell’ordinanza del 27 gennaio 2021. 4. La decisione.
Il fatto.
Una interessante e recente sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha provocato un certo clamore. La vicenda riguarda una coppia di coniugi i quali dopo il fallimento di un primo tentativo di procreazione medicalmente assistita, si separa. A seguito della separazione la donna si rivolge al giudice al fine ottenere l’autorizzazione ad impiantare gli embrioni i quali erano rimasti congelati. Il marito ovviamente si oppone a tale richiesta.
Procreazione medicalmente assistita: la cornice normativa.
Ma cosa prevede la legge in merito alla procreazione medicalmente assistita? La legge di riferimento è la n.40 del 2004 la quale all’art. 5 prevede che le coppie maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi, possano accedere alla pma.
L’art. 6 invece prevede invece che la volontà di accedere alla pma sia espressa sulla base di un consenso informato ricevuto da un medico responsabile della struttura sanitaria nella quale verrà effettuato il trattamento. Tra l’espressione del consenso e l’intervento del medico devono trascorrere almeno 7 giorni. Il consenso può essere revocato “fino al momento della fecondazione dell’ovulo”. Tuttavia l’impianto nell’utero non può comunque avvenire coattivamente (perché si lederebbe il principio di cui all’art. 32 della Costituzione che vieta l’imposizione di trattamenti sanitari) quindi avvenuta la fecondazione l’uomo non potrà più revocare il consenso, viceversa la tardiva revoca del consenso della donna pur essendo in contrasto con la legge non potrà avvenire considerata l’impossibilità a proseguire nel trattamento sanitario.
In particolare l’art 6 della citata legge, al comma 1°, prevede: “Per le finalità indicate dal comma 3, prima del ricorso ed in ogni fase di applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita il medico informa in maniera dettagliata i soggetti di cui all’articolo 5 sui metodi, sui problemi bioetici e sui possibili effetti collaterali sanitari e psicologici conseguenti all’applicazione delle tecniche stesse, sulle probabilità di successo e sui rischi dalle stesse derivanti, nonché sulle relative conseguenze giuridiche per la donna, per l’uomo e per il nascituro. Alla coppia deve essere prospettata la possibilità di ricorrere a procedure di adozione o di affidamento ai sensi della legge 4 maggio 1983, n. 184,e successive modificazioni, come alternativa alla procreazione medicalmente assistita. Le informazioni di cui al presente comma e quelle concernenti il grado di invasività delle tecniche nei confronti della donna e dell’uomo devono essere fornite per ciascuna delle tecniche applicate e in modo tale da garantire il formarsi di una volontà consapevole e consapevolmente espressa”. Al comma 3°, “la volontà di entrambi i soggetti di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è espressa per iscritto congiuntamente al medico responsabile della struttura, secondo modalità definite con decreto dei Ministri della giustizia e della salute, adottato ai sensi dell’articolo17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. Tra la manifestazione della volontà e l’applicazione della tecnica deve intercorrere un termine non inferiore a sette giorni. La volontà può essere revocata da ciascuno dei soggetti indicati dal presente comma fino al momento della fecondazione dell’ovulo”.
Apposite regole sono dettate in merito alla tutela dell’embrione, l’art. 13 vieta la sperimentazione mentre è consentita la ricerca clinica e sperimentale sull’embrione per sole finalità terapeutiche e diagnostiche.
Altrettanto importante è l’art. 14 della legge il quale prima dell’intervento della Corte Costituzionale prevedeva che ai fini dell’esecuzione dell’intervento di procreazione dovesse essere creato un numero di embrioni non superiore a quello “strettamente necessario” e comunque in un numero non superiore a tre, la stessa disposizione vietava la crioconservazione e la soppressione degli embrioni. Nel caso in cui le condizioni della donna impedissero il trasferimento degli stessi nell’utero la crioconservazione era possibile fino alla data del trasferimento da realizzarsi il prima possibile.
La Corte Costituzionale afferma l’illegittimità della norma nella parte in cui limitava la produzione di embrioni al numero di tre, nonché nella parte in cui non prevedeva che l’impianto dovesse essere eseguito “non appena possibile” ma sempre “senza pregiudizio per la salute della donna”.
La Corte con decisione n. 97 del 2010 ribadisce che è venuto meno anche il divieto di crioconservazione quale logica conseguenza della caducazione del divieto di formazione di un numero di embrioni superiore a tre.
Il percorso argomentativo dell’ordinanza del 27 gennaio 2021.
Nell’ordinanza in esame la coppia presta il consenso alla pma presso l’Ospedale, successivamente alla fecondazione dell’ovocita la donna manifestava dei problemi di salute e pertanto la terapia veniva interrotta e gli embrioni crioconservati e trasferiti presso un altro Centro che si sarebbe poi occupato del successivo impianto. Nel frattempo la coppia viene messa in crisi da altre problematiche e sopraggiunge la separazione, il marito pertanto si rifiuta di prestare il consenso allo scongelamento degli embrioni e all’impianto. La donna quindi propone ricorso d’urgenza ex art. 700 cpc al fine di ottenere l’agognato impianto degli embrioni crioconservati nell’utero.
Il marito opponendosi a tale richiesta adduce per l’appunto la mancata prestazione di apposito consenso informato in favore del Centro e la mancanza del consenso allo scongelamento degli embrioni in contrasto con il dettato dell’art. 6 della legge n. 40/2004, comma 1° che richiede che il consenso sia prestato per ogni fase.
Il giudice di prime curie ordinava al Centro di procedere all’impianto degli embrioni crioconservati ma il marito proponeva reclamo avverso la decisione.
Il Tribunale al fine di giustificare la richiesta della donna ricostruisce la ratio della legge 40/2004. Il legislatore ha attribuito rilievo “al diritto alla vita” del concepito. Nei lavori preparatori alla legge si parla espressamente di diritto alla vita dell’embrione su cui è costruito l’intero impianto della legge stessa e il concepito si identifica senza dubbio con l’embrione. In particolare in merito al citato art. 13 nei lavori preparatori si legge: “Le disposizioni in questione danno quindi fondamento al diritto del concepito a nascere previsto dall’articolo 1”. La preminente tutela della vita è consacrata, poi, dalla disposizione dell’art. 6, comma 3° e dall’art. 14”. Pertanto la legge espressamente tutela l’embrione al quale, è riconoscibile un grado di soggettività correlato alla genesi della vita non certamente riducibile a mero materiale biologico.
Inoltre è stato espressamente riconosciuto il fondamento costituzionale della tutela dell’embrione, riconducibile al precetto generale dell’art. 2 della Costituzione, ritenuta suscettibile di affievolimento solo in casi di conflitto con altri interessi di pari rilievo costituzionale, come il diritto alla salute della donna che, in termini di bilanciamento risultino, in date situazioni, prevalenti.
Il Tribunale prosegue poi chiarendo che la tutela dei diritti di tutti i soggetti coinvolti, è attuato assicurando, da un lato, la consapevolezza del consenso alla pma e la possibilità di revoca sino alla fecondazione e dopo tale momento, ritenendo prevalente il diritto alla vita dell’embrione che potrà essere sacrificato solo a fronte del rischio di lesione del diritto alla salute della donna ex art. 1 della citata legge.
Il consenso, come sopra richiamato, potrà essere revocato solo prima della fecondazione e il divieto di revoca del consenso una volta effettuata la fecondazione non impone nessun trattamento sanitario non voluto – per quanto specificatamente attiene all’uomo – limitandosi a produrre effetti vincolanti sul piano dell’assunzione di genitorialità.
Inoltre il Tribunale ribadisce che fermo restando che l’art. 6 comma 1° stabilisce che le informazioni di cui al presente comma e quelle concernenti il grado di invasività delle tecniche nei confronti della donna e dell’uomo devono essere fornite per ciascuna delle tecniche applicate, il consenso dovrà essere rinnovato solo in caso di rilevate problematiche o anomalie del processo e tale interpretazione trova conferma nel decreto legge 265/2016 “Regolamento recante norme in materia di manifestazione della volontà di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, in attuazione dell’articolo 6, comma 3, della legge 19 febbraio 2004, n. 40”.
Il decreto legge citato prevede all’art. 1 comma 2° che “senza necessità di integrare il consenso già acquisito” gli elementi informativi di cui al comma 1, lettere c), f), g), h) ed o), sono forniti in ogni fase di applicazione delle tecniche di pma.
La decisione.
Il tribunale conclude quindi che da un punto di vista formale, non vi è alcuna necessità di integrare il consenso già reso, ferma la necessità di fornire alle parti le informazioni relative alle singole fasi.
Ciò posto secondo il Tribunale, il marito ha sottoscritto il consenso presso l’Ospedale dopo aver ricevuto tutte le informazioni previste dalla legge che è divenuto irrevocabile con la fecondazione e che dispiega effetti, pertanto anche nei confronti della diversa struttura incaricata di proseguire il processo attivato perché ciò che rileva per la legge è che le parti abbiano prestato il consenso non precludendo la possibilità di optare per una diversa struttura.
Non vi sono dubbi che le parti abbiano incaricato per la prosecuzione il Centro: le parti nel rivolgersi al Centro hanno sottoscritto il consenso per il trattamento dei dati personali e successivamente la donna si è sottoposta agli accertamenti indicati dal Centro stesso, preliminari all’impianto.
Tali elementi fanno univocamente ritenere che le parti abbiano instaurato il rapporto contrattuale e acconsentito alla prosecuzione della pma presso il Centro pertanto il consenso originario non necessita di integrazione.
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