Fatto
Una coppia di coniugi aveva agito, in nome proprio e del figlio minore, nei confronti della struttura sanitaria e del medico che aveva seguito la gravidanza della signora, chiedendo il risarcimento dei danni subiti a seguito della nascita del proprio figlio con malformazioni comportanti un’invalidità del 100%.
In particolare, deducevano gli attori che il dottore, pur avendo accertato un’infezione da citomegalovirus contratta in gravidanza dalla gestante, non li aveva informati circa i rischi e le conseguenze dannose che avrebbe potuto subire il nascituro, in modo da permettere alla gestante di esercitare il proprio diritto di interrompere la gravidanza. Gli attori deducevano, infatti, che a fronte di una specifica richiesta rivolta al dottore in ordine alla opportunità di interrompere la gravidanza in ragione dell’infezione contratta, il medico aveva escluso qualunque rischio per il nascituro e aveva evidenziato l’impossibilità di ricorrere all’aborto in quanto erano ormai decorsi i 90 giorni previsti dalla legge e il feto non aveva alcuna malformazione allo stato.
Il Tribunale di Roma respingeva la domanda degli attori e la Corte di Appello confermava la sentenza di prime cure. Secondo i giudici capitolini, infatti, la gestante avrebbe dovuto dimostrare l’esistenza delle condizioni di legge per ricorrere all’aborto e cioè che vi erano delle anomalie o malformazioni fetali la cui conoscenza aveva ingenerato uno stato patologico nella gestante tale da pregiudicare la sua salute fisica o psichica. Tuttavia, nel caso di specie, secondo il Collegio romano non vi era stata alcuna malformazione o anomalia del feto fino alla 28° settimana di gestazione, momento in cui il neonato aveva acquisito vita autonoma, anche se dette anomalie erano prevedibili statisticamente. In altri termini, secondo i giudici romani, la gestante non avrebbe potuto comunque esercitare il diritto ad interrompere la gravidanza perché nel momento ultimo in cui la stessa avrebbe potuto esercitare detto diritto, non vi era la certezza della sussistenza di un danno attuale al feto; mentre, allorquando dette malformazioni si erano verificate con certezza, era troppo tardi per poter effettuare l’aborto.
Gli attori ricorrevano quindi in Cassazione, sostenendo la erroneità della decisione di merito, in quanto la sussistenza del processo patologico in atto (dovuto all’infezione), posto che rendeva probabile statisticamente una malformazione fetale, legittimava da subito la gestante a interrompere la gravidanza anche se le malformazioni non si erano ancora verificate, e, conseguentemente, il sanitario avrebbe dovuto informare la gestante di tutti i rischi probabili che l’infezione da citomegalovirus avrebbe determinato per il feto.
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La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso ed ha cassato la sentenza di secondo grado, rinviando nuovamente la decisione alla Corte di Appello di Roma.
Preliminarmente, gli Ermellini hanno evidenziato come nel caso di specie si discuta della possibilità per la gestante di interrompere la gravidanza oltre il 90° giorno dal concepimento e come tale possibilità sia riconosciuta dalla legge in presenza di due condizioni alternative:
- nel caso in cui la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
- nel caso in cui siano accertati dei “processi patologici”, anche relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
Ebbene, secondo gli Ermellini, nel caso di specie, si discute della seconda condizione e i ricorrenti chiedono ai giudici di stabilire se in detta condizione vi rientrino soltanto i processi patologici che abbiano già determinato delle anomalie o malformazioni fetali (accertabili) oppure se vi rientrino anche i processi patologici che possano determinare con alta probabilità delle future anomalie o malformazioni fetali (anche se nel momento in cui la donna intende interrompere la gravidanza, tali anomalie non sono ancora sussistenti).
La Corte di Cassazione ha quindi ritenuto che l’interpretazione corretta della norma sull’interruzione di gravidanza sia quella che ricomprende anche i processi patologici idonei a determinare, con alta probabilità, le malformazioni fetali.
Dal punto di vista letterale, infatti, la disposizione normativa fa riferimento a “processi patologici” che possono riguardare anche “rilevanti anomalie o malformazioni del feto”: pertanto, il legislatore non richiede che vi siano delle attuali malformazioni del feto, ma dei processi patologici che possano essere relativi a malformazioni del feto, tali da cagionare un grave pericolo alla salute fisica o psichica della gestante. È quindi sufficiente che vi sia un rapporto di inerenza tra la patologia in essere e la malformazione fetale, non essendo invece necessario che detta malformazione sia attuale ed essendo invece sufficiente che via sia la probabilità che essa si verifichi.
In altri termini, secondo i giudici supremi la norma sull’interruzione di gravidanza non richiede che la malformazione fetale sia già manifestata e accertabile clinicamente, ma basta che sussista un processo patologico idoneo a poter sviluppare la malformazione.
Anche da un punto di vista della ratio normativa, gli Ermellini ritengono che il legislatore dia rilievo alla sussistenza del processo patologico in fatto e al grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna e che tali aspetti impongono di prendere in considerazione anche quella situazioni in cui la patologia non ha ancora determinato una malformazione del feto, ma può comunque causarla e pertanto può già determinare nella donna, nel momento in cui viene informata di tale possibile malformazione fetale, un grave pericolo alla sua salute psichica.
In considerazione di ciò, i giudici supremi, quindi, hanno ritenuto che il medico deve informare compiutamente la gestante della natura della patologia e anche degli effetti potenzialmente dannosi sul feto, anche se gli stessi non si sono ancora verificati (ma vi sia la probabilità statistica che si verifichino), in modo che la gestante possa prendere la propria decisione sull’interruzione di gravidanza valutando anche tutti i possibili sviluppi della malattia.
Pertanto, nel caso in cui il medico non fornisca una corretta e completa informazione anche sui probabili sviluppi, dannosi per il feto, della patologia in essere, il sanitario non consente alla gestante di acquisire i necessari elementi per compiere consapevolmente la propria scelta in ordine all’interruzione di gravidanza.
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