Il fatto e i motivi addotti nel ricorso per Cassazione
L’imputato, a mezzo del difensore, ricorreva per cassazione per l’annullamento dell’ordinanza del Tribunale del riesame di Catania che aveva a sua volta accolto l’appello del pubblico ministero avverso la sostituzione della misura degli arresti domiciliari che gli erano stati concessi dal Tribunale di Siracusa con quella della custodia in carcere ab initio applicata in ordine in ordine all’accusa di far parte di un clan mafioso ed essere autore di svariate estorsioni e tentate estorsioni, trasporto e traffico di stupefacenti e di numerosi furti, tutti commessi per favorire questo clan.
In particolare, con il primo motivo, si deduceva la violazione dell’art. 2, comma 1, lett. g) numero 2, lett. b) D.L. n. 11/2020 stante la tardività dell’impugnazione proposta dalla Procura di Catania avverso l’ordinanza di sostituzione della misura mentre, con il secondo motivo, si adduceva la violazione ed erronea applicazione dell’art. 275, commi 1-bis e 3 cod. proc. pen. rilevandosi a tal proposito, premesso che l’appello del p.m. era stato accolto in quanto il provvedimento di sostituzione della misura era privo di motivazione in ordine all’affievolimento delle esigenze cautelari (ritenute tali dal Tribunale di Siracusa per mero decorso del tempo), come il riferimento giurisprudenziale, in forza del quale l’ordinanza impugnata aveva fondato la motivazione di annullamento (Cass. n. 20304 del 30/3/2017), attenesse ad un caso differente ossia a un soggetto condannato per associazione mafiosa che si trovava in custodia carceraria mentre, nei confronti del ricorrente, non era intervenuta sentenza di condanna per tale reato essendo ancora imputato nel processo di primo grado in corso dinanzi al Tribunale di Siracusa.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il ricorso veniva dichiarato inammissibile per le seguenti ragioni.
Si osservava innanzitutto come il primo motivo di ricorso fosse inammissibile in quanto manifestamente infondato atteso che, ad avviso del Supremo Consesso, il ricorrente aveva riproposto la medesima eccezione sollevata dinanzi al Tribunale del riesame e motivatamente disattesa essendosi, per la Corte in modo condivisibile, osservato come ai sensi del D.L. n. 11 del 2020 erano stati sospesi i termini per la presentazione dell’impugnazione a meno che i detenuti o i loro difensori espressamente avessero richiesto di procedere mentre questa evenienza non si era verificata nel caso in esame trattandosi di appello proposto dal pubblico ministero.
Pure il secondo motivo del ricorso veniva considerato parimenti inammissibile perché la censura risultava, per gli Ermellini, essere aspecifica in quanto il ricorrente non si sarebbe confrontato con tutti i pregnanti orientamenti di legittimità richiamati dall’ordinanza impugnata che attenevano proprio al caso di specie limitandosi a richiamarne uno soltanto il cui principio, espresso in tema cautelare, comunque applicabile al caso in esame sotto il profilo dell’assenza di decisivo rilievo del mero decorso del tempo in costanza di misure cautelari che si fondano sul delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen..
Oltre a ciò, si faceva inoltre presente come tale motivo fosse anche manifestamente infondato atteso che vi è un consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità in tema di misure cautelari personali (cfr., Sez. 2, n. 1858 del 09/10/2013; Sez. 1, n. 24897 del 10/05/2013) secondo cui l’attenuazione o l’esclusione delle esigenze cautelari non possa essere desunta dal solo decorso del tempo di esecuzione della misura (o di altra che la preceda) o dall’osservanza puntuale delle relative prescrizioni dovendosi valutare ulteriori elementi di sicura valenza sintomatica in ordine al mutamento della situazione apprezzata all’inizio del trattamento cautelare: e questo in quanto il “tempo trascorso dalla commissione del reato” deve essere oggetto di valutazione, a norma dell’art. 292, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., da parte del giudice che emette l’ordinanza di custodia cautelare, mentre analoga valutazione non è richiesta dall’art. 299 cod. proc. pen. ai fini della revoca o della sostituzione della misura (Sez. 2, n. 46368 del 14/9/2016; Sez. 2, n. 47416 del 30/11/2011).
Ciò posto, si evidenziava inoltre come sia stato parimenti affermato che, in tema di richiesta di revoca della misura cautelare in carcere, il tempo trascorso può acquistare una positiva rilevanza per escludere il rischio di reiterazione del reato solo se accompagnato da altri elementi sintomatici di un mutamento della complessiva situazione inerente lo “status libertatis” del soggetto in quanto la disciplina prevede, a pena di inefficacia delle misure coercitive, termini di durata massima della custodia cautelare (Sez. 2, n. 10808 del 16712/2015).
Infine, si prendeva atto come la Cassazione, con orientamento che veniva ritenuto nel caso di specie dirimente anche ai fini del dedotto vizio di motivazione, abbia affermato che in caso di richiesta di revoca o sostituzione della custodia cautelare in carcere per uno dei reati per i quali – ai sensi dell’art. 275, comma terzo, cod. proc. pen., così come modificato dall’art. 4 della legge 16 aprile 2015, n. 47) – vigendo la presunzione relativa di adeguatezza della custodia in carcere, il giudice, che ritenga non vinta tale presunzione, può limitarsi a dare atto dell’inesistenza di elementi idonei a superarla dovendo fornire specifica motivazione soltanto quando la difesa abbia evidenziato circostanze idonee a dimostrare l’insussistenza di esigenze cautelari e/o abbia dedotto l’esistenza di elementi specifici dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere tutelate con misure diverse (Sez. 3, n. 48706 del 25/11/2015, Rv. 266029) e lo stesso dicasi con riguardo al tempo trascorso dall’applicazione della misura visto che, in tema di richiesta di revoca della misura cautelare in carcere, il tempo trascorso può acquistare una positiva rilevanza per escludere il rischio di reiterazione del reato solo se accompagnato da altri elementi sintomatici di un mutamento della complessiva situazione inerente lo “status libertatis” del soggetto, in quanto la disciplina prevede, a pena di inefficacia delle misure coercitive, termini di durata massima della custodia cautelare (Sez. 2, n. 10808 del 16/12/2015).
Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante nella parte in cui, citandosi giurisprudenza conforme, si afferma che l’attenuazione o l’esclusione delle esigenze cautelari non possa essere desunta dal solo decorso del tempo di esecuzione della misura (o di altra che la preceda) o dall’osservanza puntuale delle relative prescrizioni dovendosi valutare ulteriori elementi di sicura valenza sintomatica in ordine al mutamento della situazione apprezzata all’inizio del trattamento cautelare posto che, in tema di richiesta di revoca della misura cautelare in carcere, il tempo trascorso può acquistare una positiva rilevanza per escludere il rischio di reiterazione del reato solo se per l’appunto accompagnato da altri elementi sintomatici di un mutamento della complessiva situazione inerente lo “status libertatis” del soggetto.
E’ dunque sconsigliabile intraprendere una linea difensiva con cui, invece, si chieda la revoca della misura custodiale in carcere solo per il mero decorso del tempo in assenza di elementi sintomatici che possano deporre in tal senso.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su cotale tematica procedurale, quindi, non può che essere positivo.
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