Fattori compensativi della strong presumption di violazione dell’art. 3 CEDU: la pronuncia delle Sezioni Unite

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1.      Sovraffollamento carcerario e trattamenti inumani e degradanti

La questione inerente lo spazio minimo da assicurare a ciascun detenuto all’interno della cella ha suscitato nel tempo numerosi interventi da parte delle Corti nazionali ed europee. Tale tematica è intimamente connessa alla annosa questione che affligge in nostro sistema penitenziario relativa al problema del sovraffollamento carcerario. Sulla questione, un primo punto fermo è stato posto dai giudici della Corte EDU con la sentenza pilota nota come sentenza Torreggiani con la quale veniva condannata l’Italia per violazione dell’art 3 CEDU, in quanto, in estrema sintesi, lo stato di sovraffollamento carcerario presente in molti istituti congiunto ad altri fattori (come mancanza di luce ed acqua calda nelle celle) dava in concreto vita ad un trattamento inumano e degradante, come tale contrario appunto all’art 3 CEDU.

In esecuzione di tale previsione, ed al fine di evitare di incorrere in ulteriori sanzioni, sono stati introdotti nell’ordinamento penitenziario due nuovi articoli: l’art 35 bis o.p. che è andato a prevedere un strumento di carattere preventivo con il quale mettere il detenuto nella condizione di far valere la pretesa violazione dell’art 3 CEDU mediante la predisposizione di un rimedio di carattere giurisdizionale e l’art 35 ter o.p. che delinea, invece, un meccanismo compensativo/risarcitorio in caso di avvenuta violazione.

Eppure, nonostante le prime manifestazioni “benefiche” di tale intervento, ad oggi la situazione delle carceri italiane è tutt’altro che florida. Tali problematiche sono state acuite dallo scoppio della pandemia. Invero, in una situazione di emergenza sanitaria come quella che stiamo vivendo il sovraffollamento carcerario rischia di condurre a conseguenze ancor più disastrose nel momento in cui il contagio si diffonde nelle carceri.

Tuttavia, prescindendo dalla trattazione di tali aspetti i quali aprirebbero scenari diversificati e complessi, e rimanendo nell’ambito della teoria generale, da un punto di vista numerico, al fine di rendere un dato concreto, lo spazio minimo da assicurar a ciascun detenuto all’interno della cella è di 3 metri quadrati.

2. Modalità di calcolo dello spazio

Le problematiche inerenti il calcolo dello spazio sono state molteplici.

A livello della giurisprudenza nazionale la Corte di Cassazione si è espressa in merito alle modalità di calcolo della superfice. In particolare, la Suprema Corte [1] ha ritenuto che la superficie a cui si applicano i parametri minimi individuati dalla Corte EDU deve essere intesa come spazio utile al fine di garantire il movimento del soggetto recluso nello spazio detentivo, il che esclude di poter inglobare nel computo gli arredi fissi, in ragione dell’ingombro che ne deriva.

La Suprema Corte ha affermato che il letto non possa quindi essere considerato come una superficie utile allo svolgimento delle attività sedentarie del detenuto, ma che costituisca, al contrario, una limitazione della possibilità di muoversi. Successivamente, la Cassazione ha invece specificato che per spazio minimo individuale del detenuto in cella va intesa la superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto occupante la cella ed idonea al movimento, con la conseguente necessità di detrarre dalla complessiva superficie non solo lo spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi, ma anche quello occupato dal letto. Nel computo della superficie quindi si deve tenere conto dell’area in cui il detenuto ha libertà di muoversi. Da tale area vanno poi sottratti gli spazi occupati non solo dai servizi igienici, ma anche dal letto e da tutti gli altri arredi tendenzialmente fissi, che costituiscono un ingombro e limitano la possibilità di movimento (restano invece esclusi gli arredi facilmente amovibili). In merito alle già richiamate presunzioni si evince che, nel caso di sussistenza della forte possibilità di trattamento degradante del detenuto costituito dall’essere stato costui ristretto in stanza di detenzione in cui lo spazio per il suo movimento sia stato inferiore ai 3 metri quadrati., per il superamento di tale presunzione occorre considerare, unitariamente, la brevità della permanenza in cella in tale condizione, l’esistenza di sufficiente libertà di circolazione fuori dalla cella, l’esistenza di adeguata offerta di attività da svolgersi fuori della cella, le buone condizioni complessive dell’istituto di detenzione, l’assenza di altri aspetti negativi del trattamento penitenziario quanto a condizioni igieniche e servizi forniti. Ecco quindi che anche all’interno della stessa giurisprudenza nazionale si evidenziano dei forti contrasti in merito alle modalità di calcolo dello spazio minimo concesso a ciascun detenuto.
Sul punto, la Cassazione [2] ha di recente affermato che “nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello”.

È opportuno poi specificare che l’ambito di operatività dell’art. 35 ter O.P.
è espressamente circoscritto all’ipotesi di grave pregiudizio cagionato dall’inottemperanza, da parte dell’Amministrazione penitenziaria, delle disposizioni previste dall’ordinamento penitenziario consistente nella sottoposizione del ristretto a condizioni detentive non conformi all’art. 3 CEDU, come interpretato dalla Corte EDU.

Nella specie, la tutela si articola in modalità differenti, a seconda della specifica situazione concreta: in primo luogo, si prescrive la riduzione della pena detentiva ancora da espiare dal ricorrente, pari a un giorno per ogni dieci di pregiudizio sofferto, in ipotesi di violazione attuale e persistente, di durata minima pari a quindici giorni.

Qualora il periodo di pena detentiva residuo non sia tale da consentire la suddetta sottrazione percentuale, ovvero la lesione accertata sia di durata inferiore alla soglia temporale prefissata, il ricorrente può ottenere un risarcimento monetario quantificato ex lege in 8 euro per ciascun giorno di violazione.
Infine, il successivo comma 3, in un’ottica di chiusura del sistema, sancisce la facoltà di promuovere un’azione in sede civile nel termine decadenziale di sei mesi dalla cessazione dello stato di detenzione o della misura cautelare inframuraria. Orbene, si evince che la tematica in esame non sia così scontata: si registra infatti all’interno della giurisprudenza comunitaria e di quella nazionale delle profonde differenze, foriere di profonde ingiustizie e lesive di diritti costituzionalmente garantiti.

 

3. L’ultima (definitiva?) pronuncia delle Sezioni Unite

 

Al fine di risolvere la questione, che è del tutto esente dal comportare gravi e concrete conseguenze sul piano pratico, sono intervenute di recente le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 6551, del 19 febbraio 2021.

 

Il quesito sottoposto alle Sezioni Unite era il seguente:  “Se, in tema di conformità delle condizioni di detenzione all’art. 3 CEDU come interpretato dalla Corte EDU, lo spazio minimo disponibile di tre metri quadrati per ogni detenuto debba essere computato considerando la superficie calpestabile della stanza ovvero quella che assicuri il normale movimento, conseguentemente detraendo gli arredi tutti senza distinzione ovvero solo quelli tendenzialmente fissi e, in particolare, se, tra questi ultimi, debba essere detratto il solo letto a castello ovvero anche quello singolo.

Le SS.UU. hanno fornito la loro soluzione rispetto agli orientamenti della Corte di cassazione non uniformi sui criteri di calcolo dello spazio minimo da assicurare a ciascun detenuto: dette le pronunce, in particolare, divergevano per quel che riguarda la stessa nozione di “spazio disponibile, inteso come “superficie materialmente calpestabile” ovvero come “superficie che assicuri il normale movimento nella cella”.

Nel delineare la risoluzione della questione, le Sezioni Unite vogliono riaffermare il principio secondo il quale la condizione di detenzione non comporta per il soggetto ristretto la perdita delle garanzie dei diritti affermati dalla Convenzione che, al contrario, assumono specifica rilevanza proprio a causa della situazione di particolare vulnerabilità in cui si trova la persona.
Dando atto degli orientamenti della Corte EDU, la Corte di Cassazione si sofferma sull’ultima pronuncia della Grande Camera nel procedimento Muri c. Croazia.
Con tale sentenza la Corte EDU ricomprende il complesso delle condizioni di detenzione, positive e negative, in una valutazione unitaria, rispettosa della dignità dell’essere umano detenuto, per il quale l’esperienza carceraria è unica precisando, inoltre, la portata e le caratteristiche del tema dello spazio ridotto riservato ad ogni detenuto in conseguenza del sovraffollamento carcerario, emerso come fattore di notevole rilevanza per la valutazione richiesta. La Grande Camera opta per una valutazione multifattoriale e cumulativa delle concrete condizioni detentive in cui gioca un ruolo rilevante anche il dato temporale.
Inoltre specifica che: “(…) il calcolo della superficie disponibile nella cella deve includere lo spazio occupato dai mobili” e che: “è importante determinare se i detenuti hanno la possibilità di muoversi normalmente nella cella”. Le Sezioni Unite ritengono di interpretare in maniera combinata le due proposizioni in quanto ciò consentirebbe di attribuire rilievo, ai fini della possibilità di movimento in una stanza chiusa, a tutto il mobilio che equivale ad una parete: in tale ottica la superficie destinata al movimento nella cella viene limitata dalle pareti, nonché dagli arredi che non si possono in alcun modo spostare e che, quindi, fungono da parete o costituiscono uno spazio inaccessibile.
La duplice regola dettata dalla Corte EDU può essere legittimamente interpretata nel senso che: “quando la Corte afferma che il calcolo della superficie disponibile nella cella deve includere lo spazio occupato dai mobili, con tale ultimo sostantivo intende riferirsi soltanto agli arredi che possono essere facilmente spostati da un punto all’altro della cella“.
Orbene, la soluzione interpretativa prescelta dalla Corte di Cassazione, non troverebbe poi una valida obiezione nella possibile allocazione di alcuni arredi fissi, quali gli armadi, fuori dalla cella per consentire la presenza di un maggior numero di persone: da una parte, le istanze di rimedi risarcitori O.P. ai sensi dell’art. 35-ter p. vengono avanzate con riferimento a periodi di detenzione già trascorsi, per i quali, quindi, non sono ipotizzabili manovre dirette ad alterare il dato dello spazio minimo inferiore a tre metri quadrati posto a base della domanda; dall’altra, la legge fornisce il diverso strumento previsto dall’art. 35 bis, comma 3, O.P..

La Corte inoltre detta alcune specifiche in merito all’art. 35 ter O.P..
La nozione di fattori compensativi si attaglia soltanto a quelli di carattere positivo che, in qualche modo, possono attenuare il disagio di uno spazio troppo ristretto all’interno della cella, ma anche i fattori di natura negativa possono interagire con il sovraffollamento ai fini di una valutazione di avvenuta violazione dell’art. 3 CEDU e conseguente accoglimento dell’istanza di rimedio risarcitorio.
È possibile affermare che il riconoscimento di trattamenti disumani e degradanti è frutto di una valutazione multifattoriale della complessiva offerta trattamentale da parte dell’Amministrazione penitenziaria in caso di restrizione in una cella collettiva in cui lo spazio sia uguale o superiore al livello minimo di tre metri quadrati, ma inferiore a quattro metri quadrati e, quindi, pur non violando la regola dettata dalla Corte EDU, possa costituire un fattore negativo ai fini della valutazione delle condizioni complessive di detenzione

In questa ipotesi la contestuale sussistenza di altri fattori negativi potrà portare a ritenere violato l’art. 3 della Convenzione. Tali fattori sono indicati nella mancanza di accesso al cortile o all’aria e alla luce naturale, nella cattiva aereazione, in una temperatura insufficiente o troppo elevata nei locali, nell’assenza di riservatezza nelle toilette, nelle cattive condizioni sanitarie e igieniche.
Sul punto quindi la Corte di Cassazione afferma che: “deve, quindi, essere affermato il seguente principio di diritto: “i fattori compensativi costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività, se ricorrono congiuntamente, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati; nel caso di disponibilità di uno spazio individuale fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi, unitamente ad altri di carattere negativo, concorrono alla valutazione unitaria delle condizioni di detenzione richiesta in relazione all’istanza presentata ai sensi dell’art. 35 ter O.P.”.

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Note bibliografiche

[1] Cass. Pen., sez. I, 09.09.16, n. 52819.

[2] Cass. Pen., sez. I, 30.10.20, n. 33822.

 

 

Silvia Ingrosso

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