SOMMARIO: 1. Introduzione al caso. – 2. Il thema decidendum della Corte. – 3. L’antefatto portato alla Corte costituzionale. – 4. La decisione della Corte in materia di bilanciamento di diritti fondamentali. – 5. Un possibile conflitto di attribuzione non sorto. – 6. Una possibile conclusione.
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Introduzione al caso
In questa sentenza la Corte costituzionale affronta il delicato problema dei rapporti tra potere giudiziario e potere politico- amministrativo nella prevenzione dei reati ambientali. E’ di tutta evidenza che sul campo intervengono plurimi bilanciamenti.
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Il thema decidendum della Corte
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Taranto ha sollevato, con ordinanza depositata in data 22 gennaio 2013, questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 3 della legge 24 dicembre 2012, n. 231, recante disposizioni urgenti a tutela della salute, dell’ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale ed ugualmente degli artt. 1 e 3 del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207 – in relazione agli artt. 2, 3, 9, secondo comma, 24, primo comma, 25, primo comma, 27, primo comma, 32, 41, secondo comma, 101, 102, 103, 104, 107, 111, 112, 113 e 117, primo comma, della Costituzione.
Qui il primo blocco degli interessi contrapposti affidato al bilanciamento della Corte è il seguente: da un lato, il complesso dei diritti alla salute e alla tutela dell’ambiente (artt. 2, 9 e 32 Cost.), e, dall’altro, i diritti dell’impresa (art. 41 Cost.).
Le norme censurate hanno infatti come obiettivo la prosecuzione dell’attività d’impresa in presenza dei sequestri preventivi disposti dalla magistratura di Taranto. All’art. 1 del citato d.l. n. 207 del 2012 è previsto che, presso gli stabilimenti dei quali sia riconosciuto l’interesse strategico nazionale e che occupino almeno duecento persone, l’esercizio dell’attività di impresa, quando sia indispensabile per la salvaguardia dell’occupazione e della produzione, possa continuare per un tempo non superiore a 36 mesi, anche nel caso sia stato disposto il sequestro giudiziario degli impianti. Al successivo art. 3 è stabilito che l’impianto siderurgico Ilva di Taranto costituisce stabilimento di interesse strategico nazionale e che la società indicata è reimmessa nel possesso degli impianti e dei beni sottoposti a sequestro dell’autorità giudiziaria.
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L’antefatto portato alla Corte costituzionale
Il 25 luglio 2012, su richiesta della Procura della Repubblica di Taranto, lo stesso giudice a quo aveva disposto l’applicazione di misure cautelari personali e reali con riguardo a delitti realizzati, secondo l’ipotesi accusatoria, nella gestione dell’impianto siderurgico dell’Ilva S.p.A. di Taranto. Si procedeva in particolare, nei confronti di amministratori e dirigenti della società per reati ambientali integrati mediante emissioni nocive nell’atmosfera di polveri e gas (artt. 81 e 110 del codice penale; artt. 24 e 25 del d.P.R. 24 maggio 1988, n. 203, recante «Attuazione delle direttive CEE numeri 80/779, 82/884, 84/360 e 85/203 concernenti norme in materia di qualità dell’aria, relativamente a specifici agenti inquinanti, e di inquinamento prodotto dagli impianti industriali, ai sensi dell’art. 15 della legge 16 aprile 1987, n. 183»; artt. 256 e 279 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante «Norme in materia ambientale»). Si procedeva, inoltre, riguardo ad ipotesi di concorso nei reati (talvolta continuati) di cui agli artt. 434 (Crollo di costruzioni o altri disastri dolosi), 437 (Rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro), 439 (Avvelenamento di acque o di sostanze alimentari), 635 (Danneggiamento), 639 (Deturpamento e imbrattamento di cose altrui), 674 (Getto pericoloso di cose) del codice penale.
Secondo la prospettazione del pubblico ministero, la disciplina censurata consentirebbe, nonostante la connotazione penalmente illecita dell’attività, di proseguire per 36 mesi la propria produzione, in violazione dell’art. 3 Cost.
In questo modo la normativa in questione avrebbe «espropriato» la funzione giurisdizionale, vanificando l’efficacia dei provvedimenti cautelari adottati e precludendo l’adozione di nuove cautele, a fronte della perdurante attività illecita. Di fatto il legislatore sarebbe intervenuto a modificare un atto dell’autorità giudiziaria senza mutare il quadro normativo di riferimento, dando vita ad una legge provvedimento fuori dai casi ritenuti ammissibili dalla giurisprudenza costituzionale.
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La decisione della Corte in materia di bilanciamento di diritti fondamentali
Dal riconoscimento che tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri giunge ad affermare che l’illimitata espansione di uno dei diritti lo tramuterebbe in “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona (punto 9 del Considerato in diritto). Sarà un punto ripreso anche nella Corte Costituzionale, 23 marzo 2018, n.58, relatore Cartabia[1] infatti in entrambe si arriva ad affermare che per essere tale, il bilanciamento deve essere condotto senza consentire «l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno”» (sent. n. 85 del 2013, relatore Silvestri). Il bilanciamento deve, perciò, rispondere a criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, in modo tale da non consentire né la prevalenza assoluta di uno dei valori coinvolti, né il sacrificio totale di alcuno di loro, in modo che sia sempre garantita una tutela unitaria, sistemica e non frammentata di tutti gli interessi costituzionali implicati.
La Corte ha ancora una volta ripetuto che nessun principio o diritto riconosciuto dalla Costituzione, anche se essa lo definisce come “fondamentale”, deve essere considerato assoluto e prevalente, perché tutti “i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca” è sono perciò soggetti a bilanciamento: non si può condividere l’assunto del rimettente giudice per le indagini preliminari, secondo cui l’aggettivo «fondamentale», contenuto nell’art. 32 Cost., sarebbe rivelatore di un «carattere preminente» del diritto alla salute rispetto a tutti i diritti della persona.
Il Giudice delle leggi “rafforza” la tutela costituzionale degli interessi dell’impresa chiamando in campo l’applicazione dell’art. 4 Cost. e ponendo in secondo piano i limiti individuati dall’art. 41 Cost.. «libertà di iniziativa economica privata, tutelata dall’art. 41 Cost., ma anche le ricadute occupazionali dell’eventuale chiusura e dismissione degli impianti[…]
Così reimpostata la questione, il “peso” delle ragioni dell’impresa e della garanzia costituzionale dei diritti collegati aumenta notevolmente, costituendo una premessa essenziale per giungere al rigetto delle questioni sollevate in relazione agli artt. 1 e 3 del d.l. n. 207 del 2012 (ed ai corrispondenti articoli della legge di conversione)».
In sintesi, nella sentenza n. 85/2013 la Corte nega che sussista una illegittima compressione del diritto alla salute e all’ambiente salubre dichiarando infondate le numerose questioni di legittimità costituzionale, poste dal G.I.P. di Taranto.
Nel 2012 il bilanciamento realizzato dal Decreto “Salva Ilva” è reputato ragionevole in quanto finalizzato ad assicurare una tutela concomitante del diritto al lavoro e all’iniziativa economica, principi “di fatto” risultati preminenti rispetto agli altri, affidati alla (formale) tutela delle valutazioni A.I.A. in sede amministrativa[2]. La decisione della Corte costituzionale n. 58/2018, si vedrà invece che avrà sviluppi differenti.
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Un possibile conflitto di attribuzione non sorto
Scrive ancora la Corte – “non può essere contestato nel merito delle scelte compiute dalle amministrazioni competenti, che non possono essere sostituite da altre nella valutazione discrezionale delle misure idonee a tutelare l’ambiente ed a prevenire futuri inquinamenti, quando l’esercizio di tale discrezionalità non trasmodi in un vizio denunciabile nelle sedi giurisdizionali competenti”
Un secondo gruppo di censure, oltre a quelle riguardanti il bilanciamento del principio della salute, attiene a violazioni degli artt. 101, 102, 103, 104, 107 e 111 Cost. La normativa in questione, infatti, sarebbe stata adottata per regolare un singolo caso concreto, con norme prive dei caratteri di generalità ed astrattezza, e senza modificare il quadro normativo di riferimento, così da vulnerare la riserva di giurisdizione ed «il principio costituzionale di separazione tra i poteri dello Stato».
Ancora, la disciplina censurata contrasterebbe con gli artt. 25, 27 e 112 Cost., in quanto elusiva dell’obbligo di accertare e prevenire i reati e del dovere, posto a carico del pubblico ministero, di esercitare l’azione penale: tale effetto si connetterebbe alla legittimazione dell’ulteriore corso, per 36 mesi, di attività produttive altamente inquinanti, ed alla previsione della sola pena pecuniaria, per un valore pari ad una quota del fatturato, riguardo ad eventuali violazioni delle prescrizioni impartite.
Secondo una massima costantemente ripetuta dalla Cassazione, il sequestro preventivo non finalizzato alla confisca “implica l’esistenza di un collegamento tra reato e la cosa e non tra reato e il suo autore” . L’ipotesi del reato non può però essere del tutto trascurata, perché la prevenzione svincolata dal reato spetta soltanto all’autorità amministrativa: la autorità giudiziaria non può sostituirsi alla pubblica amministrazione in attività di prevenzione non finalizzate contestualmente alla repressione del reato.[3]
La semplice ricognizione della normativa sui controlli e sulle sanzioni, contraddice l’assunto del rimettente Giudice per le indagini preliminari, e cioè che i 36 mesi concessi ad una impresa, che abbia le caratteristiche previste, «costituiscono una vera e propria “cappa” di totale “immunità” dalle norme penali e processuali». Non solo la disposizione censurata non stabilisce alcuna immunità penale per il periodo sopra indicato, ma, al contrario, rinvia esplicitamente sia alle sanzioni penali previste dall’ordinamento per i reati in materia ambientale, sia all’obbligo di trasmettere le eventuali notizie di reato all’autorità “competente”, cioè all’autorità giudiziaria.
Non è pertanto intaccato il potere-dovere del pubblico ministero di esercitare l’azione penale, previsto dall’art. 112 Cost, è considerata lecita la continuazione dell’attività produttiva di aziende sottoposte a sequestro,
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Una possibile conclusione
In generale, quella prospettata è una questione non nuova per i penalisti, che con frequenza negli ultimi decenni si trovano a dover compiere simili bilanciamenti nei processi per esposizione a sostanze tossiche connessi a processi produttivi, allorché debbano definire gli standard di condotta ai quali l’imprenditore avrebbe dovuto conformarsi per sottrarsi a un rimprovero per colpa. Ancor prima, tali bilanciamenti stanno alla base delle norme cautelari di fonte legislativa o regolamentari, che entreranno poi nei processi penali quali parametri per la valutazione della colpa specifica. Ma la peculiarità di questa vicenda sta nell’aver portato allo scoperto la tensione tra istituzioni e poteri dello Stato che rivendicano una competenza esclusiva ad operare tali bilanciamenti, o per lo meno il diritto a dire l’ultima parola sui bilanciamenti medesimi[4].
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Note
[1] Domenico, Pulitanò, Una nuova ‘sentenza ILVA’. Continuità o svolta?, Giurisprudenza Costituzionale, fasc.2, 2018, pag. 604.
[2] Vincenza Immacolata Gigante, I PRINCIPI «COSTITUZIONALMENTE» TUTELATI E LA LORO CONTRAPPOSIZIONE: Nota dalla sentenza n. 85/2013 Corte Cost., Rivista Giuridica AmbienteDiritto.it – ISSN 1974-9562 -, fasc. 4/2019, p. 1-11.
[3] Roberto Bin, L’ILVA E IL SOLDATO BALDINI, Diritto penale contemporaneo, 2013.
[4] Francesco Viganò, IL CASO ILVA (E MOLTO ALTRO, Diritto penale contemporaneo, Milano, 2013.
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