Il fatto
La Corte di Appello di Roma, in riforma di una sentenza emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Velletri, rideterminava la pena inflitta all’imputato in mesi dieci giorni venti di reclusione ed euro 2.400,00 di multa confermando nel resto la condanna per il reato di cui all’art. 73, comma IV, d.P.R. 9 ottobre 1990, n.309 relativo alla detenzione a fine di cessione di g. 139,8 di marijuana al 4,2 % di principio attivo, pari a 235 dosi singole e di g. 15,3 di marijuana al 3,4 % di principio attivo, pari a 21 dosi singole.
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Compendio di Diritto Penale – Parte speciale
Il testo è aggiornato a: D.Lgs. 75/2020 (lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione); D.L. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni); L. 113/2020 (Disposizioni in materia di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni) e D.L. 130/2020 (c.d. decreto immigrazione). Fabio PiccioniAvvocato del Foro di Firenze, patrocinante in Cassazione; LL.B., presso University College of London; docente di diritto penale alla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali; coordinatore e docente di master universitari; autore di pubblicazioni e monografie in materia di diritto penale e amministrativo sanzionatorio; giornalista pubblicista.
Fabio Piccioni | 2021 Maggioli Editore
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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso la summenzionata decisione proponeva ricorso per Cassazione l’imputato, per tramite del suo difensore, deducendo i seguenti motivi: 1) violazione di norme processuali per avere la Corte di Appello omesso di esaminare il motivo di appello articolato con riguardo alla esclusione dell’ipotesi lieve dell’art. 73, comma 5, d.P.R. 309/90; in particolare, veniva osservato come nel motivo di appello fosse stata censurata la decisione del Tribunale evidenziandosi la modestia dei mezzi e dell’organizzazione apprestata per lo spaccio, l’esiguità della quantità delle sostanze detenute, la modesta qualità delle medesime mentre, a fronte di tale doglianza, la Corte di appello si sarebbe limitata a definire come “significativo” il quantitativo di sostanza stupefacente, omettendo ogni disamina della relativa questione, non potendosi quindi ritenere neppure implicitamente richiamata per relationem la motivazione della sentenza di primo grado; 2) violazione di legge con riferimento alla qualificazione del fatto rispetto alla configurabilità dell’ipotesi lieve di cui al comma quinto dell’art. 73 d.P.R. 309/90 rilevandosi a tal proposito che il fatto contestato appariva essere suscettibile di tale qualificazione, essendo erronea la valutazione del carattere assorbente del dato ponderale, in mancanza di una valutazione degli altri parametri afferenti le modalità e le altre circostanze del fatto dovendosi escludere che una sola circostanza possa assumere a priori carattere ostativo alla qualificazione del fatto come di lieve entità.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il ricorso veniva reputato infondato, e quindi, rigettato, per le seguenti ragioni.
Si osservava a tal riguardo innanzitutto che, se è vero che effettivamente nella sentenza di appello il motivo di gravame dedotto sulle ragioni del mancato riconoscimento del fatto lieve di cui all’art. 73, comma 5, d. P.R. 309/90 non era stato espressamente trattato atteso che nella sentenza impugnata la motivazione era centrata essenzialmente sulla questione della conservazione consapevole della sostanza stupefacente per escludere la verosimiglianza della tesi difensiva secondo cui il quantitativo rinvenuto nell’abitazione dell’imputata costituiva un residuo della droga detenuta in passato, relativa ad un periodo in cui l’imputato, trovandosi agli arresti domiciliari, ne faceva uso personale e che sarebbe rimasta abbandonata da circa tre anni per mera dimenticanza nello stesso luogo dove era stata poi trovata dalle forze di polizia all’esito di una perquisizione domiciliare, è però altrettanto vero che costituisce un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità che l’omesso esame di un motivo di appello da parte della Corte di merito non dà luogo a un difetto di motivazione rilevante a norma dell’art. 606 cod. proc. pen., nè determina incompletezza della motivazione della sentenza, allorché, pur in mancanza di espressa disamina, il motivo proposto debba considerarsi implicitamente disatteso perché incompatibile con la struttura e con l’impianto della motivazione nonché con le premesse essenziali, logiche e giuridiche che compendiano la ratio decidendi della sentenza medesima (Sez. 2 n. 35817 del 10/07/2019).
Ciò posto, veniva altresì fatto presente che, tenuto conto della pena in concreto irrogata pari al minimo edittale previsto per l’ipotesi di cui all’art. 73, comma 4, d. P.R. 309/90, ulteriormente diminuita per il riconoscimento delle attenuanti generiche prevalenti sulla recidiva e del quantitativo di sostanza stupefacente (256 dosi) ritenuto destinato nella sua interezza allo spaccio, la mancata riqualificazione del fatto nell’ipotesi lieve risultava essere coerente con le valutazioni operate conformemente nei due gradi di giudizio di merito dal momento che, trattandosi di un quantitativo obiettivamente “significativo” (256 dosi di marijuana) ed essendone stata esclusa anche la parziale destinazione ad uso personale, con motivazione, per la Suprema Corte, coerente nella ricostruzione complessiva del fatto, la considerazione del dato ponderale, ritenuto significativo, come elemento sintomatico negativamente assorbente, giustificava, sempre ad avviso del Supremo Consesso, il mancato riconoscimento dell’ipotesi del quinto comma dell’art. 73 d. P.R. 309/90 e ciò perché la valutazione del dato ponderale, quando sia relativa ad un peso rilevante, misurabile non in decine ma in centinaia di dosi, come nel caso di specie, può assumere valore negativo assorbente per la incompatibilità con l’ipotesi del c.d. piccolo spaccio, in assenza di elementi concreti che possano essere apprezzati in tal senso (Sez. 6, n. 15642 del 27/01/2015) essendo stato più volte affermato che l’ipotesi del fatto di lieve entità di cui all’art. 73, comma quinto, d.P.R. n. 309 del 1990 può essere riconosciuta solo in ipotesi di minima offensività penale della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione (mezzi, modalità, circostanze dell’azione) con la conseguenza che, ove uno solo degli indici previsti dalla legge risulti negativamente assorbente, ogni altra considerazione resta priva di incidenza sul giudizio (Sez. U, n. 35737 del 24/06/2010; Sez. U, n. 17 del 21/06/2000).
Oltre a quanto sin qui enunciato, veniva altresì rilevato che, senza escludere il doveroso carattere globale della valutazione degli elementi fattuali che possono essere ritenuti indicativi di una minore offensività del fatto, nel caso in cui dalla complessiva valutazione del fatto, tenuto conto delle sue concrete modalità, non emergevano obiettivi indici positivi in grado di annullare la valenza sintomatica del dato ponderale, la considerazione di tale elemento come preponderante, rispetto agli altri, giustificava, per i giudici di legittimità ordinaria, la qualificazione del fatto come non riconducibile nella fattispecie prevista dall’art. 73, comma 5. (in tal senso, vedi Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018).
Per di più, una volta richiamato tale approdo ermeneutico, gli Ermellini evidenziavano inoltre come si dovesse anche tenere conto che, a seguito della reviviscenza della più favorevole disciplina sanzionatoria prevista per le droghe cosiddette leggere (da due a sei anni di reclusione e da 5.164 a 77.468 di multa) per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 25 febbraio 2014, l’applicazione dell’ipotesi del quinto comma dell’art. 73 cit. e della relativa cornice edittale (da sei mesi a quattro anni di reclusione e da 1.032 a 10.329 di multa), con riguardo a tale tipologie di sostanze, si pone sicuramente in termini di minore divario sanzionatorio rispetto alla previgente disciplina che prevedeva per l’ipotesi ordinaria una pena da otto a venti anni di reclusione, indistinta per tutte le tipologie di sostanza stupefacente atteso che la previsione della fattispecie di lieve entità costituisce uno strumento di riequilibrio del sistema sanzionatorio in materia di stupefacenti in relazione a casi concreti nei quali, per la complessiva minore gravità della condotta, il principio di offensività verrebbe ad essere sostanzialmente eluso, applicando le più severe pene previste per le ipotesi diverse dal comma 5 dello stesso art. 73 T.U. stup..
Orbene, declinando tali criteri ermeneutici rispetto al caso di specie, i giudici di piazza Cavour notavano come, al di là del dato ponderale riferito non solo al quantitativo lordo ma anche e soprattutto alla percentuale di principio attivo (equivalente ad un numero obiettivamente elevato di singole dosi), non fossero stati apprezzati ed individuati elementi che avrebbero potuto ridimensionare la gravità del fatto in modo da far ritenere sproporzionata la pena che era stata in concreto ritenuta congrua per effetto anche del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Il riferimento alle modalità non organizzate dell’attività di spaccio, quindi, era stato evidentemente stato ritenuto recessivo rispetto ad una condotta in cui l’unico dato certo era stato individuato nella detenzione di un significativo quantitativo di sostanza destinata allo spaccio rispetto alla rilevata assenza di elementi certi riferibili alle modalità con cui la sostanza detenuta venisse poi ceduta.
Pertanto, per gli Ermellini, anche per tali considerazioni, la delimitazione dell’ambito di applicazione dell’ipotesi di reato prevista dal quinto comma ai casi di obiettiva minore offensività rendeva ragione della maggiore pregnanza riconosciuta al dato ponderale come elemento discretivo essenziale di tale fattispecie rispetto a quella ordinaria non emergendo dalla ricostruzione complessiva del fatto elementi obiettivi indicativi di una minima offensività del fatto.
Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante essendo ivi chiarito quando l’omesso esame di un motivo di appello da parte della Corte di merito non dà luogo a un difetto di motivazione rilevante a norma dell’art. 606 cod. proc. pen..
Difatti, in tale pronuncia, citandosi un precedente conforme, si postula l’appunto che l’omesso esame di un motivo di appello da parte della Corte di merito non dà luogo a un difetto di motivazione rilevante a norma dell’art. 606 cod. proc. pen., nè determina incompletezza della motivazione della sentenza, allorché, pur in mancanza di espressa disamina, il motivo proposto debba considerarsi implicitamente disatteso perché incompatibile con la struttura e con l’impianto della motivazione nonché con le premesse essenziali, logiche e giuridiche che compendiano la ratio decidendi della sentenza medesima.
Da ciò consegue che l’omesso esame di un motivo di appello non rappresenta una condizione sufficiente perché un ricorso per Cassazione possa essere accolto qualora, come appena visto, il motivo proposto sia stato implicitamente disatteso perché incompatibile con la struttura e con l’impianto della motivazione nonché con le premesse essenziali, logiche e giuridiche che compendiano la ratio decidendi della sentenza medesima.
È dunque consigliabile dedurre l’omesso esame di un motivo di appello solo nella misura in cui esso non sia stato preso in considerazione dai giudici di seconde cure né esplicitamente, né implicitamente (nei termini appena esposti).
Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su cotale tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.
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