Il reato di usura

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Introduzione

Cos’è l’usura?

Si tratta, in linea generale, di un fenomeno di natura criminale a grande impatto sociale.

Il termine “usura” (dal latino uti, usare), che viene correntemente impiegato per designare un prestito di denaro ad alto interesse, è contrassegnato dalla partecipazione attiva di due soggetti: l’usuraio e l’usurato. L’usuraio è la persona che approfitta proditoriamente del grave stato di bisogno in cui versa l’usurato.

Ciò avviene attraverso la stipula di un vero e proprio contratto a prestazioni corrispettive, sinallagmatico, a tutto svantaggio dell’usurato e dal quale l’usuraio può trarne vantaggi di carattere pecuniario o non pecuniario.

Nell’immaginario collettivo gli usurai sono personaggi oscuri che si muovono dentro i circuiti della criminalità organizzata. Soggetti che approfittano delle famiglie e degli imprenditori che non riescono ad avere credito dalle banche.

Ma oltre all’usura dei cosiddetti “cravattari” o “strozzini”, negli ultimi tempi si è sempre più spesso sentito parlare di usura bancaria. Il fenomeno dell’usura oggetto di indagine infatti non si riferisce al reato di usura in senso sociale, comunemente inteso, ma riguarda proprio quest’ultima forma di usura, ovvero l’applicazione sui finanziamenti concessi ai clienti dagli istituti di credito, oppure nei rapporti di apertura di credito in conto corrente, di tassi di interesse effettivi che, sommando il tasso nominale e tutti gli oneri relativi alla concessione del credito, superano il limite consentito dalla fondamentale legge sull’usura: la legge 7 marzo 1996, n. 108.

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L’art. 644 del codice penale dopo la legge 7 marzo 1996, n. 108

A partire dall’entrata in vigore della legge 108/1996, il reato di usura si manifesta in due modi.

La prima fattispecie, la cosiddetta usura “oggettiva” o “presunta”, è disciplinata dal combinato disposto del primo e del terzo comma, parte prima, dell’art. 644 c.p..

Ai sensi delle richiamate disposizioni, l’usura oggettiva è così descritta:

“Chiunque si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari è punito […]. La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari”.

In questa tipologia di usura non si fa alcun riferimento alla situazione di difficoltà finanziaria in cui versa la vittima. Il requisito dell’approfittamento dello stato di bisogno, previsto dall’art. 644 c.p. nella sua originaria formulazione, non è più necessario ai fini del perfezionamento del delitto. È così sufficiente, per l’integrazione della fattispecie di cui al primo comma dell’art. 644 c.p., il farsi dare o promettere un interesse di entità superiore al tasso-soglia. Tuttavia, nel contesto legislativo attuale, lo stato di bisogno della vittima rappresenta una circostanza aggravante del reato.

È ovvio che l’eliminazione dello stato di bisogno, quale requisito per la sussistenza del reato di usura, implica anche delle conseguenze sull’elemento psicologico, non più rappresentato dal consapevole approfittamento della situazione di bisogno dell’usurato, ma da ravvisarsi nella semplice volontà di concludere un contratto sinallagmatico con interessi o vantaggi usurari.

La norma precisa che la condotta può declinarsi “sotto qualsiasi forma”: l’usura può ritrovarsi, nella sostanza, in qualsiasi tipo di contratto a prestazioni corrispettive.

La locuzione “altra utilità” deve far ritenere ormai superata la visione per cui la prestazione dell’usuraio debba sempre riconnettersi ad una dazione di denaro. Infatti, possiedono rilevanza penale anche i casi riferibili alla cosiddetta “usura reale”. In altri termini, il soggetto attivo (l’usuraio) presta la propria attività professionale in cambio di compensi sproporzionati, subìti senza valide alternative dalla vittima. Ad esempio, una forma classica di usura reale è quella del chirurgo che, per le proprie prestazioni professionali, pretende compensi spropositati.

La seconda fattispecie del reato di usura, nota come usura “soggettiva”, “in concreto” o “residuale”, è disciplinata dalla seconda parte del terzo comma dell’art. 644 c.p.. Tale disposizione prevede che: “Sono altresì usurari gli interessi, anche se inferiori a tale limite, e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari, risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità […] quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria”.

Il legislatore, ai fini dell’accertamento dell’usurarietà delle prestazioni, ha pertanto individuato, accanto ad un primo criterio formale ed oggettivo, un secondo criterio di tipo sostanziale e, per così dire, di chiusura.

Dal dato normativo emerge come in questa seconda fattispecie di usura il legislatore conferisca, ancora una volta, un indubbio rilievo anche alle condizioni di difficoltà economica o finanziaria della vittima, già presente nella fattispecie dell’usura impropria di cui all’art. 644 bis, ad oggi abrogato. Quindi, risulta decisivo l’apprezzamento discrezionale del Giudice. Questi, appurata la condizione di disagio della vittima, deciderà, caso per caso, se gli interessi (o gli altri vantaggi) debbano comunque ritenersi sproporzionati rispetto all’ammontare del capitale prestato.

Ciò in quanto, essendo il tasso di interesse pattuito inferiore al limite legale, non sussisterebbe il delitto di usura così come configurato dal legislatore mediante il nuovo meccanismo introdotto.

Ad evidenza, anche rispetto all’usura soggettiva, lo stato di bisogno rappresenta un aggravante del reato.

La distinzione tra usura “oggettiva” ed usura “soggettiva” riveste una notevole importanza anche ai fini dell’individuazione del bene tutelato dalla norma.

Nel primo caso, la legge tutela l’esigenza di uno svolgimento ordinato del mercato del credito: chiunque presti denaro non può farlo richiedendo un corrispettivo superiore a quello stabilito dalla legge.

Nel secondo caso, il bene tutelato dalla legge non è solo l’ordine economico, ma anche il patrimonio delle imprese e delle famiglie che occorre difendere dall’approfittamento dell’usuraio.

Si ricorda poi che l’art. 644 c.p., al quinto comma, nel disciplinare le aggravanti del reato, prevede un aumento di pena da un terzo alla metà:

1) “se il colpevole ha agito nell’esercizio di un’attività professionale, bancaria o di intermediazione finanziaria mobiliare;

2) se il colpevole ha richiesto in garanzia partecipazioni o quote societarie o aziendali o proprietà immobiliari;

3) se il reato è commesso in danno di chi si trova in stato di bisogno;

4) se il reato è commesso in danno di chi svolge attività imprenditoriale, professionale o artigianale;

5) se il reato è commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale durante il periodo previsto di applicazione e fino a tre anni dal momento in cui è cessata l’esecuzione”.

L’usura bancaria

La circostanza aggravante presente al n. 1 del quinto comma dell’art. 644 c.p., ha confermato ed esteso la disciplina già prevista prima della riforma del 1996, inserendo tra i soggetti attivi, accanto a coloro che svolgono un’attività professionale o di intermediazione finanziaria, chi opera all’interno dell’attività bancaria.

Il legislatore ha mantenuto la valorizzazione della maggiore pericolosità delle condotte poste in essere da soggetti che, in ragione della loro attività, si trovano in una posizione di ulteriore vantaggio rispetto al soggetto passivo, cui si aggiunge il notevole disvalore rappresentato dall’approfittamento, da parte dell’agente, della propria competenza e qualifica professionale, che senz’altro agevola la commissione del reato.

Per l’individuazione dei soggetti esercenti l’attività bancaria si fa riferimento al dettato del d.l. 30 settembre 1993, n. 385, c.d. Testo Unico in materia bancaria e creditizia, in particolare all’art. 10, dove l’attività bancaria è definita come “attività di raccolta di risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito” organizzata in forma imprenditoriale e riservata esclusivamente alle banche.

Non si pongono dubbi esegetici nemmeno con riferimento all’intermediazione mobiliare, che consiste “nell’esercizio nei confronti del pubblico delle attività di assunzione di partecipazioni, di concessioni di finanziamenti sotto qualsiasi forma, di prestazioni di servizi di pagamento e di intermediazione in cambi”.

Risulta più complessa, invece, il riferimento all’attività professionale, inserita accanto all’attività di intermediazione mobiliare e bancaria.

Dalla lettera della norma sembra possibile riferirsi ad una qualunque attività professionale. La dottrina prevalente sostiene che occorra limitare tale concetto alle attività professionali che abbiano un collegamento funzionale e necessario con la formulazione di negozi giuridici a contenuto patrimoniale.

Non si esclude, inoltre, che l’aggravante possa essere applicata anche ad un soggetto attivo formalmente non abilitato all’esercizio della professione concretamente svolta. Tuttavia, è essenziale che il soggetto passivo sia un cliente del professionista, senza richiedersi, d’altra parte, che il reato debba necessariamente essere commesso con atti di formale estrinsecazione di tale attività, essendo l’aggravante applicabile anche qualora l’agente strumentalizzi in qualunque modo l’attività esercitata ai fini di commettere l’illecito.

L’applicazione di tale aggravante ha sollevato interrogativi circa il luogo di consumazione del reato e la relativa competenza territoriale.

Può citarsi, a titolo di esempio, un contrasto territoriale sorto recentemente tra le procure di Milano e Napoli: una banca aveva intrapreso un’azione esecutiva nei confronti di un cliente presso un circondario (precisamente, quello di Napoli) differente dal luogo ove erano state versate le ultime rate di mutuo (ossia Milano).

Infatti, ai fini della configurabilità dell’aggravante de quo, sono stati riconosciuti atti consumativi del reato anche le azioni esecutive eseguite nei confronti del cliente, quale ad esempio un pignoramento.

Nel risolvere tale conflitto di competenza, la Procura Generale della Cassazione ha assegnato la competenza al pubblico ministero del luogo ove si è avviata l’esecuzione, avendo parificato la riscossione volontaria – cioè quella che si verifica attraverso le corresponsioni effettuate dall’usurato – alla riscossione coattiva, determinata dall’azione esecutiva promossa dalla banca.

In definitiva, ai fini della configurazione dell’aggravante in esame, rilevano anche atti in sé leciti, quali ad esempio l’inizio di un’azione esecutiva, considerati atti consumativi del reato in quanto derivanti da un precedente contratto usurario, mentre la competenza territoriale sarà coincidente con il luogo ove avviene l’ultima riscossione, sia essa volontaria o coattiva.

Nel caso di pagamento effettuato attraverso vaglia postale, ovvero bonifico su conto corrente rivelerebbe, dunque, il luogo dove le somme di denaro vengono incassate anziché di quello da cui queste sono inviate.

La norma penale parzialmente in bianco

L ‘art. 644 c.p. oggi vigente, è strutturato secondo lo schema della norma (parzialmente) in bianco laddove, al comma 3 si limita a sottolineare che: “La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari“. Secondo norma citata, che ha superato il vaglio della Corte Costituzionale, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, sentiti la Banca d’Italia e l’ex Ufficio Italiano Cambi, rileva trimestralmente i Tassi Effettivi Globali Medi (T.E.G.M.).

Tale operazione avviene grazie a criteri contenuti in apposite Istruzioni che la Banca d’Italia periodicamente emana e a cui gli operatori finanziari si debbono attenere.

Il risultato di tali operazioni matematiche è pubblicato con Decreto Ministeriale in Gazzetta Ufficiale. Il tasso medio praticato, a seconda delle categorie cui l’oggetto di verifica rientra, aumentato di 1/4 e cui devono ulteriormente essere sommati 4 punti percentuali, costituisce attualmente il tasso oltre il quale si è nell’area di configurabilità della fattispecie di usura.

Seppure, a prima vista, la ricostruzione del tasso in concreto praticato sembra agevole, nella realtà, la L. n. 108/1996 ha sollevato numerosi problemi interpretativi.

L’analisi strutturale della norma in commento ripropone un tema particolarmente dibattuto, relativo alla cosiddetta “crisi della riserva di legge”, che si manifesta con forza nei casi di integrazione della fattispecie penale mediante apporto di fonti subordinate.

La Corte Costituzionale, nel tempo, ha ammesso la possibilità di integrazione del precetto penale ad opera di atti governativi generali ed astratti, affermando come la riserva di legge sia sostanzialmente garantita quando la norma incriminatrice rinvenga nella legge i presupposti, il carattere, il contenuto ed i limiti.

In generale può dirsi che un punto di equilibrio viene raggiunto nelle ipotesi di sufficiente specificazione degli elementi significativi del fatto da parte della legge, ciò che avviene maggiormente quando alla norma di rango secondario sia demandato un mero spazio di concretizzazione tecnica (si pensi alla disciplina sugli stupefacenti, strutturata sul rinvio alle tabelle stabilite con decreto ministeriale che fissa la soglia drogante per ciascuna tipologia di sostanza).

Va osservato tuttavia come la concretizzazione tecnica potrà considerarsi

tale solo in caso di predeterminazione, da parte della legge, di regole per l’esercizio della discrezionalità tecnica, risolvendosi diversamente tale costruzione in un modello astratto di integrazione, che solo formalmente preserva la giusta ripartizione di competenze tra legislatore e governo. La valutazione sul rispetto dei canoni di tale modello si traduce nel sindacato sul corretto esercizio della discrezionalità tecnica (nei limiti della legge e secondo i principi dalla stessa stabiliti), immanente al più generale potere di disapplicazione attribuito al giudice ordinario, e consistente nel decidere della illiceità penale di una condotta senza tener conto di un atto amministrativo (di carattere generale e astratto o individuale e concreto) reputato illegittimo.

Tale rilevante potere nasce, come noto, con l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia e trova disciplina negli artt. da 1 a 5 contenuti nell’All.

E, L. n. 2248/1865 (c.d. abolitiva del contenzioso amministrativo), in cui si fissa un principio fondamen

Giova ribadire come l’attribuzione che l’ordinamento fa al giudice penale di una generale potestà di disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi, non può in alcun modo determinare, in concreto, un suo utilizzo in malam partem, essendo il potere di controllo sulla legalità amministrativa circoscritto nella sua operatività ai principi costituzionali in materia penale, non ultimo il principio di legalità (nei principali corollari della tipicità e tassatività).tale della gerarchia delle fonti: la supremazia della legge rispetto agli atti del potere esecutivo.

I richiamati principi sembrano messi in crisi dai principali filoni giurisprudenziali che si sono formati in tema di usura bancaria, tanto da spingere qualche autore a parlare di “supplenza giudiziaria”, con  riferimento alle sentenze che hanno pretermesso l’applicazione delle istruzioni della Banca d’Italia per la rilevazione dei tassi, e di “Babele applicativa” con riguardo ai numerosi e divergenti orientamenti che si sono susseguiti, in particolare sul tema delle commissioni di massimo scoperto. Diversamente il giudice penale acquisterebbe un potere creativo in relazione alla fattispecie tipica, laddove il principio di tassatività preclude l’uso del procedimento analogico nell’interpretazione delle norme incriminatrici (artt. 25 Cost., 14 disp. att. c.c.).

Trib. Latina 6 marzo 2019, n. 16

La sentenza in commento affronta in modo del tutto peculiare la configurazione della condotta tipica integrante il reato di usura bancaria, argomentando sotto il triplice aspetto legato alla determinazione del tasso soglia, al tema della successione delle leggi penali nel tempo, ed infine alla configurabilità dell’elemento soggettivo del reato.

Sul punto, operando una breve digressione di carattere squisitamente processuale, è noto che ogni provvedimento del giudice, debba essere, alla stregua della previsione di cui all’art 111, comma 6, Cost., supportato da un doveroso apparato argomentativo, ovverosia da una estrinsecazione degli argomenti sottesi alla decisione o, più semplicemente, da una esposizione delle ragioni di un convincimento. In questa ottica, l’essenzialità della motivazione emerge con grande limpidità anche dalla più costante analisi dottrinaria sul punto. Peraltro, come autorevolmente rilevato, mentre la Costituzione esprime un significato di motivazione come principio ideologico, le disposizioni del codice sono evidentemente funzionali allo svolgimento tecnico del processo, che necessita della motivazione della decisione per rende­re possibile l’impugnazione, il controllo, la cognizione in seconda istanza. Ciò posto, non può nemmeno ne­garsi che dal dettato costituzionale emerga, indiscuti­bilmente, anche una funzione endoprocessuale della motivazione, in quanto la Carta fondamentale richie­de un controllo sull’esattezza e sulla legittimità di tutte le decisioni del giudice sia all’interno che all’esterno del processo.

Nella sentenza in commento, sotto il profilo della individuazione della normativa applicabile al caso di specie, viene ampiamente affrontato il tema della successione delle leggi penali nel tempo. In particolare, tenuto conto che la norma introdotta nel 1996 subiva una modifica nel 2010[1], emergeva come la disciplina prevista prima della novella fissasse il limite di usurarietà degli interessi e commissioni praticate dalle banche e dagli intermediari finanziari nel cosiddetto “tasso medio”, risultante dall’ultima rilevazione trimestrale pubblicata nella Gazzetta Ufficiale relativamente alla categoria delle operazioni in cui il credito è compreso, aumentato della metà.

In base alla disciplina del 2011, il TEGM non deve essere più aumentato della metà bensì di un quarto, cui si aggiunge un margine di 4 punti percentuali, e la differenza tra il limite e il tasso medio non può essere superiore a 8 punti percentuali.

L’evidente differenziazione tra le due discipline, ha permesso di affrontare la portata applicativa dell’art. 2, comma 4 c.p., che enuclea il principio di retroattività favorevole. Ciò posto, si evidenzia come la Corte di Cassazione[2], chiamata a pronunciarsi sull’influenza diacronica della previsione contenuta nel D.L. n. 70/2011, ha escluso la portata retroattiva della novità normativa, sulla base di un duplice rilievo: da un lato, ha escluso la natura integratrice della norma extrapenale in suc­cessione; dall’altro lato, ha ritenuto il novum nor­mativo inidoneo a manifestare la volontà legislativa di attenuare il disvalore del fatto posto in essere nella vigenza della precedente normativa.

Infatti, pur riconoscendo la natura di norma penale in bianco della disposizione contenuta nell’art. 644 c.p., la Suprema Corte ha escluso che, nella specie, possa porsi un problema di successione “mediata” di norme penali e ciò in ragione della ritenuta incapacità della modifica normativa di incidere sulla struttura essenziale della fattispecie astratta del reato di usura.

La Corte ha ritenuto che la modifica dei criteri di rilevazione del tasso soglia – al pari delle modifiche legate all’andamento dei tassi finanziari rilevati trimestralmente dall’autorità amministrativa – non comporti alcun mutamento della norma incriminatrice e conseguentemente non renda applicabili le regole successorie ex art. 2 c.p., e ciò per la semplice ragione che tale modifica – incidendo su una fonte diversa da quella penale, con carattere di temporaneità – si sa­rebbe limitata a regolamentare diversamente i presup­posti per l’applicazione della norma penale, senza tut­tavia escludere l’illiceità oggettiva della condotta.

A conferma di tale assunto i giudici di legittimità giungono inoltre ad affermare che la modifica attuata con il D.L. n. 70/2011 non avrebbe inteso sminuire il disvalore sociale della condotta posta in essere nella vigenza della disciplina precedente, e ciò in quanto la novella in esame avrebbe inciso soltanto sul meccanismo di determinazione del tasso soglia, ovverosia su un elemento per sua natura “contingente”, destinato a variare anche con riferimento a valutazioni di caratte­re economico che hanno valore per l’arco temporale di applicazione della relativa normativa e non vengo­no meno a seguito della successiva modifica della disciplina stessa, modifica suscettibile così di produrre effetti solo per il periodo successivo. La norma extrapenale abrogata resterebbe, dunque, in vigore per il periodo anteriore all’abolizione, impedendo, per lo stesso frangente temporale, l’applicazione della nuova normativa, in quanto, secondo i giudici di legittimità, “sarebbe contrario al sistema considerare ampliato, ora per allora, il raggio di azione di quest’ultima nor­ma, non differenziando la punizione dei fatti commes­si sotto il vigore della legge abrogatrice da quelli com­messi successivamente“. Conclusione, quest’ultima, che, nell‘iter argomentativo seguito dalla Cassazione nella sentenza citata, sarebbe corroborata da un ulte­riore rilievo: infatti, secondo la Corte, la portata del­l’intervento innovativo – circoscritto alla modifica dei criteri di individuazione del tasso soglia – e la man­canza di norme transitorie – “certamente non dovuta a disattenzione” – esprimerebbero la volontà legisla­tiva di delimitare l’ambito operativo della novità nor­mativa, con l’effetto di renderla applicabile esclusivamente alle condotte poste in essere dopo la sua entra­ta in vigore, senza produrre effetti su preesistenti situazioni, regolate dalla normativa precedente.

In quest’ottica, lo ius superveniens avrebbe avuto la più limitata funzione di variare il contenuto del pre­cetto punitivo per il futuro, lasciando tuttavia intatto il significato offensivo delle condotte precedentemente compiute, come tali ancora meritevoli e bisognose di sanzione.

Per quanto attiene l’elemento soggettivo del reato di usura, nella sentenza in commento viene individuato il dolo generico, soluzione del tutto pacifica nell’ambito della quale è sufficiente che l’agente si rappresenti e voglia farsi dare o promettere, tramite la stipulazione di un contratto a prestazioni corrispettive, interessi usurari ex lege, oppure interessi usurari in concreto da persona in difficoltà economico-finanziaria. Nel­l’oggetto della rappresentazione dell’agente dovrà necessariamente essere compresa l’entità illegale del cor­rispettivo ottenuto in promessa. E poiché la conoscen­za e consapevolezza della natura usuraria degli interessi pattuiti è garantita dalla pubblicazione del tasso soglia nella Gazzetta Ufficiale, l’elemento conoscitivo del dolo risulta di facile accertamento.

Le questioni maggiormente pregnanti involgono la configurabilità o meno dell’usura sorretta da dolo eventuale, accezione che non è stata presa in considerazione dal giudice della sentenza in commento.

Ed invero, la giurisprudenza di legittimità specifica che il dolo eventuale non potrebbe mai connotare soggettivamente il delitto di usura, in quanto tale tipo di dolo postulerebbe una pluralità di eventi (conseguenti all’azione dell’agente e da questi voluti in via alterna­tiva o sussidiaria nell’attuazione del suo proposito cri­minoso) che invece non si verificherebbero nel reato de quo, nel quale vi sarebbe l’attingimento dell’unico evento di ottenere la corresponsione o la promessa di interessi o vantaggi usurari, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra cosa mobile. Assoda­ta, dunque, la necessità della cosciente volontà di con­seguire dei vantaggi usurari come elemento necessario per punire il reo, ne conseguirebbe la riduzione del campo applicativo del reato di usura, e l’impossibilità del suo configurarsi in presenza di dolo eventuale.

Cass. 26 aprile 2019 n. 38511

La decisione in commento si apprezza per la capacità di fare chiarezza in ordine a taluni caratteri strutturali del reato di usura, che emergono in maniera nitida anche attraverso l’analisi dell’evoluzione storica della norma, nonché alla luce del raffronto della norma stessa con altre fattispecie contigue.

Due sono i punti fermi che la Suprema Corte sottolinea con la suddetta decisione, entrambi attinenti alla perimetrazione della condotta penalmente rilevante dell’usuraio.  Il primo: ai fini della configurazione del delitto di usura non occorre verificare che l’iniziativa sia stata presa dall’agente. Il secondo: l’usura non richiede, per la sua consumazione, l’esistenza di una condotta violenta posta in essere dal reo, circostanza che, se realmente verificatasi, potrà condurre all’affermazione della responsabilità penale per il reato di estorsione, eventualmente anche in concorso con quello di usura, stante la configurazione – contestata da una parte della dottrina – dell’usura come reato a schema duplice o ad esecuzione frazionata.

Procediamo secondo i passaggi logici percorsi dalla decisione.

Innanzitutto, il delitto dì usura è un reato che incentra tutta la sua carica offensiva nel dato materiale della obiettiva usurarietà delle condizioni pattuite. Ne consegue che a nulla rileva che l’iniziativa sia stata presa dall’autore del reato, dalla stessa vittima

– come accade il più delle volte – ovvero da un terzo (intermediazione usuraria).

La conformazione in chiave oggettivistica della fattispecie de qua, del resto, risulta incontrovertibile anche alla luce dell’attuale dato normativo, specie se comparato rispetto alla formulazione originaria.

E’ evidente, in proposito, il divario lessicale della norma in vigore rispetto alla formulazione anteriore all’entrata in vigore del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. in 1.7 agosto 1992, n. 356, formulazione che, ai fini dell’integrazione della materialità del reato, attribuiva rilievo al necessario approfittamento, da parte del soggetto attivo, della condizione di bisogno economico propria della vittima.

Oggi, al contrario, l’elemento dell’approfittamento delle condizioni di bisogno, che chiaramente colora la fattispecie in termini soggettivi, è previsto come mera circostanza aggravante del reato (art. 644, comma 5, n. 3, c.p.).

Ne discende, pertanto, che il riferimento al profilo dell’iniziativa appare del tutto fuorviante e seppure richiamato in passato giurisprudenza, di certo non decisivo, in quanto l’induzione da parte del reo non assume il rango di elemento costitutivo della fattispecie. Si tratta, mutatis mutandis, di una questione speculare a quella sorta in occasione della problematica differenziazione fra concussione e induzione indebita a dare o promettere, rispetto alla quale uno dei criteri proposti in giurisprudenza -rivelatosi, in ultima analisi, recessivo – è stato proprio quello dell’iniziativa[3].

In definitiva, nonostante il disposto legislativo “si fa dare o promettere” possa sembrare presupporre una qualche iniziativa dell’usuraio, l’irrilevanza del requisito dell’induzione va chiaramente affermata alla luce della ratio dell’incriminazione, che risiede nell’esigenza, di ordine generale e di natura oggettiva, di impedire le pattuizioni ad usura.

Il secondo profilo analizzato dalla sentenza in epigrafe è rappresentato dalla irrilevanza, ai fini dell’integrazione del reato di usura, della natura violenta o minacciosa della condotta tenuta dell’agente. La circostanza che l’agente non abbia esercitato pressioni sull’offeso al fine di indurlo ad accettare il prestito usurario potrebbe incidere, tutt’al più, sul piano sanzionatorio, ma non è idonea ad influenzare l’an della consistenza penale della condotta.

Affermare il contrario significa confondere irrimediabilmente il delitto di usura con quello di estorsione, nel quale la carica lesiva si concentra sulla violenza o minaccia portata dall’autore alla vittima al fine di ottenere un profitto ingiusto.

Del resto, nella sistematica del codice, il delitto di estorsione è un reato contro il patrimonio ad aggressione unilaterale, mentre l’usura è un delitto commesso “mediante frode”, che necessariamente richiede la cooperazione artificiosa della vittima.

Se la condotta tipica del reato di usura non richiede che il suo autore assuma atteggiamenti intimidatori o minacciosi nei confronti del soggetto passivo, ne discende che delitti d’usura e di estorsione possono concorrere ove la violenza o la minaccia, assenti al momento della stipula del patto usurario, siano in un momento successivo impiegate per ottenere il pagamento dei pattuiti interessi o degli altri vantaggi usurari; diversamente, n virtù dell’elemento specializzante della violenza o minaccia dell’azione illecita, sussiste il solo reato di estorsione ove la violenza o la minaccia siano usate ab initio proprio al fine ottenere, quale indebito vantaggio patrimoniale, la corresponsione di interessi usurari.

La scissione fra la fase di perfezionamento del reato e quella della consumazione – e quindi, il possibile concorso materiale dei reati di usura ed estorsione – sono resi possibili dalla costruzione pretoria del delitto di usura come “reato a schema duplice” o a “condotta frazionata” , “costituito da due fattispecie – destinate strutturalmente l’ una  ad assorbire l’altra con l’esecuzione della pattuizione usuraria –  aventi in comune l’induzione del soggetto passivo alla pattuizione di interessi od altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro di altra cosa mobile, delle quali l’una è caratterizzata dal conseguimento del profitto illecito e l’altra dalla sola accettazione del sinallagma ad esso preordinato. Ne consegue che nella prima il verificarsi dell’evento lesivo del patrimonio altrui si atteggia non già ad effetto del reato (più o meno esteso nel tempo in relazione all’eventuale rateizzazione del debito), bensì ad elemento costitutivo dell’illecito il quale, nel caso di integrale adempimento dell’obbligazione usurava, si consuma con il pagamento del debito, mentre nella seconda, che si verifica quando la promessa del corrispettivo, in tutto o in parte, non viene mantenuta, il reato si perfeziona con la sola accettazione dell’obbligazione rimasta inadempiuta. Ne deriva, in tema di prescrizione, che il relativo termine decorre dalla data in cui si è verificato l’ultimo pagamento degli interessi usurari[4].

La medesima impostazione che scinde fra fase di perfezione e fase di consumazione è seguita dalla giurisprudenza anche in relazione al diverso reato di corruzione, il quale “si perfeziona alternativamente con l’accettazione della promessa ovvero con la dazione/ricezione dell’utilità; e tuttavia, ove alla promessa faccia seguito la dazione/ricezione, è solo in tale ultimo momento che, approfondendosi l’offesa tipica, il reato viene a consumazione. Pertanto, quando alla promessa segue l’effettiva dazione del denaro, il termine di prescrizione decorre da tale momento”[5].

A bel vedere, l’impostazione tradizionale costruiva il delitto di usura come reato istantaneo ad effetti permanenti: in giurisprudenza, Sez. II, 24 aprile 1990, ha affermato che “l’usura è delitto istantaneo. Si consuma nel momento in cui il mutuante si fa dare o promettere interessi o altri vantaggi usurai. Nel caso che gli interessi o vantaggi siano corrisposti in tempi successivi, in esecuzione della promessa iniziale, si ha un reato istantaneo con effetti permanenti”.

Senonché, l’abbandono della ricostruzione dell’usura in termini di delitto istantaneo,

sia pur con effetti permanenti, e la conseguente adesione alla teoria del reato a duplice schema, troverebbero giustificazione nel disposto del nuovo art. 644-ter c.p., secondo cui: “La prescrizione del reato di usura decorre dal giorno dell’ultima riscossione sia degli interessi che del capitale”. Tale disposizione, rapportata ai principi generali, in tema di prescrizione, dell’art. 158 c.p. – per cui “il termine della prescrizione decorre (…) per il reato permanente (…) dal giorno in cui è cessata la permanenza” avrebbe indotto a ritenere che, con riguardo alla nuova fattispecie di usura, si verifichi una situazione di perdurante consumazione sino al giorno dell’ultima riscossione degli interessi e del capitale.

In questa direzione, sin da subito la giurisprudenza ha affermato chiaramente che “il tradizionale insegnamento giurisprudenziale secondo cui il reato di usura è reato istantaneo con effetti permanenti, è incompatibile con il rilevo assegnato dall’art.

644-ter c.p. “all’ultima riscossione” degli interessi usurari pattuiti, in tema di prescrizione del reato. Conseguentemente, qualora alla promessa segua la dazione effettiva degli interessi usurari, questa fa parte a pieno titolo del fatto lesivo penalmente rilevante e segna, mediante la concreta e reiterata esecuzione dell’originaria pattuizione usuraria, il momento consumativo “sostanziale” del reato[6].

Per vero, parte della dottrina manifesta profonde perplessità nei confronti della descritta impostazione, ritenuta un “escamotage giurisprudenziale” ispirato dal fine di eludere il decorso dei termini di prescrizione.

Carattere qualificante il reato permanente è, infatti, l’esistenza di una condotta unitaria che si protragga senza soluzione di continuità. Viceversa, il frazionamento dell’illecito di usura in due diverse fattispecie tradisce il tenore legale della norma, che fa riferimento al solo momento dell’accordo. Tutto ciò che ne segue è momento esecutivo dello stesso e non incide sulla tipicità del fatto, che risulta già pienamente integrata, ma può, tutt’al più, condizionare la fase di quantificazione della pena.

Pertanto, declinare l’iter criminis in considerazione del prolungamento dell’offesa (id est, se si prolunga l’offesa ad una fase successiva rispetto all’accordo, si prolunga il reato) significherebbe utilizzare la categoria – di origine ed ispirazione garantistica – dell’offesa al bene giuridico in termini illiberali, dando luogo ad una contaminazione fra tipicità ed offesa che produce l’effetto di ampliare in malam partem e praeter legem il perimetro applicativo della fattispecie incriminatrice.

Sul punto, si è suggerita una lettura alternativa dell’art. 644-ter c.p., disposizione che, lungi dal fornire una precisa indicazione circa la natura permanente del reato, si pone come deroga legale rispetto alla regola dell’art. 158 c.p., ispirata dalla ratio di estendere i limiti temporali per la repressione dell’usura, senza tuttavia incidere sull’individuazione del momento consumativo del delitto e sulla struttura complessiva del reato.

Alla problematica degli effetti permanenti del delitto di usura, (connessi alla periodica riscossione, a tassi usurari, delle somme oggetto di finanziamento) si ascrive la correlata questione, esaminata per lo più in sede civile, dell’usura sopravvenuta.

Si tratta dell’ipotesi, statisticamente non infrequente, in cui al momento della pattuizione del finan­ziamento sia previsto un tasso. inferiore al limite usurario legale, tasso che successivamente, nelle more di esecuzione del contratto, diventi superiore rispetto al nuovo tasso soglia nel frattempo rilevato.

In proposito, la giurisprudenza tende ad escludere che possa divenire usuraria agli effetti penali un’operazione ab initio pienamente regolare, per una serie di argomentazioni.

In primis, la formulazione dell’art. 644 c.p. si incentra sul rapporto “sinallagmatico” fra dazione e promessa di interessi quale corrispettivo per la corresponsione di una somma di denaro, ancorando il momento perfezionativo dell’illecito a quello dell’intervenuto accordo fra le parti (utilizzando una cate­goria civilistica, l’usura integra un “reato contratto”, che si perfeziona per il solo fatto ed al momento della stipulazione del negozio vietato).

In secondo luogo, assegnare rilevanza penale ai mutamenti del tasso soglia comporterebbe una irragionevole compromissione dell’autonomia privata negoziale, imponendo al creditore di modificare le condizioni negoziali di un contratto inizialmente legittimo; una lettura di segno contrario determinereb­be, pertanto, un sospetto di illegittimità costituzionale con riferimento al principio dell’art. 41, comma 1, Cost. – secondo cui “l’iniziativa economica privata è libera“- a meno che non si voglia allargare a dismisura la tutela del debitore, con rotale sacrificio delle ragioni e delle scelte imprenditoriali ed operative riferibili al creditore.

In terzo luogo, muove decisamente in questa direzione la norma di interpretazione autentica quale è l’art. 1 d.l. 29 dicembre 2000, n. 394, convertito dalla 1. 28 febbraio 2001, n. 24, a mente del quale “ai fini dell’applicazione dell’articolo 644 del codice penale e dell’articolo 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”.

In definitiva, si ritiene che l’usura presenti in ogni caso il suo momento di perfezionamento in quello dell’intervenuta pattuizione fra le parti: l’usura è solo originaria, con conseguente impossibilità di ravvisare in capo al creditore un obbligo, penalmente sanzionato, di rettificare il tasso di interessi ab origine lecito e divenuto superiore alla soglia limite nel corso del rapporto negoziale.

La irrilevanza dell’usura sopravvenuta ai fini del giudizio di invalidità del contratto è stata sostenuta, peraltro, anche dalla giurisprudenza civile nel suo più alto consesso, laddove si è affermato che “qualora il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso del rapporto, la soglia dell’usura, come determinata in base alle disposizioni della legge n. 108 del 1996, non si verifica la nullità o l’inefficacia della clausola di determinazione del tasso degli interessi pattuita prima dell’entrata in vigore della legge n. 108 del 1996”, con l’ulteriore precisazione che “deve escludersi che la pretesa del mutuante di riscuotere gli interessi  secondo il tasso validamente concordato possa essere qualificata, per il solo fatto del sopraggiunto superamento di tale soglia, contraria al dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto[7].

In conclusione, almeno per quanto riguarda la materia penale, la “partita sull’usura” si gioca, essen­zialmente tutta sulla ricostruzione della fisionomia della fattispecie in termini di reato a duplice schema di realizzazione ovvero di illecito istantaneo ad effetti permanenti.

Il dibattito in parola, lungi dal rivestire una sterile operazione di tipo classificatorio, condiziona in misura determinante taluni importantissimi profili di ordine sostanziale, come il possibile concorso materiale fra i reati di usura e di estorsione, ammissibile solo laddove si aderisca all’orientamento, dominante in giurisprudenza, che scinde momento perfezionativo e momento consumativo dell’illecito.

Analogamente, sul piano plurisoggettivo, la valorizzazione in chiave autonoma della fase consumativa, non ridotta a mero post factum non punibile, comporta la responsabilità concorsuale nel delitto di usura del soggetto diverso dall’usuraio, il quale partecipi, con questi, alla fase della riscossione dei pagamenti in danno della persona offesa [8].

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Note

[1] Modifica operata dal d.l. 13 maggio 2011, n. 70, cosiddetto “Decreto Sviluppo”

[2] il riferimento è a Cass. pen. 19 dicembre 2011, n. 46669

[3] si veda Sez. un., 24 ottobre 2013, n. 12228.

[4] ex multis, Cass. 1 ottobre 2008, n. 38812.

[5] fra le altre, Cass., 25 luglio 2017, n. 49056.

[6] per prima, si veda Cass. n. 11055/1998.

[7] Sez. un., 19 ottobre 2017, n. 24675.

[8] ex multis, Cass. 6 dicembre 2012, n 7208.

 

Dott.ssa Celeste Campisi

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