1. Brevi cenni sull’evoluzione degli istituti del matrimonio e della separazione
La principale formazione sociale ex art. 2 della Costituzione è indubbiamente la famiglia, luogo di sviluppo della persona umana e dei suoi diritti che, per la sua centralità, trova tutela anche negli artt. 29-21 della Costituzione.
Nel dettaglio, l’art. 29, primo comma, Cost. riconosce la famiglia quale società naturale fondata sul matrimonio. Il vincolo matrimoniale, prosegue l’articolo, è basato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Questo precetto costituzionale ha costituito la base per la modifica dei rapporti familiari introdotta con la Riforma del 1975. Invero, se in passato il codice civile prevedeva che la moglie fosse in una posizione di subordinazione rispetto al marito, con la L. n. 151/1975 è stata modificata la disciplina dei rapporti familiari al fine di garantire un’effettiva uguaglianza tra i coniugi.
Attualmente, infatti, l’art. 143, primo comma, c.c. prevede che, con il matrimonio, marito e moglie acquistino gli stessi diritti ed assumano gli stessi doveri.
Inoltre, il codice civile del 1942 era ispirato al principio di indissolubilità del matrimonio: la separazione personale dei coniugi era ammessa in presenza del consenso di entrambi o per i motivi espressamente previsti dal legislatore come, a titolo meramente esemplificativo, in presenza di sevizie, adulterio, ingiurie gravi. In questi ultimi casi dunque, per poter richiedere la separazione che aveva evidentemente carattere sanzionatorio, doveva sussistere la colpa di uno dei due coniugi.
Ebbene, l’importante riforma del diritto di famiglia del 1975, unitamente all’introduzione del divorzio con la L. n. 898/1970, ha segnato la fine dell’indissolubilità del matrimonio e ha adeguato l’impianto codicistico al dettato costituzionale.
Più precisamente, con il divorzio viene meno il vincolo matrimoniale definitivamente; a tal proposito si parla di “scioglimento” del matrimonio civile e di “cessazione degli effetti civili” in caso di matrimonio concordatario. Ha pertanto una finalità rimediale, operando in caso di crisi irreversibile della coppia, ossia quando viene meno la comunione materiale e spirituale tra i coniugi.
L’istituto della separazione personale, invece, come già evidenziato, era presente nel codice del 1942, ma ha subito comunque profonde modifiche con la legge n. 151/1975. La stessa, infatti, può essere chiesta ai sensi dell’art. 151, primo comma, c.c. in caso di “fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio alla educazione della prole.”
La separazione può essere consensuale o giudiziale. La prima richiede che vi sia un accordo tra i coniugi sia in merito ai rapporti patrimoniali che all’affidamento e al mantenimento dei figli. Tale provvedimento, peraltro, come sancito dall’art. 158, primo comma, c.c. produce effetti solo se omologato dal giudice.
La separazione giudiziale, invece, è introdotta dall’art. 151, primo comma, c.c. e può essere chiesta quando“si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio alla educazione della prole.”
In merito, giova evidenziare la genericità di tale formula legislativa a differenza della tipizzazione dei casi presente nella versione originaria del medesimo articolo.
Alla luce di quanto sin qui esposto, da questi interventi legislativi si evince una valorizzazione della volontà dei coniugi a discapito della salvaguardia dell’unità familiare, sicché solo i coniugi possono assumere decisioni circa la durata del loro matrimonio.
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2. L’addebito: presupposti e conseguenze
Al fine di esaminare compiutamente la questione di odierno interesse, è opportuno evidenziare che in caso di separazione giudiziale, l’art. 151, secondo comma, c.c. prevede che il giudice, qualora ricorrano le circostanze e ne venga fatta richiesta, possa dichiarare a quale coniuge sia addebitabile la separazione a causa del comportamento contrario ai doveri coniugali. Di fatto, tramite l’addebito, che ha natura sanzionatoria, il fallimento della vita coniugale viene attribuito ad uno dei coniugi con delle conseguenze patrimoniali e successorie. Tra di esse figura l’impossibilità di attribuzione dell’assegno di mantenimento, come statuito dall’art. 156, primo comma, c.c., al coniuge responsabile della fine del matrimonio. Il coniuge può solo, purché vi siano i presupposti, ottenere il diritto agli alimenti ex art. 438 c.c., che consiste nell’attribuzione di una somma di danaro con cadenza periodica, quale strumento di sostentamento.
Inoltre, ai fini successori, il medesimo perde la possibilità di godere degli stessi diritti successori del coniuge non separato, salvo il diritto ad un assegno vitalizio se al momento dell’apertura della successione godeva del diritto agli alimenti a carico del coniuge deceduto.
Tanto premesso, per poter addebitare la separazione ad un coniuge, oltre alla richiesta esplicita, occorre che uno dei coniugi abbia tenuto un comportamento contrario ai doveri coniugali sanciti dall’art. 143, secondo comma, c.c. quali l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza, alla collaborazione e alla coabitazione.
Orbene, giova rilevare la significatività della collocazione sistematica dell’obbligo di fedeltà nel disposto del suddetto articolo.
Invero, il fatto che tale obbligo sia collocato dal legislatore al primo posto nell’elenco dei doveri coniugali cui all’art. 143 c.c., non può che testimoniarne l’importanza.
L’obbligo di fedeltà, nella sostanza, impone ai coniugi di non avere rapporti con altre persone: il matrimonio è una relazione a carattere esclusivo. Vengono così tutelate sia l’intimità sessuale tra i coniugi, sia la fiducia e la stima che un coniuge ripone nell’altro e che rischiano di essere compromesse in caso di relazioni extra-coniugali.
Oltretutto, attualmente, la violazione dell’obbligo di fedeltà è intesa in termini più ampi, in modo tale da ricomprendere tutti quei comportamenti ed atteggiamenti che possano in qualsiasi misura ledere la fiducia reciproca, l’onore e la dignità dell’altro coniuge.
Sul punto, ad esempio, la giurisprudenza, ha rilevato come non sia solo il tradimento fisico a comportare una violazione di tale obbligo ma anche, per esempio, la ricerca di relazioni extraconiugali tramite internet[1].
3. La mera infedeltà basta per avanzare una richiesta di addebito?
In merito alla richiesta di addebito per tradimento, vi è un consolidato orientamento secondo il quale, affinché il giudice possa addebitare la separazione, è necessario che la violazione del dovere coniugale sia l’elemento determinante della crisi coniugale. In altri termini, è richiesta la prova del fatto che prima del tradimento non sussistesse già una crisi coniugale ma, al contrario, che dall’infedeltà sia scaturita la crisi sfociata successivamente nella richiesta di separazione.
Questo orientamento muove dall’assunto secondo il quale quando il menage è già compromesso, la convivenza è meramente formale; ne consegue che l’infedeltà, per quanto sia una violazione particolarmente grave dei doveri coniugali, non possa giustificare l’addebito della fine di un matrimonio. Infatti, la disgregazione della comunione spirituale e materiale già in atto, è piuttosto da ricercare in motivi diversi e interni alla coppia.
Ciò premesso, è onere della parte che richiede l’addebito della separazione provare che sia stato disatteso l’obbligo di fedeltà e che il tradimento abbia avuto efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza. Il coniuge che subisce la richiesta di addebito, invece, può dimostrare che il matrimonio fosse in crisi ancor prima del tradimento.[2]
L’onere probatorio, in questo contesto, risulta di estrema importanza posto che, solo da una valutazione rigorosa e complessiva dei comportamenti dei coniugi è possibile desumere la preesistenza, o meno, della crisi coniugale.
La Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l’ordinanza n. 1816/2021, ha ribadito l’orientamento in questione.
Nel caso de quo, il marito presentava ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Milano per una presunta violazione degli artt. 143 e 151 c.c.; la sentenza di appello, infatti, non aveva addebitato la separazione alla moglie nonostante l’accertato adulterio ed il concepimento di un figlio con l’amante.
Ebbene, il predetto motivo di ricorso è stato dichiarato inammissibile. Secondo la pronuncia degli Ermellini, la Corte territoriale, alla luce delle due CTU espletate e delle risultanze processuali, ha correttamente ritenuto che la separazione non fosse stata determinata dal tradimento della moglie, bensì dai problemi della coppia sorti a seguito della nascita della figlia che aveva problemi di salute. Pertanto, la relazione extra-coniugale si insinuava in un rapporto fragile e già compromesso.
4. Il rapporto tra la violazione dei doveri coniugali e il risarcimento dei danni morali
Un ulteriore aspetto sul quale si intende focalizzare l’attenzione è quello del possibile risarcimento del danno causato dalla violazione dei doveri coniugali. Questi ultimi, infatti, secondo un consolidato orientamento[3], avrebbero natura giuridica e, pertanto, la loro violazione ben potrebbe integrare gli estremi di un illecito civile che dia luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c.
L’azione di risarcimento è esercitabile a prescindere dalla pronuncia di addebito in sede di separazione. Da ciò discende che, qualora il tradimento sia consumato durante la crisi coniugale e, dunque, non sia idoneo a configurare l’addebito della separazione, non si esclude comunque la possibilità che il coniuge fedifrago venga condannato al risarcimento dei danni, ben potendo tale condotta integrare un illecito.
Per ottenere il risarcimento, è ovviamente necessario che la violazione dei doveri coniugali cagioni una lesione a dei diritti costituzionalmente garantiti. Non basta, ad esempio, la mera infedeltà ma essa deve concretizzarsi in una lesione dell’integrità psico-fisica. Il tradimento, come ribadito da ultimo dalla Corte di Cassazione, Sez. VI civile, nell’ordinanza n. 26383/2020, deve generare un’offesa “che superi la soglia della tollerabilità e si traduca, per le sue modalità o per la gravità dello sconvolgimento che provoca, nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto, quale, in ipotesi, quello alla salute o all’onore o alla dignità.”
A titolo esemplificativo, il risarcimento del danno può essere riconosciuto a favore del coniuge tradito pubblicamente e con modalità umilianti tali da ledere la sua dignità. Un altro caso di risarcimento può rinvenirsi nel tradimento che abbia generato una lesione della salute del coniuge tradito. In tal caso, però, non basta la sussistenza di un mero turbamento per la fine del matrimonio; piuttosto, è essenziale dimostrare che l’infedeltà abbia comportato gravi ripercussioni psico-fisiche.
5. L’amante è tenuto a risarcire i danni subiti dal coniuge tradito?
Per completezza giova, infine, evidenziare come recentemente la Corte di Cassazione sia intervenuta sulla questione inerente la pretesa risarcitoria avanzata dal coniuge tradito nei confronti dell’amante.
Il caso posto all’attenzione della Suprema Corte muoveva dalla richiesta di risarcimento dei danni proposta dal marito nei confronti non solo della moglie, ma anche dell’amante di quest’ultima e della società dove moglie e amante lavoravano in quanto, a suo dire, non aveva adeguatamente sorvegliato i propri dipendenti.
Con la pronuncia n. 6598/2019, la terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, ha rigettato la domanda del ricorrente illustrando, però, talune modalità di infedeltà che potrebbero in astratto giustificare la richiesta di risarcimento nei confronti dell’amante.
In questo caso, ad essere risarcito, non sarebbe il danno derivante dalla violazione dell’obbligo di fedeltà coniugale in quanto l’amante, ovviamente, non è soggetto a tale dovere.
Difatti, chi intrattiene una relazione con persone coniugate, ad avviso della Corte, esercita il diritto costituzionalmente garantito alla libera espressione della propria personalità.
Piuttosto, la richiesta di risarcimento potrebbe essere avanzata nei confronti dell’amante quando quest’ultimo “con il proprio comportamento e avuto riguardo alle modalità con cui è stata condotta la relazione extraconiugale, abbia leso o concorso a violare diritti inviolabili- quali la dignità e l’onore- del coniuge tradito, e purché risulti provato il nesso causale tra tale condotta, dolosa o colposa, e il danno prodotto.”
A tal proposito, gli Ermellini, a titolo esemplificativo, ritengono possibile l’accoglimento della domanda risarcitoria quando l’amante si sia vantato della propria conquista nell’ambiente di lavoro oppure abbia mostrato delle immagini.
Sulla pretesa risarcitoria avanzata contro la società datrice di lavoro, invece, la Cassazione evidenzia che sia in ogni caso insussistente la responsabilità del datore di lavoro per non aver sorvegliato ed evitato l’instaurazione della relazione extra-coniugale. Siffatto controllo, invero, non solo non è dovuto ma neanche possibile in quanto violerebbe altri diritti costituzionalmente garantiti quali quello alla privacy.
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Note
[1]In tal senso si veda Cass., Sez. I civile, n. 9384/2018.
[2]Cass., Sez. VI civile., n. 15811/17; Cass., Sez. VI civile n., 15079/17.
[3]Si veda sul punto Cass., Sez. I civile, n. 4470/2018.
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