Responsabilità da inadempimento del datore di lavoro in materia di infortuni sul lavoro e Covid-19

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L’imprenditore che decida di avvalersi del contributo di una persona per perseguire il proprio fine produttivo dovrà impegnarsi per tenerla indenne dai maggiori pericoli cui questa è conseguentemente esposta. È questa un’affermazione tanto scontata sotto un profilo di politica del diritto – almeno per il giurista odierno – quanto gravida di insidie “dogmatiche” non appena i decisori debbano trarne le concrete conseguenze applicative.

Sommario

 1.Contratto individuale di lavoro e obblighi di sicurezza

2 Responsabilità contrattuale e onere della prova

3 Il contributo del lavoratore nella determinazione del danno. Il c.d. rischio elettivo.

4. Il contagio da coronavirus come infortunio sul lavoro

5.Causa violenta ed occasione di lavoro nel contagio da coronavirus

6.Coronavirus ed infortunio in itinere.

7.Quale sicurezza sui luoghi di lavoro nell’emergenza COVID-19?

8.Il potenziamento straordinario del personale sanitario.

 

  1. Contratto individuale di lavoro e obblighi di sicurezza

Il tema della responsabilità datoriale per infortunio sul lavoro sconta le difficoltà connesse al complesso sistema di fonti normative che incidono sui rapporti privati tra datore e prestatore di lavoro, nonché alla pluralità di rami dell’ordinamento – previdenziale, penale, civile – che avvolgono la sicurezza sul lavoro, chiamando il giudicante al non facile compito di tenere ben separati i principi e le funzioni che connotano ciascun ambito normativo[1].

Eppure, le incertezze esibite dal diritto vivente sembrano trarre origine da un utilizzo non sempre preciso e uniforme dei principi e fondamenti che governano le leggi civili. A mettere in crisi gli schemi concettuali elaborati in materia di sicurezza sul lavoro è, il più delle volte, una stessa questione: ci si riferisce al rilievo da attribuire, ai fini del giudizio di responsabilità datoriale, alla condotta del lavoratore che abbia originato, contribuito a causare o solo occasionato la lesione dal medesimo sofferta. Sul punto, si registra in seno alla giurisprudenza una sostanziale spaccatura: alcuni giudici ritengono che, in ragione delle peculiarità del rapporto obbligatorio che scaturisce dal contratto individuale di lavoro, il principio civilistico del concorso di colpa subisca una vera e propria deroga, che non ammette eccezioni; altri, invece, ne ammettono l’operatività, pur senza individuare criteri legali che possano favorire l’adozione di soluzioni omogenee[2].

Le ricadute pratiche sono di tutta evidenza: basti considerare che in buona parte delle vicende che alimentano il contenzioso giuridico, le scelte e i comportamenti del lavoratore non sono mai del tutto estranei alla sequenza di eventi da cui il danno dagli stessi lamentato trae origine. Ma la necessità di trovare linee di giudizio comuni è oggi resa ancora più urgente dall’emergenza sanitaria legata all’esplosione della SARS-CoV-2. La potenziale capacità del contagio di moltiplicare gli infortuni sul lavoro[3] e la necessità di sviluppare e applicare misure di cautela efficaci impone di elaborare moduli interpretativi uniformi e in grado di riconoscere e stimolare il ruolo cooperativo che, anche in ambito lavoristico, il rapporto obbligatorio affida a ciascuna delle sue parti.

Il dovere di sicurezza che l’ordinamento impone al datore di lavoro trova il proprio presupposto normativo, oltre che logico, nell’esigenza di assicurare che lo svolgimento dell’attività di lavoro non si risolva in una compressione della sfera personale del prestatore. Questa esigenza, sebbene non estranea alle prime discipline giuslavoristiche[4], trova oggi un saldo radicamento, oltre che nella tutela del diritto alla salute (art. 32 Cost.), nella logica di preminenza della persona umana all’interno dei rapporti economici e sociali, sancita dagli artt. 2 e 41, comma 2, Cost. e rafforzata in sede europea, quanto all’ambito lavoristico, dal principio generale – capace di assumere la forma e la sostanza di un vero e proprio diritto soggettivo[5] – secondo cui “ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose” (art. 31 Carta fondamentale dei diritti dell’Unione europea).

La maggiore pregnanza col tempo assunta dal diritto alla protezione della persona si è accompagnata a un mutamento di assetto e prospettiva della disciplina in tema di infortuni sul lavoro, che ha coinvolto anche i suoi riflessi più strettamente civilistici. Se in un primo momento il dovere datoriale di sicurezza conservava una natura segnatamente pubblicistica, restando a latere del contratto individuale di lavoro[6] e assumendo una dimensione civilistica solo allorché se ne fosse lamentata una violazione, dottrina e giurisprudenza sono ormai da tempo concordi nel ritenere che esso entri a far parte, modellandolo, del rapporto interprivato che il datore instaura con il singolo prestatore. Il dovere generale di sicurezza, in altre parole, penetra direttamente nel programma contrattuale e, per tale via, assume la natura di vero e proprio obbligo di prevenzione degli infortuni, così contribuendo a completare il vincolo sinallagmatico tipizzato all’art. 2094 c.c.

Sotto un profilo di teoria generale, l’obbligo di sicurezza gravante sul datore può essere sistematizzato all’interno della più ampia categoria degli obblighi di protezione[7], vale a dire di quel complesso di obblighi – accessori rispetto all’obbligo primario di prestazione – che si occupano di completare la sequenza obbligatoria per soddisfare l’interesse di ciascuna parte a preservare la propria persona e le proprie cose dai danni che possono derivare in virtù del rapporto costituitosi.

Com’è noto, la base normativa della categoria è individuata, quanto al versante obbligatorio, nell’art. 1175 c.c., il quale, innovando rispetto alla codificazione precedente, sottopone entrambe le parti – debitore e creditore – a una valutazione di correttezza dei comportamenti tenuti, in vista del raggiungimento del risultato utile che ciascuno persegue[8]. La categoria trova altresì una sponda sul fronte contrattualistico, in quella serie di disposizioni che, ponendo al centro la clausola generale di buona fede (artt. 1337, 1366 e 1375 c.c.), contribuiscono a delineare i modelli di condotta cui, nelle varie fasi del rapporto, le parti devono conformarsi per salvaguardare la sfera giuridica della controparte[9].

Nel contesto specifico del contratto individuale di lavoro, tuttavia, l’“esubero di rapporto” che, in virtù dell’intreccio delle clausole generali da ultimo menzionate, consegue per entrambe le parti, subisce un ulteriore accrescimento giustificato dalla peculiare intensità del pericolo cui il lavoratore si espone in ragione del suo inserimento all’interno di una più complessa organizzazione produttiva.

La funzione integrativa del contenuto contrattuale è in questo caso demandata direttamente alla legge, senza la mediazione delle predette clausole: l’architrave del (micro)sistema di fonti eteronome è l’art. 2087 c.c., il quale impone all’imprenditore l’obbligo di adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica, nonché la personalità morale – vale a dire, sociale – dei lavoratori di cui si avvale.

La natura elastica del fraseggio utilizzato dal legislatore del 1942 consegna alla norma il duplice ruolo, per così dire, di capo e di coda della disciplina in materia di sicurezza sul lavoro. Essa infatti costituisce, per un verso, il punto di partenza dei percorsi attuativi della normativa specialistica in tema di sicurezza sul lavoro, dal quale deriva per il datore un complesso di misure specifiche di prevenzione (c.d. cautela nominate) che trovano, in sede applicativa, un supporto e un parametro di valutazione nella norma in esame[10]. A venire in rilievo, sotto questo primo profilo, sono in particolare le prescrizioni analiticamente descritte nel D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, le quali impongono al datore, tra le altre cose, di adottare le misure di prevenzione dai rischi cui sono esposti i dipendenti; di provvedere alla loro formazione, dotandoli delle informazioni necessarie per svolgere in sicurezza la propria attività (artt. 36 e 37); di fornire attrezzature sicure ed oggetto di idonea manutenzione (art. 71), nonché i dispositivi di protezione necessari a evitare infortuni (art. 18).

Per altro verso, l’art. 2087 c.c. assolve la funzione di completamento del sistema di prevenzione, consentendo di integrare il corpus delle misure tecniche di cautela già individuate con quelle che, pur non essendo esplicitate dalla legislazione, debbono ritenersi necessarie per tutelare il lavoratore, purché individuabili ex ante sulla base delle conoscenze tecniche disponibili (c.d. cautele innominate)[11]. È utile notare, peraltro, che la formulazione adottata dal legislatore imprime alla norma un carattere dinamico, rendendo la prescrizione in capo al datore sensibile all’evoluzione del quadro dei rischi e delle relative tecniche di cautela alle quali, pertanto, questi dovrà aderire secondo un principio di costante adattamento e aggiornamento degli standards di prevenzione[12].

La sicurezza sul lavoro in azienda presuppone dunque una vera e propria “programmazione”, da parte del datore, improntata alla gestione delle condizioni di rischio, la quale si riflette, sul piano contrattuale, in un maggior “carico obbligatorio”, giustificato tanto dalla posizione apicale che esso riveste all’interno dell’organizzazione dell’attività, di cui governa i fattori di produzione e assume i poteri direzionali della forza lavoro, quanto dalla destinazione di tale organizzazione alla soddisfazione del suo interesse imprenditoriale[13].

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  1. Responsabilità contrattuale e onere della prova.

La natura obbligatoria del dovere di cautela gravante sul datore di lavoro e la particolare “pervasività” che, per le ragioni appena esposte, esso assume all’interno del sinallagma rappresentano l’ascissa e l’ordinata entro cui si sviluppano le dinamiche patologiche del rapporto, conseguenti dall’infortunio occorso al prestatore in ambito lavorativo.

Da questa specifica angolatura, il primo – e più importante – punto di caduta applicativo dell’impostazione più su delineata consiste nell’assoggettamento della violazione dell’obbligo di prevenzione alle regole che governano il sistema di responsabilità contrattuale. E ciò a prescindere dalla configurabilità dell’obbligo di protezione come principale[14], posto che la sua capacità di incidere sul vincolo sinallagmatico consente al creditore di mettere in moto i rimedi contrattuali ogni qual volta esso non sia stato osservato[15].

Sotto il profilo strutturale, l’inosservanza dell’obbligo accessorio da cui derivi la lesione della sfera soggettiva del creditore costituisce requisito necessario – ma anche sufficiente – perché si determini la sostituzione di tale obbligo con la nuova obbligazione risarcitoria[16]. Il modello di responsabilità accolto nel nostro ordinamento, e cristallizzato all’art. 1218 c.c., si fonda infatti sul fatto oggettivo dell’inadempimento, vale a dire sul duplice requisito della violazione di un obbligo riconducibile entro la struttura (complessa) del rapporto obbligatorio che lega le parti e di uno “stato di fatto contrario all’aspettativa di tutela del creditore”[17]. A differenza dell’illecito aquiliano, non è dunque richiesto, per l’insorgere dell’obbligazione risarcitoria, che al debitore possa essere mosso un rimprovero, in ragione della natura colposa del comportamento o – più spesso nel nostro caso – dell’omissione all’origine del danno lamentato. Il requisito della colpa (contrattuale) acquista tuttavia un proprio autonomo e decisivo spazio applicativo, allorché l’inosservanza dell’obbligo sia riconducibile a un evento sopraggiunto che abbia sancito l’impossibilità, per il debitore, di adottare il contegno richiestogli[18]. Tale circostanza, espressamente prevista dalla seconda parte dell’art. 1218 c.c. come fattispecie estintiva del rapporto obbligatorio, determina infatti l’esclusione, senza residui, della responsabilità del debitore solo ove sia accertato che l’evento – imprevedibile e non prevenibile – non sia imputabile a una colpa del debitore medesimo[19].

L’applicazione di questi fondamenti strutturali della responsabilità contrattuale, sub specie di inadempimento, si riflette sul regime che governa la distribuzione dell’onere probatorio, il quale, ispirato a un favor creditoris, traccia la linea di separazione tra il sistema aquiliano e quello contrattuale di responsabilità.

Per quanto concerne la materia degli infortuni sul lavoro, le corti civili tendono ad addossare al creditore-lavoratore che decida di esperire il rimedio risarcitorio l’onere di provare, oltre al danno patito, il titolo costitutivo del rapporto di lavoro, potendosi per il resto limitare a una mera allegazione dell’inadempimento del datore di lavoro nell’apprestamento delle misure di sicurezza necessarie a tutelare l’integrità del lavoratore[20]. In tal modo, la giurisprudenza giuslavoristica di legittimità mostra di aderire – almeno sul piano formale – all’orientamento ormai da tempo consolidatosi in seno alle sezioni civili, le quali, a partire dalla sentenza n. 13533 del 2001[21], hanno ritenuto di sgravare il creditore dalla prova – troppo onerosa – dei fatti negativi posti a fondamento dell’inadempimento (fatta salva l’ipotesi dell’obbligazione negativa).

Dal canto suo, il debitore potrà liberarsi provando, alternativamente, un fatto a lui non imputabile generatore dell’impossibilità della prestazione ovvero di aver adempiuto correttamente, ossia di aver adottato tutte le misure di cautela prescritte nella legislazione speciale, nonché quelle ricavabili dalla norma generale di cui all’art. 2087 c.c., da coordinarsi con il criterio di diligenza rafforzata di cui all’art. 1176, comma 2.

Il quadro dei “costi” probatori fin qui tratteggiato lascia però fuori dal quadro un elemento che, nel campo che ci occupa, assume una valenza primaria, complicando non poco il governo da parte dei giudici dei principi appena illustrati: ci si riferisce alla prova del nesso eziologico che lega tra loro il danno subito dal dipendente e il comportamento (o l’omissione) del datore di lavoro. Sul punto ci si limiterà per il momento a rilevare – ma è questo un motivo centrale della rete di argomentazioni che saranno nel prosieguo sviluppate – che la connessione funzionale tra l’adempimento della prestazione principale e dell’obbligo di sicurezza, i quali entrambi concorrono alla realizzazione dello scopo complessivo del rapporto obbligatorio[22], determina una limitazione della gamma delle lesioni soggettive riconducibili all’area della responsabilità contrattuale: perché il danno subito dal lavoratore possa essere risarcito ex art. 1218 c.c. non è sufficiente dimostrare un rapporto di mera occasionalità con il contratto, ma si impone di accertare la sussistenza di una relazione causale tra il danno e un’attività del datore, legata all’esecuzione del contratto[23]. Detto in altri termini: la lesione del lavoratore deve rientrare entro la “zona di pericolo” cui afferisce il regolamento di azione che vede coinvolte le parti del contratto, onde evitare che al datore sia addossato l’obbligo di risarcire – per intero – ogni danno che, sulla base di un giudizio di prognosi postuma, non si sarebbe verificato senza quel contratto.

Sul fronte della distribuzione dei temi probatori, tale rilievo si traduce nell’onere, per il creditore, di individuare in sede di allegazione dell’inadempimento la regola di prudenza violata e astrattamente idonea a cagionare l’infortunio e, per il debitore, di provare che la violazione di tale regola non ha costituito causa (o concausa) efficiente alla determinazione del pregiudizio[24].

L’adesione formale all’impostazione contrattuale, e ai corollari che ne discendono, non trova sempre puntuale riscontro in sede di concreta applicazione, dove permane forte la tentazione delle corti di fare uso delle strutture e delle logiche proprie della responsabilità extracontrattuale per giudicare della risarcibilità del pregiudizio patito dal prestatore di lavoro. In particolare, la sovrapposizione sembra potersi registrare, da un lato, nell’attribuzione al lavoratore dell’onere di provare il fatto costitutivo dell’inadempimento e, dall’altro, nella coincidenza tra quest’ultimo e l’ambito lavorativo in cui si è occasionato il vulnus, così schiudendo le porte a un obbligo assoluto di cautela.

Questo dato si lascia apprezzare bene, guardando al modo in cui le corti valutano – per escluderla o per riconoscerla – la rilevanza del contributo del lavoratore-danneggiato alla determinazione del danno da questi subito; le argomentazioni sviluppate e le soluzioni adottate in tali casi, come si tenterà di evidenziare, svelano infatti una sostanziale incertezza in seno alla giurisprudenza circa l’ampiezza e la portata dell’obbligo di sicurezza posto a carico del datore.

  1. Il contributo del lavoratore nella determinazione del danno. Il c.d. rischio elettivo.

Non vi è dubbio – in dottrina come in giurisprudenza – che la responsabilità dell’imprenditore resti esclusa ogni qual volta il comportamento del lavoratore danneggiato integri gli estremi del c.d. rischio elettivo. Con tale locuzione, si usa far riferimento ai quei comportamenti del lavoratore che assumono, rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute, tratti di “abnormità, inopinabilità ed esorbitanza”[25], in quanto frutto (i) di iniziative arbitrarie ed estranee alle finalità produttive, (ii) intraprese volontariamente dal lavoratore in base a ragioni e motivazioni del tutto personali, (iii) che si risolvono nella determinazione di un evento – la lesione della sua stessa sfera personale – che non presenta con l’attività lavorativa svolta alcun “nesso di derivazione”[26].

Rispetto a tali fattispecie, e sempre che sia possibile rinvenire contestualmente tutti gli elementi appena elencati, la giurisprudenza è unanime nel ritenere che la condotta del lavoratore è idonea a determinare l’esonero totale del datore da ogni responsabilità per l’infortunio subito. Eppure, nonostante l’uniformità delle decisioni, le argomentazioni utilizzate da (certa) giurisprudenza di legittimità mettono a nudo le prime incrinature rispetto a uno schema di tutela risarcitoria fondato sull’inadempimento. Non di rado, infatti, la Corte di cassazione attribuisce al comportamento del lavoratore integrante il c.d. rischio elettivo il ruolo di fattore interruttivo del nesso di causalità “fra lavoro, rischio ed evento”[27] o anche “tra l’infortunio […] e il comportamento colposo dell’imprenditore”[28]. In tal modo, i giudici veicolano l’idea di un rapporto eziologico che lega l’infortunio non già all’inosservanza di un obbligo da parte del datore di lavoro, bensì a un comportamento che risulti a questo imputabile per colpa ovvero a una circostanza comunque riconducibile all’organizzazione d’impresa[29], a prescindere dalla posizione e dalle mansioni che, all’interno di tale organizzazione, sono affidate al lavoratore-danneggiato. Quasi che il sistema di responsabilità contrattuale fosse funzionalmente teso ad assicurare la corretta “imputazione del danno” patito dalla persona del creditore e le regole a esso sottostanti fossero modellate sulla scorta della fattispecie di cui all’art. 2050 c.c., il quale infatti è spesso richiamato dai giudici per sottolineare le analogie con la fattispecie qui esaminata[30]. Una conferma indiretta di quanto appena osservato può essere tratta dalle ricadute – sul piano della struttura della responsabilità – che la giurisprudenza talvolta prospetta come inaccettabili, ove l’imprenditore fosse chiamato a rispondere anche per i danni riconducibili al rischio elettivo. Si è in particolare affermato che, se così fosse, la fattispecie di cui all’art. 2087 c.c. darebbe vita a una forma di “responsabilità oggettiva”[31]: rilievo, questo, che può accogliersi solo se la locuzione sia riferita al regime aquiliano, considerato che il comportamento abnorme esclude in radice la violazione dell’obbligo di sicurezza da cui dovrebbe muovere la sequenza casuale di una responsabilità fondata sull’inadempimento.

A ben vedere, infatti, l’esclusione di responsabilità, nelle ipotesi ora considerate, appare giustificata dalla circostanza per cui l’infortunio lamentato fuoriesce dal perimetro di pericolo di cui il datore è tenuto a farsi carico ex contractu (e dunque dalla struttura del rapporto obbligatorio), assumendo il comportamento “abnorme” del lavoratore un’efficacia non già assorbente (il che presupporrebbe una violazione dell’obbligo), bensì autonoma rispetto a un evento dannoso che trova nel contesto lavorativo la mera occasione per manifestarsi.

È necessario dunque evitare che, nel ricorrere alla categoria del rischio, si confonda il ruolo che esso gioca nelle diverse fattispecie prese in considerazione: nell’un caso (2050 c.c.), criterio di imputazione del danno, per far fronte alle insidie (per i terzi) legate allo svolgimento di attività produttive pericolose; nell’altro (2087 c.c.), criterio di delimitazione della sfera di responsabilità del datore, chiamato a rispondere dei soli danni che costituiscano la realizzazione di rischi connessi alle modalità ed esigenze del lavoro da svolgere e, come tali, suscettibili di essere oggetto di una specifica programmazione da effettuarsi ex ante.

Diversa è l’ipotesi in cui la condotta della vittima, pur facendo seguito a iniziative incongrue rispetto alle direttive del datore di lavoro o rivelandosi per altro verso incauta, sia rapportata allo svolgimento della mansione assegnatagli o comunque motivata da finalità che possono essere ricondotte entro quelle propriamente aziendali. In tali casi, la responsabilità dell’imprenditore non può dirsi esclusa in ragione dell’estraneità del rischio alla sfera di tutela cui afferisce l’obbligo di sicurezza imposto al datore. Su questo fronte, il problema assume una connotazione diversa: ci si chiede se, ed eventualmente entro quali limiti, la condotta colposa del lavoratore possa essere presa in considerazione dal giudice per escludere la responsabilità del datore ovvero per ridurla sulla base del meccanismo contenuto all’art. 1227 c.c.

Prima di procedere ad analizzare come la giurisprudenza giuslavoristica risponde a tale quesito, conviene verificare il modo in cui tale norma viene tradizionalmente inquadrata e applicata[32].

È appena il caso di segnalare che, nel contesto delle fattispecie di danno qui esaminate, a venire in rilievo è la disposizione fissata dal comma 1 dell’art. 1227 c.c., il quale sancisce che qualora la produzione del danno sia riconducibile, oltre alla condotta del debitore, al fatto colposo del creditore, il risarcimento dovuto è diminuito “secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate”.

Nel ricostruire la ratio di tale norma – il cui ambito applicativo si estende anche alla responsabilità extracontrattuale (art. 2056 c.c.) – la dottrina più risalente muoveva da una prospettiva tutta interna alla posizione del danneggiato, per segnalare come essa fosse diretta a “sanzionarne” la condotta colposa con la parziale perdita della posta risarcitoria che gli sarebbe spettata. A far da sfondo alla norma era dunque un generale “principio di autoresponsabilità” dei danneggiati[33], ai quali era imposto l’obbligo di sopportare le conseguenze delle proprie azioni, in modo da garantire un corretto funzionamento del sistema risarcitorio[34]. In coerenza con tale impostazione, la colpa assumeva un’accezione “soggettiva”, fondata sulla comparazione tra la condotta tenuta e le alternative di azione possibili, tenuto conto delle condizioni soggettive della vittima[35]. In tal modo, il requisito della colpa selezionava i comportamenti per i quali poteva essere mosso un rimprovero al danneggiato, con un evidente inserimento della norma entro lo schema concettuale fissato dal binomio colpa-illiceità, che per lungo tempo ha governato il sistema aquiliano di responsabilità.

Partendo dal presupposto per cui non è desumibile, nel nostro ordinamento, un principio che imponga di sanzionare chi cagioni danni a sé stesso, la dottrina e la giurisprudenza più recenti ritengono invece che la norma debba essere letta e interpretata avendo a mente la posizione e le ragioni del debitore: l’art. 1227, comma 1, c.c. è espressione del principio per cui il danneggiante non può farsi carico di rispondere per i danni che non ha cagionato. In questa prospettiva, la norma si inserisce nella fattispecie dannosa sul piano del nesso di causalità[36], imprimendo al fatto del danneggiato il ruolo di concausa nella produzione del danno. A tal fine, tuttavia, il comportamento del creditore deve essere qualificabile in termini di colpa, qui intesa nel suo significato moderno di “difformità oggettiva da un parametro normativo o sociale di comportamento”; colpa che assume così il ruolo di “requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato”[37]. Alla luce di tale lettura, e nonostante l’art. 1227 c.c. individui testualmente nel risarcimento l’elemento su cui la concausa esercita la sua funzione di riduzione, alcuna dottrina ritiene che tale norma costituisca espressione di un principio di responsabilità parziaria o proporzionale, in base al quale la responsabilità, in caso di più concorrenti, deve essere commisurata “pro quota” all’efficienza causale del contributo di ciascuno. Un principio, questo, che assumerebbe una portata generale nel nostro ordinamento, laddove si riconoscesse la sussistenza di un rapporto di “eccezione-a-regola” tra i commi 1 e 2 dell’art. 2055 c.c., i quali impongono, rispettivamente, la solidarietà passiva tra i concorrenti chiamati dalla vittima a rispondere dell’obbligazione risarcitoria e la distribuzione in regresso di quanto versato da uno di essi, da effettuarsi secondo i medesimi criteri (gravità della colpa e entità delle conseguenze) di cui all’art. 1227, comma 1, c.c.[38].

Vi è da segnalare, ad ogni modo, che le due letture – quella dell’autoresponsabilità e quella causalista – non sono tra loro del tutto incompatibili: posto che un’indagine preliminare sotto il profilo eziologico è sempre necessaria, non fosse altro per verificare se l’eccezionalità del comportamento dell’attore sia addirittura idonea ad escluderlo, la ratio di (auto)responsabilizzazione del danneggiato emergerebbe dalla richiesta di accertare la natura colposa della condotta da questi tenuta[39].

  1. Il contagio da coronavirus come infortunio sul lavoro

L’art. 42, comma 2 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, conv. in L. 24 aprile 2020, n. 27 (che sulla questione oggetto del presente scritto non ha introdotto modifiche rilevanti) ha disposto (per quel che qui interessa) che “nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL, che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato”[40].

Successivamente, l’art. 29 bis del D.L. 8 aprile 2020, n. 23, introdotto in sede di conversione dalla L. 5 giugno 2020, n. 40, ha previsto che “ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.

La prima delle disposizioni citate aveva determinato il timore degli operatori economici di un aggravamento della loro responsabilità, in caso di contagio dei loro lavoratori, ed era stata valutata in modo critico da una parte della dottrina. In particolare, questa aveva ipotizzato che dalla disposizione citata potessero sorgere “ulteriori obbligazioni gravanti sul datore di lavoro, correlate al danno differenziale in favore del lavoratore ed al regresso dell’INAIL per le prestazioni erogate”[41].

Tali timori erano stati indotti anche dall’interpretazione data in un primo momento dall’ente previdenziale, la cui lettura della norma era ad alcuni sembrata estendere in modo improprio (specie nel caso dell’infortunio in itinere) l’ambito di applicazione della tutela in esame. Ciò avrebbe potuto comportare, ove il fenomeno non fosse stato immediatamente circoscritto, che dalla condivisibile volontà di chiarire i termini della tutela del lavoratore esposto al rischio di contrarre l’infezione in questione, potessero derivare “successive iniziative volte ad utilizzare gli strumenti risarcitori, con conseguente spasmodica ricerca di difetti imputabili nell’azione prevenzionale del datore di lavoro”[42].

Altri interpreti avevano invece evidenziato, l’infondatezza dei timori sopra indicati, e la sostanziale continuità della disposizione in questione con la disciplina già vigente, come costantemente interpretata dalla giurisprudenza[43]. In particolare – esaminando una questione poi chiarita in modo non equivoco dall’ente previdenziale – era stato rilevato, con termini inusuali in dottrina, che l’attribuzione al lavoratore contagiato della tutela prevista in caso di infortunio sul lavoro non avrebbe comportato automaticamente il riconoscimento della sussistenza della responsabilità penale o civile del datore di lavoro per l’accaduto[44]. Queste ultime infatti si fondano su presupposti giuridicamente diversi rispetto all’infortunio sul lavoro, per cui il riconoscimento di quest’ultimo non necessariamente determina conseguenze ulteriori per l’imprenditore.

  1. Causa violenta ed occasione di lavoro nel contagio da coronavirus

L’art. 42, comma 2 del D.L. 18 del 2020 non introduce alcuna innovazione riguardo all’individuazione degli elementi costitutivi dell’infortunio su lavoro, ed in particolare alla necessaria sussistenza, ai fini del riconoscimento della tutela in questione, della “causa violenta” e della “occasione di lavoro”, previste dall’art. 2, comma 1 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124[45].

È “causa violenta” un fattore esterno al lavoratore (c.d. alterità), che produce la lesione della sua integrità fisica, secondo modalità caratterizzate dalla rapidità, intesa come intensità concentrata nel tempo. L’alterità può sussistere sia qualora vi sia “un rapporto diretto e personale tra fattore causale e persona del lavoratore” (come nel caso della lesione discendente da operazioni condotte tramite una macchina, o dello sforzo esercitato per sollevare un peso), sia nel caso in cui operino agenti virali o microbici, presenti nell’ambiente di lavoro, e che “penetrando nell’organismo umano, ne determinino l’alterazione dell’equilibrio anatonomo – fisiologico”[46]. L’alterità è presente anche nel caso della malattia professionale, dalla quale però l’infortunio si distingue per la “rapidità e concentrazione” dell’azione.

Un’infezione tipizzata dal legislatore è contenuta del resto già nell’art. 2, comma 2 del d.P.R. n. 1124 del 1965, che qualifica come infortunio sul lavoro l’infezione da antrace, che può essere contratta nello svolgimento di attività lavorative a contatto con gli animali.

Nel concetto in questione rientra anche l’ipotesi in cui il virus si trovi già nell’organismo, ma arrivi ad intaccarlo soltanto in conseguenza dell’abbassamento delle difese immunitarie, determinato dalla presenza nell’ambiente di lavoro di ulteriori elementi biologici, non appartenenti al novero dei virus o dei batteri[47].

Questioni più delicate dal punto di vista interpretativo pone la necessaria presenza della “occasione di lavoro”, che non a caso l’art. 42, comma 2 del D.L. n. 18 del 2020 ribadisce essere un elemento necessario, al fine della sussistenza di un infortunio sul lavoro[48]. Questa consiste nel rapporto di occasionalità necessaria tra l’attività lavorativa e la lesione subita. In particolare, la prestazione svolta dal lavoratore, o anche le attività prodromiche o strumentali rispetto ad essa, devono avere determinato un rischio specifico, ulteriore e diverso rispetto a quello al quale il lavoratore, come qualsiasi altro individuo, è esposto.

Sono pertanto indistintamente compresi in questa nozione le diverse componenti eziologiche del caso fortuito, della forza maggiore, del fatto del terzo, della condotta dolosa o colposa del datore di lavoro, nonché della condotta colposa del lavoratore[49].

Sono esclusi dalla tutela soltanto i casi di “rischio elettivo”, vale a dire di un comportamento del lavoratore consistente “nella deviazione puramente arbitraria ed animata da finalità personali dalle normali attività lavorative, che comporta rischi diversi da quelli inerenti alle usuali modalità di svolgimento della prestazione”[50].

Non è però esclusa la sussistenza di un infortunio sul lavoro anche al di fuori delle ipotesi appena richiamate. È questo per esempio il caso del lavoratore che sia entrato in contatto con un collega di lavoro, che risulti successivamente essere stato contagiato dal virus.

Il lavoratore che non abbia rispettato le misure di sicurezza previste dal datore di lavoro, in conformità ai protocolli di sicurezza sottoscritti tra le parti sociali, ed in relazione alle quali sia stato debitamente informato[51], conserva il diritto ad accedere alla tutela antinfortunistica. In casi analoghi infatti si è ritenuto che il datore di lavoro sia tenuto non soltanto a adottare le misure necessarie alla tutela della salute e della sicurezza del lavoratore, ma anche a vigilare sul loro rispetto, per cui – tranne che nel caso in cui la violazione sia qualificabile come rischio elettivo – l’occasione di lavoro sussiste anche in questi casi.

Secondo l’interpretazione della disciplina data dall’ente previdenziale, nel caso degli operatori sanitari, e dei lavoratori che abbiano operato in costante contatto con il pubblico, la dimostrazione dell’occasione di lavoro può avvenire facendo ricorso al concetto di “presunzione semplice di origine professionale”[52]. In altri termini, dalla sussistenza delle circostanze sopra indicate è possibile ricavare, ai sensi dell’art. 2729 c.c., che il contagio sia avvenuto in occasione dello svolgimento dell’attività lavorativa[53].

L’ente previdenziale potrebbe dunque negare la sussistenza dell’infortunio sul lavoro, soltanto dando la prova della diversa eziologia del contagio. A tale fine però non sarebbe sufficiente la dimostrazione di contatti con soggetti potenzialmente contagiosi, anche fuori dal luogo di lavoro, a meno di non provare altresì “che il contatto utile per la trasmissione dell’agente patogeno sia stato privo di efficacia per la sistematica e costante adozione” delle misure di sicurezza a tutela del lavoratore[54].

Va rammentato infatti che il concetto di “occasione di lavoro”, rilevante ai fini del riconoscimento dell’infortunio sul lavoro, è concettualmente diverso da quello di “causa di lavoro”, che assume rilievo ad altri fini, quali la sussistenza di una malattia professionale, il risarcimento del danno non coperto dall’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, o l’individuazione della responsabilità penale[55].

Per il riconoscimento dell’infortunio sul lavoro non è dunque necessario che sia provato il nesso causale tra uno specifico evento legato all’attività lavorativa, e l’avvenuto contagio. La tutela previdenziale dell’infortunio sul lavoro è stata infatti riconosciuta anche a lavoratori che avevano contratto un’infezione virale, e che non avevano potuto dimostrare quale fosse stato l’evento concreto dal quale, nell’ambito di un’attività caratterizzata da un rischio specifico, fosse derivato l’ingresso del virus nell’organismo[56].

Parte della dottrina sostiene però che, ad eccezione dei settori in cui sia presente un rischio specifico, discendente dalla maggiore esposizione – anche solo potenziale – al virus, “la pandemia non è logicamente e concettualmente riconducibile all’occasione di lavoro”, per cui vi sarebbe tra l’infezione da virus e l’attività lavorativa una mera correlazione, tranne che nei casi in cui “l’infezione entra, per così dire, nel processo produttivo”[57]. Per le altre attività non sarebbe invece ipotizzabile che l’infezione da coronavirus sia stata contratta in occasione dello svolgimento della prestazione lavorativa, a meno di non provare la concreta esposizione al contagio (ad esempio tramite il contatto con un collega di lavoro, a fronte dell’assenza di altri eventi morbosi nell’ambiente familiare)[58].

Altri invece – più correttamente – sostengono che nel periodo di sospensione delle attività produttive ritenute non strettamente necessarie (che però non ha interessato i dipendenti di numerose imprese, che hanno continuato a svolgere regolarmente la loro attività), durante il quale i lavoratori – come gli altri consociati – erano tenuti a rimanere presso il loro domicilio, il lavoro prestato con le modalità usuali (e non “da remoto”), quale esso sia, costituirebbe di per sé un fattore di aggravamento del rischio[59]. Di conseguenza, il contagio andrebbe considerato comunque come collegato all’attività lavorativa (e pertanto sussisterebbe l’occasione di lavoro), atteso che il rischio al quale è stato esposto il lavoratore sarebbe superiore a quello collegato alla sua normale vita sociale (ridotta ai minimi termini dalle notevoli limitazioni alle libertà fondamentali, introdotte per contrastare la diffusione dell’epidemia).

Con la progressiva eliminazione ai limiti alla libera circolazione delle persone – pur restando attivo il virus, e possibile il contagio – verrebbe però meno l’aggravamento del rischio, discendente dal semplice allontanamento dal proprio domicilio. Di conseguenza, nella valutazione della sussistenza o meno dell’occasione di lavoro, si dovrebbe tornare agli usuali strumenti concettuali, con ciò dunque distinguendo tra le attività che comportano un rischio specifico di contagio (nelle quali possono operare le presunzioni richiamate), e quelle in cui invece questo non sussiste.

  1. Coronavirus ed infortunio in itinere

Un’ulteriore complicazione è data dalla possibilità – non espressamente regolata dalla legge, ma correttamente tenuta presente dall’ente previdenziale – di un infortunio sul lavoro per l’infezione contratta in itinere.

L’art. 2, comma 3 del d.P.R. n. 1124 del 1965, introdotto dall’art. 12 del D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, codificando un orientamento della giurisprudenza ormai consolidato[60], dispone infatti che l’assicurazione contro gli infortuni comprenda gli eventi “occorsi alle persone assicurate durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro, durante il normale percorso che collega due luoghi di lavoro se il lavoratore ha più rapporti di lavoro e, qualora non sia presente un servizio di mensa aziendale, durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti”.

Tali infortuni solitamente sono determinati da eventi lesivi di natura meccanica, come ad esempio gli incidenti stradali. Non a caso, nella tipizzazione della fattispecie, il legislatore richiede, ai fini del riconoscimento dell’infortunio sul lavoro, che il lavoratore utilizzi i trasporti pubblici, a meno che egli non abbia la necessità di impiegare il proprio mezzo di locomozione. In questo caso prevede però che siano “esclusi gli infortuni direttamente cagionati dall’abuso di alcolici e di psicofarmaci o dall’uso non terapeutico di stupefacenti ed allucinogeni; l’assicurazione, inoltre, non opera nei confronti del conducente sprovvisto della prescritta abilitazione di guida”.

Secondo l’orientamento dell’ente previdenziale, anche i contagi da coronavirus possano essere qualificati come infortunio in itinere, per la presenza di un elevato rischio, determinato dalla natura dell’epidemia, anche durate il tragitto da e per il luogo di lavoro.

In proposito, l’uso del mezzo privato è ritenuto necessario (e dunque l’eventuale contagio subito può essere qualificato come “infortunio in itinere“), in considerazione del più elevato rischio di contagio “in aree o a bordo di mezzi pubblici affollati”. Nessuna disposizione ha però vietato l’impiego di questi ultimi, laddove siano rimasti in attività, durante il periodo più acuto della diffusione del virus.

Il lavoratore che si sia recato al lavoro utilizzando il mezzo pubblico (e non quello privato) durante il periodo di emergenza, e che risulti poi contagiato, potrebbe dunque legittimamente affermare che l’evento si sia realizzato durante lo spostamento dal luogo di abitazione a quello di lavoro, o tra due diversi luoghi di lavoro.

Va però rilevato che, ai fini del riconoscimento dell’infortunio in itinere, “il rischio elettivo che ne esclude l’indennizzabilità deve essere valutato con maggiore rigore rispetto a quello che si verifichi nel corso dell’attività lavorativa diretta, in quanto comprende comportamenti del lavoratore infortunato di per sé non abnormi, secondo il comune sentire, ma semplicemente contrari a norme di legge o di comune prudenza”[61]. Pertanto, qualora il lavoratore avesse costantemente omesso l’adozione durante il tragitto delle elementari precauzioni previste dalla disciplina vigente (quale ad esempio l’impiego della mascherina a protezione di naso e bocca), si potrebbe fondatamente sostenere la non indennizzabilità dell’infortunio. Si tratterebbe però di una circostanza che andrebbe provata dall’ente previdenziale, con le intuibili difficoltà al riguardo.

In ordine invece al contagio subito dal lavoratore che abbia usato il mezzo privato, ove si aderisca alla tesi secondo la quale il semplice allontanamento dal proprio domicilio, durante il periodo di vigenza delle limitazioni alla libertà di movimento, abbia comportato un rischio aggiuntivo, l’eventuale contagio andrebbe comunque qualificato come infortunio in itinere.

Dopo l’eliminazione delle predette restrizioni, invece, la circostanza che il lavoratore non sia entrato in contatto con altri soggetti nel tragitto per recarsi al (e per tornare dal) lavoro dovrebbe escludere che sussista la fattispecie in esame.

L’infortunio in itinere costituirà con ogni probabilità, proprio per l’opinabilità delle soluzioni prospettate, il campo in cui il contenzioso sarà più frequente[62]. È ipotizzabile che nella valutazione dei casi un ruolo fondamentale, come del resto prospettato dallo stesso ente previdenziale, assumeranno i dati epidemiologici sulla diffusione del virus nella zona in cui il lavoratore sia stato contagiato, con una maggiore propensione a riconoscere la sussistenza dell’infortunio in itinere nelle aree più colpite dall’epidemia.

7.Quale sicurezza sui luoghi di lavoro nell’emergenza COVID-19?

Si può ancora parlare di tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro durante una emergenza come quella che stiamo vivendo?

Rispondere a tale domanda non è facile, specie alla luce delle ancora poche informazioni disponibili sulle caratteristiche del virus SARS-CoV-2. La conoscenza scientifica in materia è ancora insufficiente e nessuno può essere sicuro di adottare tutte le misure veramente adeguate per la prevenzione del contagio.

Ciò premesso, il dilemma, teorico, è sempre il medesimo: inibire tutte le attività produttive oppure sospenderne e limitarne alcune consentendo lo svolgimento di altre?

È evidente che l’inibizione di tutte le attività produttive, unita al totale e assoluto lockdown è impossibile perché non potremmo sopravvivere (in senso letterale!); il contemperamento tra cosa deve essere sospeso e cosa no si è reso dunque necessario e il Governo ha gestito questa fase tramite decreto del Presidente del Consiglio (quello del 22 marzo), utilizzando i codici ATECO e confrontandosi con le Parti Sociali.

Sta di fatto che se è certamente durissima per chi non lavora, lo è anche per chi continua a lavorare.

Innanzi tutto ci si domanda se questa emergenza epidemiologia deve rientrare nella valutazione dei rischi che incombe in capo al datore di lavoro ai sensi dell’art. 28, D.Lgs. n. 81/2008. In particolare, sorge il dubbio se il rischio da contagio per il virus SARS-CoV-2 debba essere considerato quale circostanza che rende necessario oppure no l’adeguamento del DVR, ai sensi dell’art. 29, comma 3, D.Lgs. n. 81/2008, trattandosi di epidemia, rectius pandemia, quindi di rischio che incombe su tutti, dovunque.

Le definizioni di “rischio” e “valutazione dei rischi” contenute nell’art. 2, lett. q) ed s), D.Lgs. n. 81/2008, sono piuttosto ampie, ma l’interpretazione che si sta affermando[63] è quella di considerare il COVID-19 come “rischio professionale” solo per le aziende del SSN o laboratori o altri contesti specifici in cui il rischio biologico sia di origine professionale, facendo quindi sorgere solo in tali contesti l’esigenza di rielaborare il DVR ai sensi dell’art. 29 cit., con connesse responsabilità civile, penale e amministrativa del datore di lavoro, come delineate nel D.Lgs. n. 81/2008.

Questa posizione[64], che comunque enfatizza la responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c., sconta però il fatto che il virus può agire in modo diverso a seconda dei contesti lavorativi e delle misure prevenzionali poste in essere: tradotto in altri termini, un rischio esterno, esogeno, all’organizzazione produttiva può diventare anche rischio endogeno, professionale, non solo se non vengono rispettate le misure anti-contagio previste dai D.P.C.M. e dal “Protocollo” siglato da Governo e parti sociali, ma anche se quelle misure non vengono adeguatamente “calate” nel contesto aziendale, per adeguarle all’organizzazione del lavoro[65]. La revisione del DVR implica, invece, il necessario coinvolgimento del RSPP, del medico competente e dei RLS, e impone una attività formativa e informativa specifica per i lavoratori, senza contare che eleva il livello di attenzione del datore stante le ricadute anche penali, del suo agire, come pure quello dei lavoratori, che potrebbero essere sanzionati disciplinarmente nel caso di violazione delle prescrizioni anti-contagio.

Certo, sullo sfondo resterebbero, erga omnes, le sanzioni amministrative per la violazione delle misure di contenimento previste (non dai D.P.C.M. ma) dall’art. 4, D.L. n. 19/2020, potendosi quindi presentare problemi di concorso di fattispecie configuranti illeciti penali o amministrativi ai sensi del D.Lgs. n. 81/2008, con il rischio di violare il principio del ne bis in idem[66]; ad esempio, la stessa misura della sospensione dell’attività può essere adottata sia dal Prefetto nel limite massimo di 5 giorni, ai sensi dell’art. 4, comma 3, D.L. n. 19/2020, sia dagli organi di vigilanza del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, ai sensi dell’art. 14, D.Lgs. n. 81/2008, senza un limite massimo predeterminato.

Dulcis in fundo, far confluire nel DVR le misure prevenzionali anti-contagio, solleva dal doversi arrovellare sul tema dell’efficacia soggettiva, e poi anche oggettiva, del Protocollo del 14 marzo[67].

La considerazione sopra svolta, cioè che un rischio generico e pandemico possa anche diventare un rischio specifico e professionale, viene supportata dalla previsione contenuta nell’art. 42, comma 2, D.L. n. 18/2020, il quale dispone che i casi accertati di infezione da SARS-CoV-2 in occasione di lavoro siano qualificati come infortuni e che le prestazioni a carico dell’INAIL coprano anche i periodi di quarantena o permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato, con riferimenti ai datori di lavoro pubblici e privati.

Al lavoratore (assicurato contro il rischio di infortuni) infettatosi compete l’indennità giornaliera per inabilità temporanea assoluta, e, ove residui un grado di menomazione dell’integrità psico-fisica superiore rispettivamente al 6% o al 15%, anche l’indennizzo in capitale o in rendita e, se vi è stato il decesso del lavoratore, scatteranno le prestazioni previste per i superstiti. L’art. 42, comma 2, cit., precisa, inoltre, che gli eventi infortunistici da COVID-19 non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio[68] per andamento infortunistico, come peraltro avviene con l’infortunio in itinere. Questa disposizione costituisce evidentemente una misura di favore per i datori di lavoro, anch’essi vittime dell’attuale situazione pandemica ed emergenziale, anche se in teoria potrebbe essere ravvisata una corresponsabilità nella diffusione del virus: si pensi ai casi in cui non sono state imposte ai dipendenti le misure anti-contagio prescritte dal Protocollo citato, ovvero quelle imposte risultino non essere adeguate alla situazione o, peggio, emergano gravi omissioni dolose nell’approntamento delle misure di sicurezza e nell’informazione ai lavoratori dei rischi presenti sul luogo di lavoro.

Per quanto riguarda l’inquadramento della infezione COVID-19 contratta in occasione di lavoro, il legislatore ha recepito l’indirizzo INAIL in materia di malattie infettive e parassitarie riconducendole, per l’aspetto assicurativo, nella categoria degli infortuni sul lavoro: come ha chiarito la circolare dell’Istituto n. 13/2020, in questi casi, infatti, la causa virulenta è equiparata a quella violenta. L’Istituto ha precisato, inoltre, che l’ambito della tutela riguarda, in primis, gli operatori sanitari esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico, in secundis, chi svolge altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico: per tutti vige il principio della presunzione semplice. Per gli altri casi nei quali manca l’indicazione o la prova di specifici episodi contagianti o comunque di indizi “gravi precisi e concordanti” tali da far scattare la presunzione semplice, l’accertamento medico-legale seguirà l’ordinaria procedura, considerando i dati epidemiologici, clinici, anamnestici e circostanziali.

Opportunamente, la circ. n. 13/2020 esplicita la posizione dell’Istituto in merito alla configurabilità dell’infortunio in itinere, posto che tale è non solo quello conseguente al classico incidente stradale, ma anche quello da contagio. Inoltre, poiché il rischio di contagio è molto più probabile sui mezzi pubblici (a causa della presenza, anche solo potenziale, di più persone) piuttosto che su quelli privati, l’INAIL considera “necessitato” (ai sensi dell’art. 2, comma 3, d.P.R. n. 1124/1965) l’uso del mezzo privato, con una deroga valida per tutta la durata del periodo di emergenza epidemiologica.

Visti lo spaventoso numero dei decessi e l’emergente questione sociale, si plaude all’invito che la circolare fa alle sedi territoriali di attivare ogni utile iniziativa per fornire ai familiari dei lavoratori deceduti ogni informazioni necessaria per poter beneficiare della prestazione economica una tantum (prevista dal Fondo delle vittime di gravi infortuni sul lavoro) che spetta anche ai familiari di lavoratori non assicurati all’INAIL (come per esempio militari, vigili del fuoco, forze di polizia, liberi professionisti).

8.Il potenziamento straordinario del personale sanitario 

Una delle prime azioni poste in essere dal Governo è stato un reclutamento rapido (e un po’ confuso) per il potenziamento delle risorse umane del Sistema Sanitario Nazionale tramite, da un lato, il reclutamento di nuove leve (anche neo laureati e medici specializzandi), dall’altro il richiamo “alle armi” di medici in quiescenza (frettolosamente mandati a casa nell’ultimo quinquennio, alla maturazione dei requisiti pensionistici ordinamentali e rimasti soccombenti nei giudizi instaurati per tentare di ritardare il pensionamento). Si prevede anche l’arruolamento di un contingente di personale sanitario militare e un rinforzo dei ruoli dell’INAIL e dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre ad imporre alle Regioni la rideterminazione dei piani di fabbisogno del personale sanitario.

Il D.L. n. 14/2020 dispone che per far fronte alle “esigenze straordinarie ed urgenti derivanti dalla diffusione del COVID-19 e di garantire i livelli essenziali di assistenza, nonché per assicurare sull’intero territorio nazionale un incremento dei posti letto per la terapia intensiva e sub intensiva necessari alla cura dei pazienti affetti dal predetto virus, le aziende e gli enti del Servizio Sanitario Nazionale, fino al perdurare dello stato di emergenza deliberato dal Consiglio dei ministri in data 31 gennaio 2020”, possono procedere al conferimento di incarichi di lavoro autonomo, anche di collaborazione coordinata e continuativa, di durata non superiore a sei mesi, prorogabili nel 2020 in ragione del perdurare dello stato di emergenza, a professionisti nell’ambito sanitario, a laureati in medicina e chirurgia, abilitati all’esercizio della professione medica e iscritti agli ordini professionali e, addirittura, a laureati in medicina e chirurgia privi della cittadinanza italiana, abilitati all’esercizio della professione medica secondo i rispettivi ordinamenti di appartenenza, previo riconoscimento del titolo, senza che sia necessaria l’iscrizione all’ordine[69].

Oltre a questo, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale possono procedere all’assunzione con contratto di lavoro subordinato a termine e a tempo parziale dei medici specializzandi che sono utilmente collocati nella graduatoria – prevista appositamente per loro – che consente l’accesso alla dirigenza del ruolo sanitario. Durante tale periodo gli specializzandi non hanno diritto al cumulo tra il trattamento economico previsto dal contratto di formazione specialistica e la retribuzione per il nuovo rapporto di lavoro ma, se il trattamento economico attribuito dall’azienda sanitaria o dall’ente del SSN è inferiore a quello già previsto dal contratto di formazione specialistica, il primo è rideterminato in misura pari a quest’ultimo.

Infine, il D.L. n. 14 consente il conferimento di incarichi individuali di durata annuale e non rinnovabili, previo espletamento di una procedura di valutazione comparativa per titoli e colloquio, al personale sanitario e ai medici in possesso dei requisiti previsti dall’ordinamento per l’accesso alla dirigenza medica[70]. In questa ipotesi, le attività professionali svolte costituiscono titoli preferenziali nelle procedure concorsuali per l’assunzione presso le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale.

Si pone mano anche alla provvista di medici di base consentendo, per la durata dell’emergenza epidemiologica, ai medici iscritti al corso di formazione in medicina generale l’instaurazione di rapporto convenzionale a tempo determinato con il Servizio sanitario nazionale, nonché ai laureati in medicina e chirurgia abilitati (anche se iscritti ai corsi di specializzazione o ai corsi di formazione specifica in medicina generale), di assumere incarichi provvisori o di sostituzione di medici di medicina generale convenzionati con il SSN ed essere iscritti negli elenchi della guardia medica e della guardia medica turistica. Stessa sorte per i medici iscritti al corso di specializzazione in pediatria che durante il percorso formativo possono assumere incarichi provvisori o di sostituzione di pediatri di libera scelta convenzionati con il Servizio sanitario nazionale[71].

Il D.L. n. 18/2020 ha, poi, disposto un arruolamento, a domanda, con procedura semplificata e rapidissima, di militari dell’esercito italiano in servizio temporaneo con una ferma eccezionale della durata di un anno per 120 ufficiali medici e 200 sottoufficiali infermieri e consente di conferire incarichi individuali a tempo determinato per sei tecnici biologi, chimici e fisici al Ministero della Difesa, per 200 medici specialistici e 100 infermieri all’INAIL e per 50 unità di personale medico o ricercatore all’Istituto Superiore di Sanità.

Inoltre, l’emergenza in atto e l’insufficienza di medici e professionisti sanitari hanno anche spinto il Governo a derogare alle norme in materia di riconoscimento delle qualifiche professionali sanitarie prevedendo una procedura semplificata che consente l’esercizio temporaneo sul territorio nazionale di una professione sanitaria conseguita all’estero, così da agevolare tutte le forme di reclutamento previste dal D.L. n. 14[72].

In questa corsa disperata al reclutamento di personale sanitario, va evidenziata una palese criticità del sistema a cui sarebbe auspicabile rimediare al più presto: ad oggi esclusi dall’ambito soggettivo di applicazione della tutela assicurativa contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali sono proprio i medici e gli infermieri che prestano la loro attività all’interno delle strutture sanitarie con contratti di collaborazione coordinata e continuativa in quanto l’individuazione dei lavoratori parasubordinati assicurati è effettuata tramite il richiamo alla normativa fiscale e segnatamente ai “redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente”[73], in cui tendenzialmente non rientrano i professionisti sanitari[74].

Tale piano straordinario di reclutamento mette impietosamente a nudo la miopia (rectius la scelleratezza) della politica nazionale e regionale portata avanti nell’ultimo ventennio e caratterizzata dalla costruzione di ospedali mai utilizzati (le famose cattedrali nel deserto di cui vi sono ampie cronache giornalistiche), dal dimagrimento degli organici e dei posti letto, dalla riduzione dei posti nelle scuole di specializzazione in medicina e dalla disattenzione verso la ricerca scientifica, facendo sì che i medici, gli infermieri e tutti gli operatori sanitari siano, loro malgrado, diventati “eroi” nazionali.

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Note

[1] L. Gaeta, Infortuni sul lavoro e responsabilità civile. Alle origini del diritto del lavoro, Napoli, 1986, 12.

[2] Cass., Sez. lav., 25 novembre 2019, n. 30679, in www.personaedanno.it, pagina consultata in data 25 novembre 2020 e Cass., Sez. lav., 5 marzo 2020, n. 6370, in www.olympus.uniurb.it ,pagina consultata in data 25 novembre 2020., la prima delle quali riconosce la configurabilità del concorso colposo del lavoratore, laddove invece la seconda la esclude.

[3] art. 42, comma 2, del D.L. 17 marzo 2020, n. 18 (“Cura Italia”), convertito con la L. 24 aprile 2020, n. 27, che riconosce la natura di infortunio all’infezione da coronavirus contratta in occasione di lavoro ai fini della protezione indennitaria nell’ambito dell’assicurazione obbligatoria Inail (D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 e ss.mm.ii., così come integrato dal D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38).

[4] Le cui prescrizioni erano tuttavia volte a garantirne l’integrità fisica. Il primo intervento su questo fronte rilevante è il R.D. 18 giugno 1899, n. 230 relativo alla prevenzione degli infortuni nelle imprese e nelle industrie che trattano o applicano materie esplodenti.

[5] in proposito il commento all’art. 31 di M. Novella, nel commentario all’articolato della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, curato da R. Mastroianni et al., Milano, 2017, 598 ss.

[6]  L. Gaeta, Infortuni sul lavoro e responsabilità civile. Alle origini del diritto del lavoro, Napoli, 1986, 11.

[7] C. Castronovo, voce Obblighi di protezione, in Enc. giur., Roma, 1990, 1 ss. La dottrina è stata introdotta in Italia dagli studi di E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, I, Milano, 1953, 96 ss.; L. Mengoni, Obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di mezzi” (Studio critico), in Riv. dir. comm., 1954, 186 ss. Ancora in argomento cfr. la voce di R. Scognamiglio, Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, in Noviss. Dig. it., XV, 1968, 670 ss.

[8] L. Mengoni, Obbligazioni “di risultato”, cit., Parte IV. L’onere della prova, 366 ss., 369, nt. 15.

[9] P. Campanella, Clausole generali e obblighi del prestatore di lavoro, contenuto in Clausole generali e diritto del lavoro. Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro Roma, 29-30 maggio 2014, Milano, 2014, 203 ss., 252 ss.

[10] G. Natullo, Il quadro normativo dal Codice civile al Codice della sicurezza sul lavoro. Dalla Massima sicurezza (astrattamente) possibile alla Massima sicurezza ragionevolmente (concretamente) applicata? in WP Olympus, 39, 2014.

[11] Cass. Pen. 18 maggio 2005, in Igiene e sicurezza sul lavoro, 2005, 521.

[12] Cass. 30 luglio 2003, n. 11704, in Mass. giur. lav., 2004, 6, 74 ss.; Cass. Pen. 28 settembre 1999, n. 13377, in Cass. pen., 2001, 1911.

[13] Così, Cass., Sez. lav., 25 novembre 2019, n. 30679, cit.

[14] M. Napoli, La stabilità reale del rapporto di lavoro, Milano, 1980, 198 ss.

[15] C. Castronovo, voce Obblighi di protezione, cit., 7; più nello specifico Id., Inattuazione della prestazione di lavoro e responsabilità del terzo danneggiante, in Mass. giur. lav., 1981, 373 ss.

[16]  È opportuno ricordare che ormai da tempo si riconosce al lavoratore che abbia subito un danno biologico a seguito di infortunio sul lavoro, la possibilità di agire per ottenere il c.d. danno differenziale, vale a dire la differenza tra l’indennizzo ricevuto dall’INAIL per effetto dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e il pregiudizio patito, sebbene la risarcibilità in sede civile non fosse inizialmente riconosciuta. In argomento, si veda in particolare D. Poletti, Danno alla salute e infortuni sul lavoro: dall’evoluzione giurisprudenziale alla riforma legislativa, in M. Bargagna – F.D. Busnelli, La valutazione del danno alla salute. Profili giuridici, medico-legali ed assicurativi, Padova, 2001, 215 ss.

[17] L. Mengoni, Obbligazioni “di risultato”, cit., Parte II. La funzione della colpa nella responsabilità contrattuale, 280 ss., 304.

[18] L. Mengoni, Obbligazioni “di risultato”, IV, cit., 379.

[19] S. Mazzamuto, Le nuove frontiere della responsabilità contrattuale, in Eur. dir. priv., 3, 2014, 713 ss.

[20]  Cass. 1° ottobre 2003, n. 14645, in Mass. Foro it., 1370; Cass. 28 luglio 2004, n. 14270, in Mass. giur.it., 2004 e Cass., Sez. lav., 14 aprile 2008, n. 9817, in CED, Rv. 602899.

[21] Cass., SS.UU., 30 ottobre 2001, n. 13533, in Foro it., 2002, 769-780, su cui cfr. U. Carnevali, Inadempimento e onere della prova, in Contratti, 2002, 120 ss.

[22] P. Campanella, op. cit., 257, nt. 222.

[23]  L. Mengoni, Obbligazioni “di risultato”, IV, cit., 369, nt. 15.

[24] Sono questi i principi fissati dalla sentenza a sezioni unite n. 577/2008, cit., in tema di distribuzione dell’onere probatorio nell’ipotesi di responsabilità per inadempimento del contratto di spedalità da parte della struttura sanitaria per il danno patito dal paziente; fattispecie, questa, che presenta non pochi punti di connessione con quella qui in esame.

[25] Cass., Sez. lav., 14 ottobre 2014, n. 21647, in Dir. giust., 2014.

[26] Cass., Sez. lav., 18 maggio 2009, n. 11417, in Foro it., I, 2009, 2058 ss.

[27] Cass., Sez. lav., 18 maggio 2009, n. 11417, cit., e Cass., Sez. lav., 4 luglio 2007, n. 15047, in Riv. inf. mal. prof., II, 2007, 67 ss.

[28] Cass., Sez. lav., 17 novembre 1993, n. 11351, in Mass. giur. it., 1993.

[29] E. Ghera, Diritto del lavoro, Bari, 2011, 123.

[30] Cass., Sez. lav., 25 novembre 2019, n. 30679, cit.

[31] Cass., Sez. lav., 13 settembre 2006, n. 19559, cit.

[32] L. Gaeta, Infortuni sul lavoro e responsabilità civile. Alle origini del diritto del lavoro, cit., 15.

[33] Per un inquadramento generale S. Pugliatti, voce Autoresponsabilità, in Enc. dir., Milano, IV, 1959, 453 ss., 458, in cui, nell’associare il principio al fenomeno della c.d. compensazione delle colpe, cui veniva tradizionalmente riferito il concorso del fatto del danneggiato, si esclude che l’autoresponsabilità assuma una connotazione di illeceità. Sul concorso di colpa del danneggiato come fondato sull’autoresponsabilità cfr. G. Cattaneo, op. cit., 460 ss.; P. Trimarchi, Causalità e danno, Milano, 1967, 129 ss.; G. Criscuoli, “Cinture di sicurezza” e responsabilità civile: un confronto ed una prospettiva per l’art. 1227, comma I° c.c., in Riv. trim. dir. proc. civ., 1977, 504 ss.

[34] A. De Cupis, Il danno. Teoria generale della responsabilità civile, Milano, 1980, 252 ss.

[35] G. Cattaneo, op. cit., 501 ss.

[36] In giurisprudenza, ex multis, Cass. 3 dicembre 2002, n. 17152, in Foro it., 2003, 1801 ss. e, più di recente, le due ordinanze di rimessione Cass. 5 agosto 2019, n. 20900 e Cass. 3 settembre 2019, n. 22016; in dottrina, A. De Cupis, Il danno, Milano, 1966, 218 ss.; C. Maiorca, voce Colpa civile (teoria generale), in Enc. dir., Milano, VII, 1960, 534 ss., 581; C.M. Bianca, Diritto civile, 5, La responsabilità, Milano, 2011, 154; P.G. Monateri – D. Gianti – M. Balestrieri, Causazione e giustificazione del danno, Torino, 137.; C. Salvi, La responsabilità civile, Milano, 2005, 238; R. Pucella, Causalità “incerta”, Torino, 172 ss.; R. Bordon – S. Rossi – L. Tramontano, La nuova responsabilità civile. Causalità – Responsabilità oggettiva – Lavoro, Torino, 2010, 183.

[37] Cass., SS.UU., 21 novembre 2011, n. 24406, in personaedanno.it.

[38]  C. Salvi, La responsabilità civile, cit., 237 ss. La questione è particolarmente rilevante per le concause naturali pregresse del paziente in ambito di responsabilità medica. Cfr. per un approfondimento D.M. Frenda, Concausa naturale e concorso colposo del danneggiato: questioni analoghe, soluzioni opposte, in Nuova giur. civ., 2018, 412 ss.

[39] G. Cattaneo, Il concorso di colpa del danneggiato, in Riv. dir. civ., 1967, 460 ss.; C. Salvi, op. cit., 2005, 237; V. Carredda, Concorso del fatto colposo del creditore, in Commentario Schlesinger. Sub art. 1227, Milano, 2015, 38 ss.

[40] Sandulli – Pandolfo – Faioli, Coronavirus, regresso e danno differenziale. Contributo al dibattito, in WP C.S.D.L.E., 420/2020; Ludovico, Malattia (per i quarantenati e per gli affetti) e infortuni sul lavoro, in O. Bonardi – U. Carabelli – M. D’Onghia – L. Zoppoli (a cura di), Covid-19 e diritti dei lavoratori, Roma, 2020, 75 ss.; Giubboni, Covid 19: obblighi di sicurezza, tutele previdenziali, profili risarcitori, in WP C.S.D.L.E., 417/2020; Rossi, L’infortunio per Covid-19 del personale sanitario, in Lav. giur., 2020, 446; La Peccerella, Infezione da coronavirus e tutela contro gli infortuni e le malattie professionali, in Dir. sic. lav., 2020, 1, II, 1 ss.

[41] Sandulli – Pandolfo – Faioli, Coronavirus, cit., 3.

[42] Sandulli – Pandolfo – Faioli, Coronavirus, cit., 6.

[43] Giubboni, Covid-19, cit., 13.

[44] Riverso, Vero e falso sulla responsabilità datoriale da Covid-19. Aspetti civili, penali e previdenziali, in corso di pubblicazione in Quest. Giust. (testo dattiloscritto accessibile al sito www.questionegiustizia.it), secondo il quale ipotizzare che da una norma assicurativa derivi una responsabilità penale costituirebbe un’illogicità palese, a meno di non ipotizzare l’esistenza di un “regime onagrocratico”, con evidente riferimento al mammifero perissodattilo della famiglia degli equidi, comunemente noto come “asino selvatico”.

[45] Giubboni – Ludovico – Rossi, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Padova, 2014, 31; De Matteis, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano, 2016, 14.

[46] Cfr. Cass., Sez. lav., 28 ottobre 2004, n. 20941, in Foro.it.

[47] Cfr. Cass., Sez. lav., 26 maggio 2006, n. 12559, in Riv. inf. mal. prof., 2007, II, 14.

[48] Ludovico, Tutela previdenziale per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e responsabilità civile del datore di lavoro, Milano, 2012, 50.

[49] Ludovico, Malattia, cit., 75; Giubboni – Ludovico – Rossi, Infortuni sul lavoro, cit., 138, nell’ambito di una ricostruzione del concetto di “occasione di lavoro” più ampia di quella tradizionale.

[50] Cass., Sez. lav., 19 marzo 2019, n. 7649, in Foro it., 2019, I, 2386, con nota di Ferrari, Irrilevanza della colpa del lavoratore, salvo “rischio elettivo”, nel diritto all’indennizzo dell’infortunio sul lavoro.

[51] Cass., Sez. lav., 25 luglio 2019, n. 30679; Cass. Pen., Sez. IV, 8 ottobre 2008, n. 39888; in Foro.it.

[52] Taruffo, Le prove per induzione, in Idem (a cura di), La prova nel processo civile, Milano, 2012, 1101 ss.

[53] Rossi, L’infortunio per Covid 19, cit., 449.

[54] La Peccerella, Infezione da coronavirus, cit., 3.

[55] Ludovico, Tutela previdenziale, cit., 118.

[56] Cass., Sez. lav., 3 novembre 1982, n. 5764, in Riv. inf. mal. prof., 1982, II, 137.

[57] Sandulli – Pandolfo – Faioli, Coronavirus, cit., 3.

[58] Va rammentato che, secondo la giurisprudenza di legittimità, “l’occasione di lavoro, che rende indennizzabile l’infortunio occorso al lavoratore, non si identifica nella causa materiale dell’evento infortunistico, ma deve intendersi come l’insieme delle condizioni in cui si svolge l’attività lavorativa, comprese quelle ambientali e socio-economiche, nelle quali è insito un rischio di danno (nella specie, la Suprema Corte ha ritenuto sussistente l’occasione di lavoro nell’infortunio subito da un insegnante di laboratorio tecnico per una colluttazione verificatasi nel cortile della scuola mentre assisteva ad una partita di pallavolo fra scolaresche di istituti diversi)”, cfr. Cass., Sez. lav., 23 luglio 2012, n. 12779, in Foro it., 2013, I, 165.

[59] Giubboni, Covid 19, cit., 9.

[60] Corsalini, Gli infortuni in itinere, Milano, 2012, 23.

[61] Cass., Sez. lav., 18 febbraio 2015, n. 392, in Arch. giur. circol. e sinistri, 2015, 6, 523, relativo ad una violazione di disposizioni fondamentali del codice della strada.

[62] Ludovico, Malattia, cit., 79.

[63] Pascucci, Coronavirus e sicurezza sul lavoro tra “raccomandazioni” e protocolli. Verso una nuova dimensione del sistema di prevenzione aziendale?, in DSL-Diritto della sicurezza sul lavoro, 2019, 2, 103-104; Pelusi, Tutela della salute dei lavoratori e COVID-19: una prima lettura critica degli obblighi datoriali, in DSL-Diritto della sicurezza sul lavoro, 2019, 2, 124 e ss.; Maresca, Relazione, Webinar COVID-19, Commissione di Certificazione, Università degli Studi Roma Tre, 11 marzo 2020.

[64] Pascucci, Ancora su coronavirus e sicurezza sul lavoro: novità e conferme nello ius superveniens del d.P.C.M. 22 marzo 2020 e soprattutto del d.l. n. 19/2020, in DSL-Diritto della sicurezza sul lavoro, 2020, 1, 128-130; v. anche CONFINDUSTRIA, Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro del 14 marzo 2020. Nota illustrativa, 16 marzo 2020, 2.

[65] Natullo, Covid-19 e sicurezza sul lavoro: nuovi rischi, vecchie regole?, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT, 413/2020, 11 ss.; Carinci, Back to work al tempo del Coronavirus e obbligo di sicurezza del datore di lavoro, in Working paper n. 3/2020, ADAPT, 6-7.

[66] Corte EDU, Sez. II, Grande Stevens e altri c. Italia, sent., 4 marzo 2014 (ricorsi nn. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10, 18698/10); Corte EDU, Grande Camera, A e B c. Norvegia, sent., 15 novembre 2016, ricorsi n. 24130/11 e 29758/11.

[67] Pascucci, Coronavirus e sicurezza sul lavoro tra “raccomandazioni” e protocolli. Verso una nuova dimensione del sistema di prevenzione aziendale?, in DSL-Diritto della sicurezza sul lavoro, 2019, 2, 108-109.

[68] Decreto Interministeriale 27 febbraio 2019 sulle nuove tariffe dei premi per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, art. 19.

[69]  Art. 1, commi 1, 3, 4, D.L. n. 14/2020.

[70]  Art. 2, D.L. n. 14/2020.

[71] Art. 4, comma 4, D.L. n. 14/2020.

[72]  Art. 13, D.L. n. 18/2020.

[73] V. l’art. 50, comma 1, lett. c bis), D.P.R. n. 917/1986, e l’art. 5, D.Lgs. n. 38/2000; amplius circ. INAIL n. 11/2019, par. 1.8; circ. INAIL n. 32/2000.

[74] Art. 119, D.L. n. 18/2020.

Avv. Martina Liaci

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