Il presente contributo analizza l’evoluzione dell’istituto dell’assegno divorzile con particolare riferimento alla giurisprudenza della Cassazione succedutasi negli anni. L’evoluzione della materia può dirsi consolidata a seguito dell’intervento delle Sezioni Unite n. 18287/2018, di cui l’elaborato passerà in rassegna gli aspetti maggiormente innovativi. Di seguito una prospettiva comparatistica con l’affine istituto dell’assegno di mantenimento e gli ultimissimi approdi giurisprudenziali in subiecta materia. Nella parte finale, una prospettiva di riforma.
Accenno introduttivo sull’istituto del divorzio e definizione dell’assegno divorzile
La legge 1° dicembre 1970 n. 898 ha introdotto lo scioglimento del matrimonio per divorzio. La nuova normativa ha avuto una portata dirompente nel nostro ordinamento, tenuto conto che il Codice civile del 1942 sanciva che il matrimonio “non poteva sciogliersi che con la morte di uno dei coniugi[1]”. Il divorzio quale rimedio al fallimento coniugale può oggi essere chiesto da un coniuge nei confronti dell’altro nei soli casi tassativamente previsti dall’art. 3 della L. div. e sempre che, come requisito imprescindibile, il giudice accerti che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non possa essere mantenuta o ricostituita. Nell’ordinamento italiano la causa di divorzio di gran lunga prevalente è la separazione legale dei coniugi che duri da almeno un anno[2] dal giorno della comparizione delle parti davanti al presidente del Tribunale nel caso di separazione giudiziale (L. n. 55/2015, il cd. “divorzio breve”). Se i coniugi hanno, al contrario, deciso di procedere per via consensuale, il periodo di tempo è ridotto a sei mesi[3]; ciò spiega come spesso si formalizzi lo stato di separazione per precostituire un titolo a futuro scioglimento.
Se il matrimonio, in caso di divorzio, smette di produrre effetti sul lato personale del rapporto tra i coniugi – o meglio ex coniugi – diverso è il discorso a livello economico. Invero, il giudice può, al temine del procedimento di divorzio, statuire che una delle due parti corrisponda mensilmente, o in un’unica soluzione, una somma di denaro all’altra; è il caso dell’assegno di divorzio.
L’assegno divorzile è, dunque, una delle principali conseguenze di carattere patrimoniale del divorzio. L’istituto è regolato dall’ art. 5, comma 6, della L. n. 898 del 1970 (così come modificata dalla L. n. 74 del 1987) e consiste nell’obbligo per uno dei due coniugi di versare periodicamente all’altro un assegno “quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”; il tribunale quando pronuncia sentenza di divorzio determina anche la misura dell’assegno divorzile avuto riguardo ad una serie di parametri descritti accuratamente dalla norma[4].
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Assegno divorzile: i parametri dopo le Sezioni Unite n. 18287 dell’11 luglio 2018
Corredata delle più utili formule di riferimento, l’opera esamina, con taglio pratico e forma accessibile, le questioni maggiormente dibattute relative all’assegno divorzile, fino all’analisi della recente sentenza della Cassazione civile a Sezioni Unite n. 18287 dell’11 luglio 2018.Attraverso un’originale struttura, il testo risponde ai quesiti che più frequentemente ci si pone, tra cui: in cosa consiste il tenore di vita ed è ancora valido quale parametro? Come si può ottenere la modifica dell’importo dell’assegno? Quali azioni sono esperibili per il recupero dell’assegno?Con l’ultimo intervento della Suprema Corte, si dà atto di cosa è cambiato e quali siano oggi i parametri di riferimento per la determinazione dell’assegno.Per garantire uno strumento immediatamente operativo le risposte ai quesiti sono accompagnate dalle principali formule di riferimento.Manuela Rinaldi Avvocato in Avezzano; Dottore di ricerca in Diritto dell’Economia e dell’Impresa, Diritto Internazionale e Diritto Processuale Civile, Diritto del Lavoro. Incaricata (a.a. 2016/2017) dell’insegnamento Diritto del Lavoro (IUS 07) presso l’Università degli Studi di Teramo, Facoltà di Giurisprudenza. Dal 2011 Docente Tutor Diritto del Lavoro c/o Università Telematica Internazionale Uninettuno; relatore in vari convegni, master e corsi di formazione. Autore di numerose pubblicazioni, monografiche e collettanee.
Manuela Rinaldi | 2018 Maggioli Editore
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L’art. 5, comma 6, della L. n. 898 del 1970 così come modificato dalla L. n.74 del 1987
Il testo dell’art. 5, comma 6, della L. n. 898 del 1970[5], nella sua formulazione originaria, stabiliva: da un lato, l’elencazione dei criteri attributivi, ovvero quelli di cui si doveva “tenere conto” ai fini della corresponsione dell’assegno (le condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione); dall’altra, i criteri determinativi da prendere, invece, in considerazione sul piano della determinazione dell’assegno, come il contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi.
Ne consegue che sulla base di tale formulazione la dottrina e giurisprudenza maggioritaria hanno ritenuto che l’assegno divorzile avesse una natura mista, senza alcuna graduazione e distinzione tra criteri attributivi (an debeatur) e determinativi (quantum debeatur).
Deve essere sottolineato come la coesistenza, l’equiordinazione e l’applicazione equilibrata dei tre criteri – assistenziale, compensativo e risarcitorio – siano state, per lungo tempo, ritenute adeguate a far fronte alla varietà delle situazioni che si prospettavano nella prassi. Al contempo, tuttavia, la suddetta impostazione comportava inevitabilmente che al giudicante venisse riconosciuto un ampio potere discrezionale e ciò, in particolare, nella determinazione dell’ammontare dell’assegno.
Per questi motivi i principi giurisprudenziali illustrati sono stati sottoposti a revisione critica dalla dottrina. La stessa lamentava la mancanza di un criterio unitario e coerente nella composizione mista dei parametri di attribuzione e determinazione dell’assegno divorzile, palesando l’esigenza di una nuova impostazione. Tale impostazione doveva tenere conto delle profonde evoluzioni della società civile e, in particolare, dell’emergere di nuovi rilevanti principi come quelli della autodeterminazione e della autoresponsabilità, oltreché dell’importante ruolo che la figura femminile stava via via assumendo, non solo all’interno della famiglia, ma anche nella società civile. Si gettarono così le basi per la riforma della norma.
La riforma dell’art. 5, comma 6, L. n. 898/1970 è avvenuta con la L. n. 74 del 1987, la quale ha apportato sostanziali modificazioni rispetto alla precedente formulazione. Anzitutto, è stato introdotto l’obbligo per le parti di depositare l’adeguata documentazione fiscale al fine di procedere all’indagine comparativa dei patrimoni degli ex-coniugi; inoltre, sono stati rafforzati i poteri istruttori officiosi del giudicante, i quali si fanno particolarmente pregnanti in questa peculiare materia.
Circa i parametri dell’assegno divorzile è stata introdotta una diversificazione tra l’an debeatur ed il quantum debeatur.
Ed invero, la nuova formulazione dell’art. 5, comma 6, L. div. a seguito della riforma, così dispone: “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.
Il legislatore ha, dunque, stabilito una condizione per la corresponsione dell’assegno di divorzio – innovazione significativa perché assente nella precedente formulazione della norma – costituita dalla “insussistenza di mezzi adeguati e della impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive”. Si procede, infine, all’accorpamento dei parametri che compongono rispettivamente il criterio assistenziale (le condizioni dei coniugi e il reddito di entrambi), quello compensativo (il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune) e quello risarcitorio (le ragioni della decisione); tutti fattori di cui di deve “tenere conto” al fine della quantificazione dell’assegno divorzile.
I diversi orientamenti seguiti dalla Corte di Cassazione a seguito della nuova formulazione
A seguito della riforma sono sorte molteplici criticità riguardanti tanto la rigida bipartizione tra criteri attributivi e determinativi quanto – e soprattutto – la concreta individuazione del parametro della “adeguatezza dei mezzi” previsto dalla novella. Sul punto si sono formati orientamenti diametralmente opposti.
Un primo filone giurisprudenziale, avallato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione[6], ancorava il criterio dell’adeguatezza dei mezzi al conseguimento per il coniuge richiedente di una esistenza libera e dignitosa, intesa come autonomia e indipendenza economica, da valutarsi prescindendo dalle precedenti condizioni di vita matrimoniale e senza procedere ad un accertamento comparativo circa la situazione economico-patrimoniale delle parti al momento dello scioglimento del vincolo coniugale.
Al contrario, secondo l’orientamento tradizionale, formatosi a seguito della nota sentenza delle SS. UU. della Corte di Cassazione n. 1322 del 1990, l’assegno divorzile avrebbe avuto una natura esclusivamente assistenziale, dal momento che il presupposto per la sua concessione doveva essere rinvenuto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante da intendersi come insufficienza degli stessi – comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altri beni di cui può disporre – a conservare un tenore di vita analogo a quello a quello avuto in costanza di matrimonio. Così dal 1990 in poi è, dunque, prevalso l’orientamento interpretativo secondo il quale a fondamento della determinazione dell’assegno divorzile doveva porsi il “tenore di vita goduto dai coniugi in costanza di matrimonio”.
Le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno inoltre chiarito che non sarebbe necessario l’accertamento in concreto di uno stato di bisogno del richiedente poiché assume esclusivo rilievo l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza di divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali dovevano essere tendenzialmente ripristinate per ristabilire una posizione di equilibrio tra gli ex-coniugi. Accertata tale condizione, si procede con gli ulteriori criteri disposti della prima parte della norma (durata del matrimonio, condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, etc.) che hanno una funzione determinativa incidente, dunque, esclusivamente sul quantum dell’assegno divorzile.
Pertanto, il criterio del tenore di vita goduto durante la relazione matrimoniale è definito come il “tetto massimo dell’assegno di divorzio”, il quale viene in concreto limitato dall’applicazione dei parametri determinativi.
In definitiva il diritto all’assegno divorzile si snoda in un giudizio articolato dal legislatore in due fasi distinte: da un lato, il riconoscimento del diritto, dall’altro, la determinazione quantitativa dello stesso. Indi per cui, accertata l’insufficienza dei mezzi del coniuge richiedente a conservare il tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, l’assegno andava senza dubbio corrisposto (an debeatur). Una volta sancita la dovuta corresponsione dell’assegno si passava alla determinazione del “quantum”, il quale andava stabilito tenendo conto dei parametri previsti dall’art. 5, comma 6. L. div. con conseguente elevata discrezionalità per il giudicante.
Eppure, le criticità derivanti dall’adesione a tale criterio applicativo non tardarono ad arrivare. Il tenore di vita goduto da due persone è logicamente migliore rispetto a quello di una. Non solo. L’assegno di divorzio si trasformava sovente in una misura vessatoria per chi lo dovesse corrispondere e, al contempo, una rendita parassitaria per chi invece ne beneficiava. In particolare, si è rilevato come il suddetto criterio non poteva sottrarsi a forti rischi di locupletazione ingiustificata dell’ex coniuge richiedente in tutte quelle situazioni in cui egli potesse comunque godere di una posizione economica autonoma di particolare agiatezza (ancorché lontana dal tenore di vita goduto dallo stesso durante il matrimonio) oppure quando lo stesso non avesse significativamente contribuito alla formazione della posizione economica dell’altro coniuge. Tale impostazione si rivelava, pertanto, inidonea a far fronte alle complesse situazioni che si presentavano nella prassi.
Parte della dottrina, invece, contrastando l’orientamento maggioritario, proponeva una interpretazione alternativa – seppur priva di alcun riscontro normativo – ritenendo che l’assegno divorzile dovesse essere limitato alle risorse necessarie per assicurare all’ex coniuge un regime di vita decoroso, ma non necessariamente conforme a quello di cui godeva durante il matrimonio[7].
Sulla scia di tali contrasti, nel 2013 il Tribunale di Firenze ha realizzato una inversione di tendenza, quando, con l’ordinanza del 22 maggio, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, sesto comma, della legge 1° dicembre 1970 n. 898, lamentando che l’obbligo di assegnare al coniuge più debole un assegno volto a garantire il medesimo tenore di vita fosse irragionevole e contrario all’art. 3 della Costituzione. La Corte costituzionale, con sentenza dell’11 febbraio 2015 n. 11, ha dichiarato infondata la questione, motivando che, sebbene l’analisi prospettata fosse surrogata da molti validi motivi, nella determinazione del quantitativo circa l’assegno di mantenimento il tenore goduto in costanza di matrimonio non fosse l’unico parametro applicabile[8]. Dunque, tale criterio, nonostante le critiche serrate mosse tanto dalla dottrina quanto dalla giurisprudenza, non venne dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale. Nondimeno non cessarono, altresì, quelle stesse perplessità che avevano giustificato il suo intervento.
Di fatto, la “vera” svolta si è manifestata a seguito della nota sentenza Grilli del maggio 2017[9]: il criterio del tenore di vita nell’assegno divorzile è stato definitivamente abbandonato[10]. La Suprema Corte in tale sentenza ha sottolineato, dunque, che lo “scopo del contributo mensile successivo al divorzio non è più garantire lo stesso «tenore di vita» goduto durante il matrimonio, ma solo l’autosufficienza economica”; ecco che il nuovo criterio per il diritto all’assegno di divorzio diviene così l’indipendenza economica del richiedente[11].
La Corte stabilisce dei chiari indici di indipendenza economica in presenza dei quali la richiesta di assegno dovrà essere respinta: il possesso di redditi di qualsiasi specie, il possesso di cespiti immobiliari, la capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, la stabile disponibilità di una casa di abitazione. Invero sul concetto di “indipendenza economica” si rilevano alcune pronunce di merito, quali quella del Tribunale di Milano sez. IX civile che, con l’ ordinanza del 22 maggio 2017, ha evidenziato che per “indipendenza economica deve intendersi la capacità per una determinata persona, adulta e sana – tenuto conto del contesto sociale di inserimento – di provvedere al proprio sostentamento, inteso come capacità di avere risorse per le spese essenziali (vitto, alloggio, esercizio dei diritti fondamentali)[12]”.
In definitiva, la nuova impostazione pur mantenendo la rigida distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell’assegno, individua come parametro dell’inadeguatezza dei mezzi la non autosufficienza del coniuge istante affermando che, solo in caso di positivo accertamento, possono essere esaminati i parametri determinativi in funzione ampliativa del “quantum” dell’assegno divorzile.
Ancora una volta, due sono state le principali critiche mosse alla novella impostazione. Anzitutto all’assegno viene riconosciuta una natura meramente assistenziale essendo esclusivamente collegato alla condizione di mancata autonomia economica da valutare in relazione alla condizione soggettiva dell’ex-coniuge richiedente e del tutto svincolata dal precedente rapporto matrimoniale. Inoltre, la preminenza del criterio dell’autosufficienza economica rende gli ulteriori parametri previsti dalla disposizione di applicazione marginale e residuale, con portata sostanzialmente abrogante della prima parte dell’art. 5, comma 6, l n. 898/1970.
Queste, ed altre, le problematicità che hanno portato al superamento anche del menzionato orientamento, in favore dei principi giurisprudenziali elaborati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza n. 18287/2018, tutt’oggi vigenti.
I nuovi parametri alla luce delle SS.UU. n. 18287/2018
Particolare rilevanza va data alla pronuncia a Sez. Unite del 2018[13] in cui la Suprema Corte di Cassazione ha scelto di percorrere, tra quella indicata dalle sezioni unite del 1990 e quella del 2017, una terza via risolvendo il contrasto giurisprudenziale in maniera pressoché definitiva e dirompente. Dopo che, infatti, la sentenza c.d. “Grilli” aveva superato il criterio del tenore di vita su cui quantificare l’importo dell’assegno (criterio che per circa trent’anni aveva costituito per gli stessi giudici il riferimento principale), la decisione n. 18287 del 2018 ha adottato una novella soluzione rispettosa della “ratio” dell’art. 5, comma 6, L. div. e dei principi costituzionali[14].
La Suprema Corte ha, innanzitutto, abbandonato la rigida distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell’assegno di divorzio in favore di una valutazione concreta e complessiva dell’art. 5, comma 6, L. 898/1970. Secondo le Sezioni Unite, ai fini della determinazione dell’assegno, occorre tenere conto non solo del tenore di vita dei coniugi precedente allo scioglimento del matrimonio, ma di un criterio cd. “composito” che, alla luce di una valutazione comparativa delle rispettive condizioni economiche, dia rilievo in particolare al contributo dato dall’ex coniuge richiedente alla formazione del patrimonio personale dell’altro coniuge e, più in generale, alla conduzione della vita familiare. Si tiene pertanto conto anche delle aspettative professionali e reddituali sacrificate da uno dei due coniugi, non “per sua libera scelta”, ma necessitate dagli oneri/doveri discendenti dal matrimonio e dalle comuni scelte riguardanti la vita famigliare. La nuova impostazione da, per la prima volta, concreta rilevanza anche al lavoro domestico e casalingo, per lungo tempo rimasto privo di una adeguata valorizzazione.
La Corte, dunque, valorizzando il principio di solidarietà e autoresponsabilità posto alla base del riconoscimento dell’assegno, impone che l’accertamento relativo all’inadeguatezza dei mezzi sia saldamente ancorato alle caratteristiche del rapporto matrimoniale e alla ripartizione dei ruoli endofamiliari.
In applicazione di quanto esposto, il giudizio relativo all’adeguatezza dei mezzi andrà condotto sulla base di una serie di parametri, innanzitutto con riferimento alle condizioni economiche e patrimoniali delle parti, da accertarsi mediante la produzione in giudizio della idonea documentazione fiscale. Analizzate le condizioni economiche dei coniugi occorre verificare se tra gli stessi vi sia (o meno) una rilevante disparità patrimoniale, solo in caso positivo si potrà avere diritto all’assegno di divorzio.
Appurata, dunque, la disparità patrimoniale tra gli ex-coniugi occorrerà indagarne la causa e, in particolare, se la stessa derivi dalle scelte di vita comuni assunte dai coniugi durante il matrimonio o da cause contingenti. Diverso ovviamente è il caso in cui tale disparità sia generata, ad esempio, da una inerzia nella ricerca di una occupazione da parte del coniuge potenzialmente beneficiario o dalla naturale diversità di titoli di studio e di carriere seguite dagli ex-coniugi o, al contrario, se derivi dalle aspettative professionali e reddituali sacrificate da un coniuge per il bene della famiglia.
Solo in quest’ultimo caso deve essere riconosciuto al coniuge economicamente più debole il diritto ad un assegno che permetta di recuperare il pregiudizio professionale derivante dall’assunzione di un impegno, nell’ambito del rapporto coniugale, che abbia impedito o ridotto l’attività lavorativa e le aspettative professionali dello stesso[15]. Inoltre, ai fini della corresponsione dell’assegno rilevano anche la durata del rapporto matrimoniale oltre alle potenzialità effettive professionali e reddituali in relazione all’età del coniuge e alla conformazione del mercato del lavoro. È all’esito di tale valutazione complessiva che il giudicante provvederà in sentenza ad ordinare (o meno) la corresponsione dell’assegno in favore del coniuge richiedente.
Da qui, allora, l’affermazione per cui l’assegno divorzile svolge, sì, una funzione assistenziale, ma anche, e in misura prevalente, equilibratrice e perequativo-compensativa[16].
La soluzione prospettata e l’orientamento formatosi a seguito dell’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione del 2018, sembra l’unico in grado di garantire il rispetto della formulazione dell’art. 5, comma 6, L. n. 898/1079 e dei principi costituzionali alla stessa sottesi. Orientamento che, per questi motivi, rimane tutt’oggi vigente.
Il quadro post Sezioni Unite n. 18287/2018
Due sono le principali conseguenze che la pronuncia a Sezioni Unite n. 18287/2018 ha prodotto nel nostro ordinamento.
In primis, come notoriamente avviene in tutti i casi di mutamenti giurisprudenziali di portata dirompente, si è assistito alla riforma delle sentenze che avevano applicato nella determinazione dell’assegno divorzile gli orientamenti giurisprudenziali antecedenti. Ed invero, come sottolinea la stessa Corte di Cassazione: “è evidente che ci siano giudizi iniziati sotto il vigore delle vecchie regole, ma che, se ci si vuole attenere al dictum delle Sezioni Unite, devono oggi essere definiti sulla scorta della regola da queste affermata”[17].
Se nulla osta alla riforma della sentenza dal primo al secondo grado di giudizio stante l’effetto devolutivo dell’appello; problemi particolari sono sorti per quelle sentenze che, al tempo della novella pronuncia, erano già state oggetto di impugnazione in Cassazione, benché ancora non definite da quest’ultima.
Ed invero, la Suprema Corte nella sentenza n. 11178/2019, ha permesso che il nuovo indirizzo interpretativo non comportava soltanto una diversa valutazione giuridica di un quadro fattuale rimasto inalterato, ma sovente, richiedeva la valorizzazione di aspetti concreti diversi o non considerati dalla vecchia regola sostituita perché trascurabili ovvero, ancora, una differente selezione delle allegazioni dei fatti rilevanti che incide inevitabilmente sul regime delle prove. A parere della Corte, in tali circostanze, la Cassazione può – eventualmente previa attivazione del meccanismo di cui all’art. 384, comma 3, c.p.c. – decidere nel merito la causa solo se, per l’applicazione della nuova regola affermata dalle Sezioni Unite non sia necessario l’accertamento di nuovi fatti. In caso contrario, dovrà cassare con rinvio la sentenza impugnata, con conseguente vincolo per il giudice ad quem di attenersi alla nuova regola e fermo restando che, anche nel giudizio di rinvio, le parti potranno essere rimesse nei poteri di allegazione e prove conseguenti al dictum delle Sezioni Unite. In definitiva, dunque, la Corte di Cassazione potrà pronunciarsi sull’impugnazione solo se la nuova regola interpretativa affermata dalle Sezioni Unite non abbia reso necessario l’accertamento di nuovi fatti, mentre, in caso contrario, dovrà necessariamente cassare con rinvio la sentenza impugnata[18].
Quale seconda conseguenza non si può tralasciare l’incidenza che il novello orientamento ha avuto su istituti affini e in particolare sull’assegno di mantenimento.
La Cassazione, già nella pronuncia a Sezioni Unite, aveva evidenziato come i nuovi criteri interpretativi dovessero esclusivamente valere per la determinazione dell’assegno divorzile e non anche per l’assegno di mantenimento, stante la differenza di fondo tra i due istituti[19]. Tale rigida impostazione ha nella prassi portato ad una contrapposizione irragionevole tra i due assegni, con conseguenze spesso paradossali. Ad esempio, molte volte accadeva in giudizio, trattandosi delle stesse parti e dello stesso rapporto matrimoniale, che al coniuge richiedente ed economicamente più debole venisse dapprima riconosciuto un assegno di mantenimento (anche elevatissimo poiché parametrato al tenore di vita goduto dai coniugi in regime matrimoniale) e, successivamente, essere tout court negato l’assegno divorzile. La giurisprudenza tenuto conto di tali situazioni ha, progressivamente, mutato orientamento.
L’assegno di mantenimento spetta al coniuge al quale non è stata addebitata la separazione e che “non abbia redditi propri adeguati[20]”, tale giudizio di adeguatezza era tradizionalmente parametrato alla situazione patrimoniale dell’altro coniuge e al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. Riguardo a quest’ultimo parametro fondamentali sono state, come anticipato, le Sez. Unite n. 18287/2018 le quali hanno inciso sull’istituto, sino ad estendere alcuni principi anche all’assegno di mantenimento.
Invero, già in alcune pronunce, la Suprema Corte di Cassazione[21] aveva espressamente statuito che per stabilire il quantum dell’assegno di mantenimento dopo la separazione non deve più essere valutato quale criterio il tenore di vita sostenuto dai coniugi durante il matrimonio; come è oramai pacificamente sancito per l’assegno divorzile.
Ad oggi, il parametro del tenore di vita va, a parere della Suprema Corte[22], inteso in senso restrittivo sicché non può più (da solo) giustificare la corresponsione dell’assegno. Pertanto, l’assegno di mantenimento è sottoposto alle seguenti valutazioni: se il coniuge istante ha redditi propri adeguati rispetto all’età, alla durata del matrimonio, al contributo dato alla famiglia e alla capacità reddituale dell’altro coniuge. Senza dimenticare che il giudicante deve, altresì, tener conto della situazione complessiva che si prospetta a seguito della sentenza di separazione. La corresponsione dell’assegno e, in particolare, il relativo “quantum” andranno coordinati con le ulteriori disposizioni di ordine economico-patrimoniale: spese, oneri, mutui, assegnazione della casa familiare, collocazione dei figli, etc. Un parametro “composito” affine a quello dell’assegno divorzile, così come prospettato dalle Sez. Unite del 2018.
Nonostante ciò, si deve dare atto che vi sono pronunce – anche recenti[23] – che, contrariamente, fanno ancora riferimento al tenore di vita quale criterio principe per la corresponsione dell’assegno di separazione. Il persistente orientamento fa leva sulle differenze intercorrenti tra i due assegni. L’assegno di mantenimento presuppone, di fatto, la permanenza del vincolo coniugale, e, conseguentemente, la correlazione dell’adeguatezza dei redditi con il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio; al contrario tale parametro non rileva in sede di fissazione dell’assegno divorzile, che deve invece essere quantificato in considerazione della sua natura assistenziale, compensativa e perequativa, secondo i criteri indicati all’art. 5, comma 6, della l. n. 898 del 1970. L’assegno divorzile è volto non alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma, al contrario, al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge beneficiario alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi[24].
Da ultimo, proprio la Cassazione con la recentissima sentenza n. 5076/2021 ha evidenziato, ancora una volta, come differenti siano i presupposti integrativi del diritto all’assegno di mantenimento spettante al coniuge separato economicamente più debole, rispetto all’omologo diritto dell’ex coniuge divorziato. Anche qui, solo nel primo caso, avremo come parametro di riferimento il tenore di vita matrimoniale, quale limite entro il quale l’an e il quantum dell’assegno è destinato a operare. Questo perché, nello stato di separazione, i coniugi si trovano in un contesto di mero allentamento del vincolo coniugale (essendo in ogni momento possibile la riconciliazione degli stessi) e in cui è ancora attuale il dovere di assistenza morale e materiale ex art. 143 c.c. Situazione diversa si realizza, al contrario, nel caso della determinazione dell’assegno di divorzio il quale è basato sulla cessazione del vincolo coniugale e sul dovere di solidarietà tra gli ex-coniugi.
Ne consegue che il contrasto giurisprudenziale in tema di assegno di separazione rimane attuale e potrebbe (eventualmente) in un futuro dare adito ad un nuovo intervento delle Sezioni Unite che possa – così come è avvenuto per l’assegno di divorzio – e fissare una volta per tutte la natura e i presupposti dell’assegno di mantenimento.
Solo così si eviterebbe, nella prassi, che la costante applicazione di criteri diversi (l’uno parametrato al tenore di vita e l’altro al criterio “composito” di cui si è detto) comporti una disparità di trattamento per il coniuge richiedente, garantendo finalmente quella coerenza sistematica alla quale il legislatore certamente auspica.
Brevi conclusioni: elementi di criticità e prospettive di riforma
Il diritto di famiglia è una materia mutevole, in continua evoluzione. L’assetto giuridico dei rapporti familiari è costantemente sollecitato a rinnovarsi, sotto la spinta dell’evoluzione della cultura, della morale e del sentimento sociale. Proprio il susseguirsi dei mutamenti del tessuto sociale di riferimento ha comportato che gli interventi normativi e giurisprudenziali non fossero sempre al passo con le esigenze della collettività.
Nella specifica tematica dell’assegno di mantenimento si è potuto rilevare come l’abbandono del criterio del tenore di vita in favore di una rilettura più attenta ai principi di autoresponsabilità e solidarietà tra gli ex coniugi o la valutazione della difficoltà di reinserimento nel mercato del lavoro nella determinazione dell’assegno divorzile, sono stati indici del fatto che istituti come divorzio e separazione siano ormai permeati a fondo all’interno della coscienza sociale, ma presentino caratteristiche ormai desuete e necessitino dunque di modifiche, sia da un punto di vista dell’onerosità di tali procedimenti, che della loro durata. La riforma dell’istituto appare, dunque, l’unica via percorribile.
Ed invero, alla luce di quanto esposto si è potuto rilevare come ogni principio di diritto che viene elaborato dalla giurisprudenza è cangiante e ciò comporta, inevitabilmente, sul piano pratico, una diversa valutazione della medesima situazione fattuale. Ecco perché è necessaria una coerenza sistematica e una interpretazione delle norme in tema di assegno di mantenimento (divorzile o a seguito di separazione che sia) la quale sia il più rispettosa possibile dei principi di solidarietà, responsabilità, equità e pari dignità tra i coniugi. In modo tale che il giudicante sia in grado di ordinare la corresponsione dell’assegno di mantenimento nei soli casi ove questo sia veramente necessario procedendo, in astratto, all’applicazione di granitici principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza, ma non trascurando, al contempo, le peculiarità dei casi che si presentano nella prassi. Una valutazione e un delicato bilanciamento degli interessi in gioco di non facile e pronta soluzione. Per questi motivi, (forse) il solo intervento della giurisprudenza – in particolare delle Sezioni Unite – potrebbe non bastare, data la vastità della disciplina e degli orientamenti susseguitesi nel tempo, per cui si potrebbe rendere necessario, in questa materia più che nelle altre, l’intervento chiarificatore del legislatore.
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Note
[1] Art. 149 del Codice civile.
[2] Prima dell’ultima novella sul cd. “divorzio breve” (L. N. 55/2015) la separazione personale dei coniugi (giudiziale o consensuale omologata) doveva essere protratta ininterrottamente per almeno tre anni.
[3] Il medesimo periodo di sei mesi è stato esteso alle nuove procedure di natura stragiudiziale introdotte con la L. 10/11/2014. Con tale legge si ha l’introduzione dello strumento della negoziazione assistita; ancora, si introduce la procedura amministrativa davanti l’ufficiale di stato civile (d.l. n. 132/14, convertito in L. n. 162/14, in cui agli artt. 6 e 12 vi è spazio per la determinazione degli assegni post coniugali).
[4] Sul punto, A. Torrente- P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, i rapporti di famiglia, XXIV ediz., 2018.
[5] Il testo originario dell’art. 5, c.6 della I. n. 898 del 1970 aveva il seguente contenuto: “Con la sentenza che pronuncia io scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale dispone, tenuto conto delle condizioni economiche dei coniugi e delle ragioni della decisione, l’obbligo per uno dei coniugi di somministrare a favore dell’altro periodicamente un assegno in proporzione alle proprie sostanze e ai propri redditi. Nella determinazione di tale assegno il giudice tiene conto del contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi. Su accordo delle parti la corresponsione può’ avvenire in una unica soluzione”.
[6] Cass. SS. UU. Sentenza n. 1652 del 1990;
[7] Sul punto, A. Torrente- P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, i rapporti di famiglia, XXIV ediz., 2018;
[8] Il suddetto criterio non è stato ritenuto illegittimo dalla Corte costituzionale sul presupposto che esso è solo uno dei criteri che il giudice è chiamato ad applicare, dovendo egli in ogni caso determinare l’assegno in modo equilibrato, sulla base di tutti i parametri indicati dalla norma, Cosi anche Cass. 5 febbraio 2014 n. 2546;
[9] Corte di Cassazione, sez. I, sentenza 10 maggio 2017 n. 11504;
[10] La Corte muta il consolidato orientamento premettendo che “una volta sciolto il matrimonio civile o cessati gli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio religioso, sulla base dell’ accertamento giudiziale passato in giudicato che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita per l’esistenza di una delle cause previste dall’art. 3, il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente sul piano sul piano sia dello status personale dei coniugi, i quali devono perciò considerarsi da allora in poi «persone singole», sia dei loro rapporti economico-patrimoniali ( art. 191 co 1 c.c.) e, in particolare, del reciproco dovere di assistenza morale e materiale ( art. 143 c.c.)”, e stabilendo così che “il diritto all’assegno divorzile va riconosciuto alla persona dell’ex coniuge non già in ragione del rapporto matrimoniale ormai definitivamente estinto, ma soltanto in considerazione di esso ove si valuti positivamente la sussistenza del presupposto della mancanza dei mezzi adeguati o dell’impossibilità di poterseli procurare per ragioni oggettive” (…) sottolineando infine che lo “scopo del contributo mensile successivo al divorzio non è più garantire lo stesso «tenore di vita» goduto durante il matrimonio, ma solo l’autosufficienza economica”.
[11] Inoltre, la Cassazione, ha evidenziato che detti criteri valgono esclusivamente nella determinazione dell’assegno di divorzio e non sono applicabili all’assegno di mantenimento, dato che vi è una grande differenza di fondo tra i due istituti e che il dovere di assistenza coniugale nella separazione personale e gli obblighi correlati alla cd. “solidarietà post coniugale” nel giudizio di divorzio sono profondamente diversi. Sul punto anche: Cass. civ. sentenza n. 12196 del 16 maggio 2017;
[12] Ancora, anche il Tribunale di Roma – sentenza 23 giugno 2017 n. 12899- ha stabilito che per la richiesta dell’assegno debba essere il richiedente a provare la sussistenza dei requisiti e altresì dimostrando di essersi attivato nel cercare un lavoro, non limitandosi a prove generiche o circostanziate.
[13] Nel caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte, il Tribunale aveva posto a carico dell’ex marito un assegno divorzile della somma di 4000,00 € in favore della ex-moglie. La Corte di Appello aveva riformato la sentenza impugnata negando alla richiedente il diritto all’assegno di divorzio in applicazione dei principi elaborati nell’orientamento del 2017. La Signora poteva, di fatto, godere di un reddito lavorativo superiore alla media e di un cospicuo patrimonio immobiliare, ben al di là dell’autosufficienza economica. Se il Tribunale applicando il parametro “del tenore di vita” aveva attribuito l’assegno divorzile in favore della richiedente, al contrario, la sentenza della Corte di Appello utilizzando il diverso criterio “dell’autosufficienza economica” ha condotto ad un esito diametralmente opposto. La medesima vicenda, sottoposta infine all’esame delle Sezioni Unite della Cassazione, si è trovata a dover essere nuovamente rivalutata alla luce dei principi di diritto sanciti dalla sentenza n. 18287/2018, con rimessione alla Corte di Appello competente
[14] In particolare, gli artt. 1, 3 e 29 Cost.
[15] A. Torrente- P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, i rapporti di famiglia, XXIV ediz., 2018;
[16] Cass. S.S. U.U. sentenza n. 18287/2018;
[17] Cass. civ., Sez. I, sentenza 23 aprile 2019, n. 11178;
[18] sul punto v. anche “Assegno divorzile: i criteri per calcolarlo dopo le Sezioni Unite”, I. Marconi, famiglia e successioni- Altalex, 14. 5. 2019;
[19] vi è una grande differenza tra i due istituti dato che il dovere di assistenza coniugale nella separazione personale e gli obblighi correlati alla cd. “solidarietà post coniugale” nel giudizio di divorzio sono profondamente diversi.
[20] L’art. 156 cc, rubricato “effetti della separazione sui rapporti patrimoniali tra i coniugi”, dispone che: “Il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri. L’entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato. Resta fermo l’obbligo di prestare gli alimenti di cui agli articoli 433 e seguenti”.
[21] Cass. civ., ordinanza n. 26084/2019; con tale pronuncia, la Cassazione ha affermato l’irrilevanza del tenore di vita, arrivando a ritenere che, anche nel caso di determinazione dell’assegno di mantenimento, valgono le regole ed i criteri stabiliti dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 18287/2018, vale a dire, fra l’altro, quello di ritenere non più rilevante il tenore di vita per la determinazione dell’assegno divorzile.
[22] Orientamento formatosi a seguito della ordinanza n. 16405/2019, in cui la Corte ha ritenuto di parificare la natura e la funzione dei due assegni (divorzile e a seguito di separazione), abbandonando il criterio del tenore di vita goduto dai coniugi in costanza di matrimonio e applicando uniformemente i principii della sentenza S.U. n. 18287/2018.
[23] Principio espresso in ogni grado di giudizio: ed es. Cass. civ. Sez. VI, Ord., 24 giugno 2019, n. 16809, Corte d’Appello Palermo, Sez. I., Sentenza, 9 agosto 2019, Tribunale di Milano, Sez. XI, 26 marzo 2019. Da ultimo v. la recentissima Cassazione civile, sez. I, sentenza n. 975 del 20/01/2021, secondo cui ancora: “Nella separazione personale, i ‘redditi adeguati’ per definire l’assegno di mantenimento a favore del coniuge sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio”. Non solo la Corte di Cassazione ma anche Tribunale di primo grado, ad esempio, sul punto v. Tribunale La Spezia sez. I, 25/03/2021, n.179 secondo cui: La separazione personale, a differenza dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, presuppone la permanenza del vincolo coniugale, sicché i “redditi adeguati” cui va rapportato, ai sensi dell’art. 156 c.c., l’assegno di mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell’addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea, dalla quale deriva solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione, e che ha una consistenza ben diversa dalla solidarietà post-coniugale, presupposto dell’assegno di divorzio.
[24] Cassazione civile sez. I, 28/02/2020, n.5605;
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