La riserva di legge ex art 32 Cost. è soddisfatta dalla legislazione vigente oppure è necessaria una legge ad hoc che imponga la vaccinazione?
L’obbligatorietà dei vaccini in Italia è una questione già affrontata nel 2017 con il D.L. 73/2017 che ha reintrodotto l’obbligo di vaccinazione, soppresso alla fine degli anni ‘90, per determinate malattie. La legge 119/2017, di conversione con modificazioni del D.L. 73/2017 (cd. decreto Lorenzin), ha reso obbligatorie dieci vaccinazioni per i minori. Obblighi vaccinali erano già stati disposti nel 1939, nel 1963, nel 1966, nel 1991 e nel 2017; le persone in età pediatrica, da zero a 16 anni, sono già soggette a un obbligo vaccinale. Inoltre, vi sono anche sanzioni pecuniarie e di segnalazione alle Procure presso i Tribunali dei minorenni.
Il D.L. 73/2017, infatti, prevede una sanzione amministrativa per i genitori che non sottopongono i figli a vaccinazione obbligatoria, la quale inoltre è “requisito di accesso” limitatamente a “i servizi educativi per l’infanzia e le scuole dell’infanzia”.Si aggiunga che malattie come la poliomielite e il morbillo sono state quasi del tutto sconfitte, in seguito all’imposizione di vaccini obbligatori, che hanno assicurato quell’interesse della collettività, che è il parametro cui si rapporta l’art. 32 della Costituzione. L’obbligatorietà della vaccinazione anti COVID-19 è stata introdotta dall’articolo 4 del decreto-legge n. 44/2021 per tutte le professioni e gli operatori del comparto sanitario.
La vaccinazione è espressamente definita requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati, con la conseguenza che la sua mancanza determina la sopravvenuta e temporanea impossibilità di svolgere mansioni che implicano contatti interpersonali o che comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da Sars-CoV-2. Si tratta di capire se ricorrano i presupposti e le condizioni per poter dichiarare obbligatoria per legge per tutti i cittadini, e trattata alla stessa stregua degli altri vaccini obbligatori, la vaccinazione per prevenire e neutralizzare il virus Covid 19.La Costituzione dispone che il trattamento sanitario non può essere imposto a nessuno, se non per disposizione di legge (è il caso dei c.d. trattamenti sanitari obbligatori). La Costituzione dispone che possono essere introdotti trattamenti sanitari obbligatori, ponendo un solo limite, quello di farlo per legge. Quindi, richiede un intervento del Parlamento. Dunque, secondo l’articolo 32 della Costituzione, la salute non è soltanto un “diritto dell’individuo”, ma è anche un “interesse della collettività”. La norma costituzionale ha una duplice chiave di lettura, da un lato tutela il cittadino nel suo diritto alla salute e nella sua libertà di scegliere le cure (diritto di autodeterminarsi), dall’altro riconosce un interesse pubblico e collettivo alla salute, che può comportare l’obbligo per i singoli ad essere sottoposti a trattamenti disposti in forza di legge e nei limiti imposti dal rispetto della persona umana.L’importanza anche “collettiva” della salute può talora giustificare trattamenti sanitari obbligatori, come per esempio, nei casi strettamente previsti dalla legge, l’obbligatorietà di alcuni vaccini.
Sulla sicurezza delle vaccinazioni
La Corte costituzionale si è pronunciata più volte sul tema, a partire dalla sentenza n. 258/1994 per giungere alla recente sentenza n. 5/2018, individuando i presupposti affinché l’obbligo vaccinale possa ritenersi compatibile con i principi previsti dall’art. 32 Cost. In particolare, la Corte costituzionale ha stabilito che la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art 32 Costituzione:se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri (sentenza 307/1990);se vi sia la previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato salvo che per quelle sole conseguenze temporanee e di scarsa entità;se – nell’ipotesi di danno ulteriore alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio – sia prevista la corresponsione di un’equa indennità in favore del danneggiato (sentenza 307/1990). Questa è stata la posizione che la Corte costituzionale ha assunto con la prima decisione in materia, la sentenza n. 307 del 1990 con la quale si è pronunciata sulla legittimità costituzionale della L. 4 febbraio 1966, n. 51 sull’obbligatorietà della vaccinazione antipoliomielitica.In questa sentenza, la Consulta ha affermato che “la vaccinazione antipoliomielitica per bambini entro il primo anno di vita, come regolata dalla norma denunciata, che ne fa obbligo ai genitori, ai tutori o agli affidatari, comminando agli obbligati l’ammenda per il caso di inosservanza, costituisce uno di quei trattamenti sanitari obbligatori cui fa riferimento l’art. 32 della Costituzione. Tale precetto nel primo comma definisce la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività; nel secondo comma, sottopone i detti trattamenti a riserva di legge e fa salvi, anche rispetto alla legge, i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. In altri termini, la Corte enuncia una serie di principi che disciplinano il bilanciamento dei diritti e delle posizioni in campo: diritto alla salute, libertà personale e autodeterminazione del soggetto. Soprattutto, però, la Corte opera una valutazione tenendo conto della dimensione collettiva della salute, basata sul principio di solidarietà fra l’individuo e la collettività, ricavabile dall’art. 2 Costituzione. E’ soprattutto questo principio che sta alla base della imposizione del trattamento sanitario: la tutela della salute pubblica nella sua dimensione collettiva fondata sulla solidarietà sociale, giustifica la compressione del diritto alla autodeterminazione. Le evidenze scientifiche a oggi disponibili sui vaccini anti-Covid ci dicono che:
- i vaccinati hanno meno probabilità di contagiarsi rispetto ai non vaccinati;
- se anche si contagiano, risultando positivi al virus, i vaccinati hanno meno probabilità di contagiare altre persone rispetto ai non vaccinati;
- se anche si contagiano, risultando positivi al virus, i vaccinati hanno meno probabilità di ammalarsi rispetto ai non vaccinati;
- se anche si ammalano, i vaccinati hanno meno probabilità di sviluppare la malattia in forma grave rispetto ai non vaccinati e minor necessità di ricorso all’ospedalizzazione;
- se anche si ammalano in forma grave, i vaccinati hanno meno probabilità di morire rispetto ai non vaccinati.
Obblighi dei lavoratori
Le straordinarie limitazioni imposte nel sistema del diritto del lavoro dall’imprevedibile esplosione della pandemia hanno inciso sensibilmente sulla maggior parte degli istituti giuslavoristici; dall’esteso ricorso agli ammortizzatori sociali, normalmente destinati ad offrire numerose misure di sostegno al reddito ai lavoratori che hanno perso il lavoro, ad una disciplina semplificata del lavoro a distanza, fino ad arrivare al blocco dei licenziamenti per lungo periodo. L’articolo 5 della L. 20/05/1970, n. 300, nella sistemazione statutaria, a tutela della libertà e dignità del lavoratore, prevede, tuttora, opportunamente, il divieto di indagini da parte del datore di lavoro sulla idoneità e infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente, con il riconoscimento della facoltà di far controllare l’idoneità fisica del lavoratore da parte di enti pubblici ed istituti specializzai di diritto pubblico. Occorre dunque chiedersi se il divieto di accertamenti sanitari all’art 5 sia compatibile con l’emergenza sanitaria in atto, ovvero essere letto in chiave evolutiva, allo scopo di tutelare l’esigenza di evitare la diffusione del contagio da Covid-19 e di realizzare il necessario bilanciamento tra lavoro in sicurezza e ripresa delle attività produttive.
Si tratta invero di una situazione imprevista e presumibilmente imprevedibile all’epoca dell’approvazione della norma, che tuttavia rende indispensabile, nel contesto emergenziale, una interpretazione congiunta di tale norma con ulteriori disposizioni: da un lato, con la previsione contenuta nel Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid 19 negli ambienti di lavoro, siglato il 14 marzo 2020, interamente recepito nel Dpcm 22 marzo 2020 e poi integrato il 24 aprile 2020, ove viene espressamente stabilito che “il personale, prima dell’accesso al luogo di lavoro, potrà essere sottoposto al controllo della temperatura corporea. Se tale temperatura risulterà superiore ai 37,5°C l’ingresso ai luoghi di lavoro non sarà consentito” e, dall’altro, con la previsione di cui all’art. 20 del d. lgs. n. 81/2008, che configura un vero e proprio “dovere di collaborazione” dei lavoratori con il datore di lavoro nell’attuazione delle misure di sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro. n particolare, tale ultima norma prescrive espressamente che “ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro”, stabilendo poi che tra gli obblighi previsti al co. 2, lett. i) dell’art. 20, rientri anche quello di “sottoporsi ai controlli sanitari previsti dal presente decreto legislativo o comunque disposti dal medico competente”. Ora, è chiaro che né l’art. 5, l. 300/1970, né il d. lgs. n. 81/2008 potevano prevedere il verificarsi di vicende eccezionali come quelle della pandemia mondiale e dell’emergenza sanitaria che ne è scaturita. Tuttavia, dal momento le disposizioni del Testo unico sulla Sicurezza nei luoghi di lavoro hanno lo scopo di estendere ai lavoratori la responsabilità di partecipare alla gestione della sicurezza all’interno del complesso produttivo per allargare il livello di coinvolgimento dei diversi attori a vario titolo presenti all’interno dei luoghi di lavoro, la disciplina della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, consente di realizzare una trasformazione del lavoratore da soggetto passivo degli obblighi di sicurezza datoriali a soggetto attivo che prende parte alla programmazione della gestione della sicurezza all’interno del contesto produttivo e che come tale deve collaborarvi adottando ogni necessaria diligenza. Più specificamente, a norma dell’art. 20 del d. lgs. n. 81/08, che riproduce quasi integralmente il contenuto delle disposizioni già contenute all’art. 5 del d. lgs. n. 626/94 integrandolo ed ampliandolo,10 i lavoratori devono osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti per garantire una completa protezione collettiva e individuale;11 utilizzare correttamente i macchinari, le apparecchiature, gli utensili, le sostanze e i preparati pericolosi, i mezzi di trasporto e le altre attrezzature di lavoro, nonché i dispositivi di sicurezza;12 utilizzare in modo appropriato i dispositivi di protezione individuale messi a loro disposizione; segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto le deficienze dei mezzi e dei dispositivi di cui utilizzati nello svolgimento dell’attività lavorativa, nonché le altre eventuali condizioni di pericolo di cui vengono a conoscenza, adoperandosi direttamente, in caso di urgenza, nell’ambito delle loro competenze e possibilità, per eliminare o ridurre tali deficienze o pericoli, dandone notizia al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza; non rimuovere o modificare senza autorizzazione i dispositivi di sicurezza o di segnalazione o di controllo;13 non compiere di propria iniziativa operazioni o manovre che non sono di loro competenza ovvero che possono compromettere la sicurezza propria o di altri lavoratori; sottoporsi ai controlli sanitari previsti nei loro confronti14; contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti, ai preposti, all’adempimento di tutti gli obblighi imposti dall’autorità competente o comunque necessari per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori durante il lavoro.
Dottrina giuslavoristica
Conclusa la fase iniziale dell’emergenza in cui imprese e lavoratori hanno dovuto fronteggiare il diffondersi del Covid-19 alla ricerca di una nuova razionalità organizzativa degli ambienti di lavoro per resistere ad un nuovo rischio per la salute e la sicurezza, il prendere consistenza di un atteggiamento obiettore rispetto al vaccino da parte della popolazione ha condotto all’emersione, nell’arena politica, costituzionale, sindacale e giuslavoristica, di un acceso dibattito sulla possibile obbligatorietà del vaccino, almeno in alcuni contesti professionali, e sulle conseguenze, nelle relazioni con il datore di lavoro pubblico e privato, del rifiuto del lavoratore a sottoporvisi. Le soluzioni prospettate sono state le più varie, desunte tutte dai principi fondamentali dell’ordinamento ed imposte dall’assenza – quantomeno iniziale – di una puntuale norma positiva, sopraggiunta solo con l’articolo 4 del d.l. n. 44 del 2021.
Posizioni contrastanti su obbligo vaccinale per tutti i lavoratori
Sulla campagna vaccinale si è già scatenata una discussione molto accesa tra chi (pur in assenza di una norma che renda obbligatoria la vaccinazione contro il Covid-19), sostiene che sia consentito a un imprenditore richiedere la relativa vaccinazione come misura di sicurezza ai propri dipendenti e chi, invece, nega che il datore di lavoro possa imporla per ragioni di sicurezza e, conseguentemente, sanzionare con il licenziamento per giusta causa chi non si adegua a tale disposizione.
La tesi dell’obbligatorietà della vaccinazione in assenza di legge
L’articolo 32 della Costituzione sancisce la libertà di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario, ivi comprese le vaccinazioni, salvo quello per il quale la legge istituisca un obbligo. L’ordinamento italiano conosce numerosi casi di vaccinazioni rese obbligatorie da norme di legge per singole categorie di persone o per tutti: contro la difterite (1939), contro il tetano (1963-1981), contro la poliomielite (1966), contro l’epatite virale B (1991), contro la tubercolosi (2000), contro la pertosse, la poliomielite, l’epatite B, l’Haemophilus influenzae tipo b, il morbillo, la parotite, la rosolia e la varicella, oltre che ancora contro epatite B, difterite e tetano (2017). A tutt’oggi, però, nessuna norma ha reso obbligatoria la vaccinazione contro il Covid-19; né avrebbe evidentemente potuto fino alla fine del 2020, avendo il vaccino stesso incominciato a essere disponibile soltanto dall’inizio del 2021, e ancora in quantità assai limitate. Così stando le cose, la questione che incomincia a porsi è se, pur in assenza di una legge che la renda obbligatoria, e finché duri la pandemia da Covid-19, sia consentito a un imprenditore richiedere la relativa vaccinazione come misura di sicurezza ai propri dipendenti che abbiano l’effettiva possibilità di sottoporvisi. In altre parole, se il vincolo non specificamente previsto da una legge per la generalità delle persone possa – senza che sia violato l’art. 32 Cost. – essere attivato a carico di alcune di esse per effetto del contratto di lavoro (ma anche, eventualmente, per effetto di un contratto diverso: di trasporto, di ristorazione, o di altro genere) di cui esse siano titolari. È opinione che al quesito possa darsi risposta positiva; il che non implica necessariamente che la via dell’imposizione sia sempre la più opportuna sul piano pratico. L’opinione è fondata su alcune norme che disciplinano il contratto di lavoro: due di carattere generale, che obbligano rispettivamente il datore e il prestatore di lavoro a realizzare le condizioni di massima sicurezza e igiene in azienda a beneficio di tutti coloro che in essa lavorano, e una di carattere specifico riferita all’ eventuale necessità di una vaccinazione. Ma prima di esaminare il contenuto delle tre norme occorre chiarire l’affermazione secondo cui l’autonomia negoziale privata può disporre di diritti della persona protetti da una riserva di legge.
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Fabio M. DonelliSpecialista in Ortopedia e Traumatologia, Medicina Legale e delle Assicurazioni e in Medicina dello Sport. Professore a contratto presso l’Università degli Studi di Milano nel Dipartimento di Scienze Biomediche e docente presso l’Università degli Studi della Repubblica di San Marino. Già docente nella scuola di Medicina dello Sport dell’Università di Brescia, già professore a contratto in Traumatologia Forense presso l’Università degli Studi di Bologna e tutor in Ortopedia e Traumatologia nel corso di laurea in Medicina Legale presso l’Università degli Studi di Siena. Responsabile della formazione per l’Associazione Italiana Traumatologia e Ortopedia Geriatrica. Promotore e coordinatore scientifico di corsi in ambito ortogeriatrico, ortopedico-traumatologico e medico-legale.Mario GabbrielliSpecialista in Medicina Legale. Già Professore Associato in Medicina Legale presso la Università di Roma La Sapienza. Professore ordinario di Medicina Legale presso la Università di Siena. Già direttore della UOC Medicina Legale nella Azienda Ospedaliera Universitaria Senese. Direttore della Scuola di Specializzazione in Medicina Legale dell’Università di Siena, membro del Comitato Etico della Area Vasta Toscana Sud, Membro del Comitato Regionale Valutazione Sinistri della Regione Toscana, autore di 190 pubblicazioni.Con i contributi di: Maria Grazia Cusi, Matteo Benvenuti, Tommaso Candelori, Giulia Nucci, Anna Coluccia, Giacomo Gualtieri, Daniele Capano, Isabella Mercurio, Gianni Gori Savellini, Claudia Gandolfo.
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La intrinseca disponibilità dei diritti assoluti della persona
È un errore assai diffuso quello di pensare che i diritti assoluti della persona siano, in quanto tali, invariabilmente sottratti all’autonomia negoziale della persona stessa. In alcuni casi lo sono: per esempio, il diritto all’integrità corporale è protetto da un divieto di atti di disposizione (che soffre la sola eccezione della possibilità della donazione di un organo ad altro soggetto). Ma nella maggior parte dei casi la possibilità per la persona di compiere atti di disposizione di un proprio diritto assoluto fa parte dell’essenza stessa di quel diritto, il quale altrimenti si trasformerebbe in una camicia di Nesso soffocante per il suo titolare.
Proprio il contratto di lavoro costituisce un esempio evidente della disponibilità di diritti personalissimi: con esso, infatti, chi vive del proprio lavoro accetta la limitazione della propria libertà e del right to be let alone che inevitabilmente deriva dal “contatto contrattuale”, oggetto essenziale della pattuizione. Impegnandosi nello stretto “contatto” tipicamente proprio di questa relazione contrattuale, ogni persona accetta non solo la ovvia limitazione della propria libertà di movimento, ma anche la possibilità di indagini dell’imprenditore sulle proprie attitudini e i propri precedenti professionali, la possibilità di essere sottoposta a visita medica domiciliare dal servizio ispettivo competente, e così via. Allo stesso modo chi vive del proprio lavoro accetta la possibilità che – pur in assenza di alcuna norma legislativa da cui derivi l’obbligo di una determinata vaccinazione per tutti – gli si chieda di vaccinarsi, perché il contratto gli impone di rispettare le direttive, purché rispondenti al requisito fondamentale della ragionevolezza, impartite dal datore di lavoro circa le misure di protezione (su questo punto torneremo nei paragrafi che seguono).
A ben vedere, ciò che accade in attuazione del contratto di lavoro, per questo aspetto, non è diverso da ciò che accade in attuazione di qualsiasi contratto diverso che implichi uno stretto contatto tra le parti o tra una di esse e persone terze: per esempio quello di trasporto, nel quale il vettore – obbligato a garantire la massima sicurezza di tutti i viaggiatori – condizioni l’accesso all’aereo o alla carrozza ferroviaria all’esibizione di un certificato di vaccinazione.
L’obbligo generale di sicurezza a carico del datore e del prestatore di lavoro
L’articolo 2087 del Codice civile obbliga l’imprenditore, pubblico o privato, ad adottare “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Occorre dunque chiedersi se, in una situazione di pandemia da Covid-19, una fabbrica o un ufficio nel quale tutti siano vaccinati contro questo virus realizzi condizioni di sicurezza contro il rischio dell’infezione apprezzabilmente maggiore, rispetto alla fabbrica o ufficio nel quale una parte dei dipendenti non sia vaccinata. Se le indicazioni della scienza medica sono univocamente nel senso della risposta positiva, l’imprenditore ben può, in ottemperanza all’articolo 2087, a seguito di attenta valutazione del rischio specifico nella propria azienda, richiedere a tutti i propri dipendenti la vaccinazione, dove questa sia per essi concretamente possibile. Né gli interessati potranno opporre alla richiesta di un certificato di vaccinazione il divieto di indagini di cui all’art. 8 St. lav., dal momento che l’essersi sottoposti alla misura protettiva diventa, per effetto del contratto di lavoro, un dato rilevante circa la loro prontezza ad adempiere correttamente.
Questo modo di attuazione da parte dell’imprenditore del programma contrattuale potrebbe essere escluso se esso si ponesse in contrasto con norme di ordine pubblico, o fosse comunque funzionale a interessi non meritevoli di tutela nell’ordinamento; ma nelle circostanze presenti esso invece si pone perfettamente in linea con direttive generali di sanità pubblica condivise dalla comunità scientifica, dal Governo e dalle autorità sanitarie competenti: si tratta dunque di un modo di attuazione del rapporto contrattuale ragionevole e come tale meritevole di tutela nell’ordinamento.
Si obietta che le autorità sanitarie competenti hanno autorizzato la vaccinazione ancora soltanto in via provvisoria, essendone ancora sconosciuti gli effetti a medio e lungo termine. È però anche vero che questa autorizzazione è stata data in tempi eccezionalmente brevi – pur nel rispetto di tutti i protocolli medico-scientifici del caso – proprio per la ritenuta urgenza di una vaccinazione di massa su scala planetaria, sulla base di un confronto tra l’entità e gravità degli eventuali effetti collaterali dell’inoculazione del vaccino e l’entità e gravità estrema (che si misura in Italia in centinaia di morti ogni giorno) dei danni certi derivanti dalla pandemia in atto. Se dunque è del tutto ragionevole il rilascio accelerato dell’autorizzazione da parte delle autorità competenti, non può non ritenersi ragionevole anche l’adozione di questa misura da parte del titolare di un’azienda.
Un’altra obiezione che viene mossa alla tesi qui sostenuta è quella secondo cui, in materia di prevenzione del contagio da Covid-19, il contenuto concreto dell’obbligo di sicurezza dell’imprenditore sarebbe stato, per così dire, cristallizzato dalla norma contenuta nell’art. 29-bis d.l. n. 23/2020 – c.d. Decreto Liquidità –, come convertito con la l. n. 40/2020, che rinvia al contenuto dei protocolli convenuti tra il Governo e le parti sociali. Ma l’epoca in cui la norma è stata emanata, nella quale vaccinarsi non era ancora possibile e non era neppure prevedibile quando e con quali modalità lo sarebbe stato, impedisce di dedurre dalla norma stessa l’esclusione della vaccinazione dal novero delle misure attivabili oggi dall’imprenditore per la prevenzione del contagio. E sappiamo come l’art. 2087 c.c. sia una “norma aperta” proprio nel senso che l’obbligo di sicurezza in esso contenuto si arricchisce di contenuti concreti via via che la scienza e la tecnica mettono a disposizione nuove misure efficaci.
Per altro verso, l’articolo 20 del Testo Unico sulla sicurezza negli ambienti di lavoro (d. lgs. n. 81/2008) testualmente recita: “Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro” (corsivi miei). Donde la conferma che le direttive impartite dal datore di lavoro in materia di sicurezza e igiene dell’ambiente di lavoro, se ragionevoli (cioè conformi alle indicazioni che si traggono da scienza ed esperienza), contribuiscono a determinare il contenuto dell’obbligazione contrattuale del dipendente, anche quando da esse deriva un obbligo non specificamente previsto dalla legge, né comunque imposto alla generalità dei cittadini. L’altra norma direttamente rilevante in questa materia è l’articolo 279 dello stesso Testo Unico, che prevede in modo più specifico l’obbligo per l’imprenditore di richiedere la vaccinazione del dipendente. La previsione è bensì riferita al rischio di infezione derivante da un “agente biologico presente nella lavorazione” (c. m.); tuttavia, se l’obbligo è esplicitamente previsto dalla legge per questo rischio specifico, è ragionevole ritenere che lo stesso obbligo gravi sull’imprenditore per la prevenzione di un rischio di infezione derivante da un virus altamente contagioso, del quale può essere portatrice una qualsiasi delle diverse persone contemporaneamente presenti nello spazio aziendale chiuso nel quale l’attività lavorativa è destinata a svolgersi.
A questa applicazione estensiva dell’art. 279 del Testo Unico si obietta che le norme protettive in materia di sicurezza e igiene del lavoro “sono pensate per prevenire i rischi derivanti dal luogo di lavoro” e non i rischi provenienti dall’esterno. Ma per superare questa obiezione è sufficiente considerare che l’imprenditore, nell’esercizio del suo potere organizzativo, è tenuto a valutare e prevenire anche rischi provenienti da agenti provenienti dall’esterno dell’azienda, come per esempio gli agenti atmosferici cui i dipendenti possono essere esposti nello svolgimento della prestazione, i comportamenti imprudenti o addirittura dolosi di terzi – si pensi alla responsabilità dell’istituto bancario per il rischio di rapina –, o gli agenti patogeni di cui possa essere portatore un utente del servizio o un fornitore. A questo proposito si osservi, peraltro, che il rischio dell’infezione da Covid-19, a differenza degli altri rischi di contrarre malattie infettive, è stato qualificato dalla legge come rischio di infortunio sul lavoro (art. 42, c. 2, d.l. n. 18/2020, convertito con l. n. 27/2020) proprio in considerazione dell’elevatissima contagiosità e diffusione del virus che causa questa grave malattia e dell’alta probabilità che in un ambiente chiuso anche una sola persona portatrice del virus lo trasmetta ad altre: con questa norma il legislatore ha, in sostanza, considerato il fatto stesso di lavorare in un’azienda insieme ad altre persone come causa tipica del rischio di infezione da Covid-19. Che è quanto basta perché di questo rischio il datore di lavoro debba farsi pienamente carico.
Per altro verso, in molti casi grava sullo stesso datore di lavoro un rilevante dovere di sicurezza anche nei confronti dell’utente del servizio: dovere nell’adempimento del quale non può certo distinguersi se il rischio derivi da un fattore o agente patogeno proveniente “dall’interno” o “dall’esterno” dell’organizzazione. Questo è particolarmente evidente nel caso di un ospedale o casa di cura: se la direzione aziendale non richiede la vaccinazione ai propri medici e infermieri (cui pure sia data la possibilità di vaccinarsi) e dall’omissione deriva la malattia di una persona, dipendente o paziente, l’azienda ne è evidentemente responsabile, allo stesso modo in cui lo sarebbe se il danno fosse derivato dal mancato rispetto di una qualsiasi altra misura di sicurezza specificamente suggerita dalla scienza, dalla tecnica e/o dall’esperienza per l’esercizio delle attività medico-sanitarie. Si osservi, a questo proposito, che la sostanza del discorso non cambia se, invece che a un ospedale o casa di cura, esso è riferito a un’impresa alberghiera, di ristorazione, o di trasporto, dove gli utenti esposti al rischio del contagio, invece che pazienti, sono avventori o viaggiatori. Ma non cambia neppure se si riferisce a un’impresa manifatturiera: anche in questo caso, in presenza di un rischio ben conosciuto, qualificato esplicitamente dalla legge – come si è visto – come rischio da lavoro tipico, cioè rischio cui è tipicamente esposto chiunque lavori in un’azienda insieme ad altre persone, la responsabilità del datore di lavoro per la sicurezza di ciascuno dei dipendenti è la stessa che grava sul titolare dell’ospedale, della casa di cura, dell’albergo, o del servizio di trasporto.
La tesi contraria all’obbligo di vaccinazione per tutti i lavoratori in assenza di una legge
Il tema su cui ci viene proposto di intervenire è di bruciante attualità. In un contesto ordinamentale nel quale la vaccinazione non è obbligatoria può il datore di lavoro imporla ai propri dipendenti per ragioni di sicurezza e, conseguentemente, sanzionare con il licenziamento per giusta causa chi non si adegua a tale disposizione? I parametri di riferimento per impostare una risposta sono anzitutto l’art. 32 Cost. e l’art. 2087 cod. civ. Il primo, come è noto, al secondo comma, prevede che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». Il secondo impegna il datore di lavoro ad «adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro». Orbene è pacifico che l’art. 2087 non può essere considerato la “disposizione di legge” cui allude la riserva formulata dall’art. 32 Cost., dovendo questa consistere in una normazione ad hoc, specificamente diretta ad imporre la vaccinazione. D’altra parte, è sì vero che il rispetto dell’obbligo di cui all’art. 2087 impone al datore di conformarsi al criterio della “massima sicurezza possibile”, ma il rispetto di tale criterio è pur sempre ancorato a dati scientifici dedotti dall’”esperienza e la tecnica”. Sennonché nel nostro caso poco o nulla si sa sul vaccino ed i suoi effetti, ma soprattutto gli scienziati si dividono anche sui mezzi di propagazione del virus. Mancherebbero quindi quei dati di acquisita “esperienza e tecnica”, che potrebbero imporre al datore l’adozione di tale misura. Così come il lavoratore potrebbe addurre, se non il rispetto della riservatezza, particolari condizioni personali che possono sconsigliare di sottoporsi alla vaccinazione. Si dice ancora che, secondo l’art. 20 del d.lgs. 81/2008 (il testo unico in materia di sicurezza sul lavoro), è fatto obbligo allo stesso lavoratore di prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro. Si tratta però di un precetto che può essere astrattamente invocato rispetto alle misure che impongono di indossare la mascherina e/o rispettare il distanziamento o, ancora, farsi misurare la temperatura all’ingresso dei luoghi di lavoro (misure del resto previste da fonti sovraordinate), ma non per quelle che, come la vaccinazione, incontrano un limite che deriva da una norma costituzionale. Altrettanto discutibile è il richiamo dell’art. 279 del Testo unico, secondo cui, ove il lavoratore sia esposto ad agenti biologici, il datore di lavoro può disporre le più idonee misure sanitarie di protezione, ivi compresa «la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione». È evidente, infatti, che in questo caso la vaccinazione è imposta a protezione dello stesso lavoratore esposto ad un rischio che comunque promana dall’ambiente lavorativo. D’altra parte, questa disposizione costituisce la migliore conferma del fatto che solo con una esplicita previsione legislativa si può superare il divieto previsto dall’art. 32 Cost. Con il corollario che, trattandosi di norma di stretta interpretazione, non se ne possono allargare le maglie estendendola a situazioni diverse e non previste. Certo, in una situazione di tale incertezza e su una materia così delicata, sarebbe auspicabile che intervenisse il legislatore, ma la politica purtroppo latit
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La necessità di dare una risposta a una infezione sconosciuta ha portato a una contrazione dei tempi di sperimentazione precedenti alla messa in commercio che ha suscitato qualche interrogativo, per non parlare della logica impossibilità di conoscere possibili effetti negativi a lungo termine.
Il presente lavoro intende fare chiarezza, per quanto possibile, sulle questioni più discusse in merito alla somministrazione dei vaccini, analizzando aspetti sanitari, medico – legali e professionali, anche in termini di responsabilità.
Fabio M. DonelliSpecialista in Ortopedia e Traumatologia, Medicina Legale e delle Assicurazioni e in Medicina dello Sport. Professore a contratto presso l’Università degli Studi di Milano nel Dipartimento di Scienze Biomediche e docente presso l’Università degli Studi della Repubblica di San Marino. Già docente nella scuola di Medicina dello Sport dell’Università di Brescia, già professore a contratto in Traumatologia Forense presso l’Università degli Studi di Bologna e tutor in Ortopedia e Traumatologia nel corso di laurea in Medicina Legale presso l’Università degli Studi di Siena. Responsabile della formazione per l’Associazione Italiana Traumatologia e Ortopedia Geriatrica. Promotore e coordinatore scientifico di corsi in ambito ortogeriatrico, ortopedico-traumatologico e medico-legale.Mario GabbrielliSpecialista in Medicina Legale. Già Professore Associato in Medicina Legale presso la Università di Roma La Sapienza. Professore ordinario di Medicina Legale presso la Università di Siena. Già direttore della UOC Medicina Legale nella Azienda Ospedaliera Universitaria Senese. Direttore della Scuola di Specializzazione in Medicina Legale dell’Università di Siena, membro del Comitato Etico della Area Vasta Toscana Sud, Membro del Comitato Regionale Valutazione Sinistri della Regione Toscana, autore di 190 pubblicazioni.Con i contributi di: Maria Grazia Cusi, Matteo Benvenuti, Tommaso Candelori, Giulia Nucci, Anna Coluccia, Giacomo Gualtieri, Daniele Capano, Isabella Mercurio, Gianni Gori Savellini, Claudia Gandolfo.
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