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I fatti
La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, si è pronunciata avverso il ricorso presentato da parte attrice del giudizio in cui la stessa aveva chiamato in causa l’Azienda Sanitaria Locale di Napoli 1 Centro al fine di richiedere la condanna di quest’ultima al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, conseguenti alle lesioni subite dopo un intervento chirurgico.
In particolare, l’attrice, sosteneva che dopo l’intervento, avvenuto in data 28.10.2002, “per l’asportazione di un piccolo lipoma presente nella pianta del piede destro”, l’anno successivo, a causa di complicanze conseguenti a quest’ultimo, “gli fu aspirato un ascesso e diagnosticata la presenza di ascessi batterici multipli del piede e caviglia desta, diabete mellito di tipo II”.
La domanda veniva rigettata sia dal Tribunale che dalla Corte d’Appello, in quanto, secondo il primo giudice, vi era “assenza di causalità tra l’operato della struttura sanitaria e le lesioni dedotte dall’attore”; la Corte Territoriale, dello stesso pensiero, riteneva che l’attore, in tema di onere della prova, non aveva dimostrato il nesso causale tra la condotta dei sanitari e i danni lamentati. Inoltre, i giudici di secondo grado ritenevano che non poteva essere addebitato ai sanitari alcun inadempimento, in quanto l’infezione post operatoria, manifestatasi 5 mesi dopo l’intervento, non era imputabile ad una qualche condotta negligente o imprudente dei sanitari. Infine, veniva affermato che gli operatori sanitari non avevano attuato alcuna violazione dell’obbligo informativo nei confronti del paziente, considerato anche che lo stesso, in quell’epoca, non era ancora affetto da diabete mellito.
A fronte delle decisioni dei primi due gradi di giudizio, che vedevano rigettata la domanda attorea, il paziente proponeva ricorso dinnanzi alla Corte di Cassazione sulla base di tre motivi.
Con il primo motivo di ricorso, veniva denunciato il fatto che la sentenza della Corte d’Appello fosse errata nella parte in cui aveva ritenuto che il nesso di causalità tra condotta ed evento non fosse stato dimostrato, in quanto le sequele infettive sarebbero derivate da una patologia strutturale, ossia il diabete, di cui il paziente ha iniziato a soffrire a seguito dell’intervento.
Con il secondo motivo, invece, veniva lamentata la “violazione o falsa applicazione dell’art. 32 della Costituzione”; infine, con il terzo motivo, veniva denunziata l’erronea motivazione della condanna alle spese in giudizio.
A riguardo, i giudici della Corte, nella sentenza oggetto della nostra attenzione, hanno rigettato tutti e tre i motivi di ricorso.
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Le questioni di diritto sul consenso informato
In primo luogo, la Corte suprema ha ritenuto di dover rigettare il primo motivo di gravame confermando la mancata prova del nesso causale tra la condotta dei sanitari e l’evento di danno lamentato dal ricorrente, richiamando a tal fine un orientamento della stessa (Cass. 18392/2017; Cass. nn. 28991 e 28992/2019), secondo il quale tale onere probatorio grava sul creditore e solo in seguito a tale prova grava sul debitore provare l’assenza di colpa, ovvero che l’inadempimento sia derivato da una causa non imputabile al debitore, ossia da un fatto imprevedibile e inevitabile.
Secondo gli Ermellini, la Corte territoriale, attenutasi a tale principio, ha ritenuto determinanti per la decisione gli esiti della perizia della CTU, nella quale veniva affermato che i danni lamentati dal ricorrente erano etimologicamente riconducibili ed in via esclusiva alla patologia di cui lo stesso era affetto, ossia il diabete. In altri termini, per i giudici i danni lamentati non risultavano compatibili con l’operazione, la quale era stata anche seguita da una terapia ritenuta idonea dallo stesso CTU.
Per quanto concerne, invece, il secondo motivo di ricorso, il paziente sosteneva che la Corte d’Appello non avrebbe adeguatamente considerato la carenza di consenso informato e, perciò, avrebbe invertito l’onere della prova ritenendo che fosse onere del paziente dimostrare di non aver ricevuto idonee informazioni. Inoltre, la presenza di concause, quali la patologia di diabete, avrebbero dovuto condurre la struttura sanitaria e i medici a fornire un’informazione più adeguata alla condizione psico-fisica del paziente. Non essendo stata attuata tale procedura, il paziente sosteneva che fosse stato leso il suo diritto all’autodeterminazione a causa della carenza informativa in relazione all’intervento e le possibili conseguenze post-operatorie.
Secondo gli Ermellini, tuttavia, anche detto motivo di ricorso è infondato. A tal proposito, i Giudici hanno richiamato e confermato il proprio precedente orientamento (confermato da ultimo anche da Cass. n. 9706/2020 e Cass. n. 24471/2020) in cui sono già stati affermati i seguenti principi:
- La manifestazione del consenso da parte del paziente alla prestazione sanitaria costituisce espressione del fondamentale diritto all’autodeterminazione in relazione al trattamento medico che gli viene proposto; in quanto diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute, trova fondamento direttamente in quanto disposto negli artt. 2, 13 e 32 della Cost.;
- Nonostante il fatto che l’inadempimento dell’obbligo di acquisire il consenso informato del paziente sia autonomo rispetto a quello inerente a trattamento terapeutico, “in ragione dell’unitarietà del rapporto giuridico tra medico e paziente, non può essere affermata una assoluta autonomia dei due illeciti tale da escludere ogni interferenza tra gli stessi nella produzione del medesimo danno”; invece, è possibile che l’inadempimento dell’obbligazione sulla corretta informazione, sui rischi e i benefici della terapia si inserisca tra i fattori concorrenti di quella serie di cause che vanno a determinare il pregiudizio alla salute;
- Nel caso in cui, come mancata acquisizione del consenso informato, venga allegato e provato un danno biologico, al fine di individuare la causa immediata e diretta di tale danno, è necessario che nel giudizio contro fattuale venga accertata quale sarebbe stata la scelta del paziente nel caso in cui fosse stato correttamente informato, “atteso che, se egli avesse comunque prestato senza riserve il consenso a quel tipo di intervento, la conseguenza dannosa sarebbe dovuta imputare esclusivamente alla lesione del diritto alla salute, se determinata dalla errata esecuzione della prestazione professionale”; nel caso in cui non avesse prestato il consenso, il danno biologico sarebbe riferibile alla violazione dell’obbligo informativo e concorrerebbe “alla sequenza causale produttiva della lesione della salute quale danno-conseguenza”;
- Le conseguenze di un consenso legittimamente prestato devono essere adeguatamente allegate dal paziente, in quanto sul paziente grava l’onere di provare “il fatto positivo del rifiuto che egli avrebbe opposto al medico, tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva”.
In considerazione di ciò, concludono gli Ermellini, il risarcimento in tema di consenso informato non è dovuto nel caso in cui vi sia stata omessa o carente informazione circa un intervento, che non abbia cagionato al paziente alcun danno alla salute, al quale egli avrebbe comunque deciso di sottoporsi; sarà, invece, risarcibile, il danno nell’ipotesi in cui l’omissione o inadeguatezza informativa, circa un intervento che, non ha cagionato danno alla salute del paziente, abbia impedito al paziente di accedere ad ulteriori accertamenti, da cui ne sono, poi, derivate, conseguenze dannose in senso di sofferenza soggettiva e limitazione della libertà di decidere in ordine al proprio corpo.
Rispetto al secondo motivo di ricorso, quindi, la Suprema Corte lo ha ritenuto inammissibile, in quanto il ricorrente aveva riproposto con lo stesso la richiesta di risarcimento di un danno biologico non correlato causalmente con l’intervento realizzato.
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