SOMMARIO:
- Il fatto
- I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
- Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
- Conclusioni
Il fatto
La Corte di Appello di Milano confermava una decisione con la quale il Tribunale di Milano, a sua volta, aveva affermato la responsabilità penale di un imputato in ordine al reato di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000 in relazione all’utilizzazione, a fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, di cinque fatture per operazioni oggettivamente inesistenti che gli consentivano di indicare elementi passivi fittizi nelle dichiarazioni IVA e sui redditi relativamente ad un anno di imposta.
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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il provvedimento summenzionato proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato deducendo i seguenti motivi: 1) inosservanza degli art. 220 disp. att cod. proc. pen. e 64 e 350 cod. proc. pen. sostenendosi che il procedimento penale traeva origine da un accertamento effettuato dall’Agenzia delle Entrate e che, nel giudizio di primo grado, il giudice aveva dato particolare rilievo a tutta la ricostruzione dei fatti effettuata nel processo verbale di constatazione redatto dell’Agenzia delle Entrate, tenuto conto altresì del fatto che, per un verso, nel caso di specie, sarebbe stato utilizzato il contenuto del verbale di accertamento senza avvisare il contribuente del fatto che dal controllo era subito emersa l’utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti con la conseguenza che la violazione dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen. avrebbe determinato l’inutilizzabilità del verbale suddetto, per altro verso, il primo giudice avrebbe utilizzato il contenuto del verbale facendo anche menzione delle dichiarazioni del contribuente, indicando che questi, richiesto di fornire la documentazione comprovante le prestazioni indicate in fattura, aveva dichiarato di non aver sottoscritto alcun contratto con la società fornitrice del servizio di pulizia e di non possedere altra documentazione diversa dalle fatture; 2) violazione di legge con riferimento all’art. 2 d.lgs. 74/2000 lamentandosi che i giudici del merito, nell’utilizzare gli unici elementi di prova rappresentati dalle dichiarazioni del teste dell’Agenzia delle Entrate e dal verbale di contestazione, non avrebbero considerato alcuni dati fattuali, puntualmente indicati, sottoposti alla loro attenzione; 3) e 4) violazione di legge e vizio di motivazione in punto di determinazione della pena rappresentando come il primo giudice avrebbe sostanzialmente fatto riferimento alle violazioni previste dall’art. 4 d.lgs. 74/2000 e non anche all’art. 2 oggetto di contestazione, incorrendo in una violazione dell’art. 522 cod. proc. pen., nonché lamentandosi anche della eccessività della pena e dell’errata valutazione dei criteri direttivi di cui all’art. 133 cod. pen.; 5) violazione di legge rappresentandosi a tal proposito la sussistenza del vincolo della continuazione tra il reato contestato ed altri già giudicati coevi a quelli contestati.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il ricorso era considerato inammissibile per le seguenti ragioni.
Si osservava a tal proposito innanzitutto che, con riferimento al primo motivo di ricorso, la questione relativa all’utilizzazione processuale dei risultati probatori acquisiti nell’ambito di attività ispettive o di vigilanza, tra cui è compreso anche il processo verbale di contestazione di cui qui si discuteva nella fattispecie in esame, era stata più volte affrontata dalla giurisprudenza della Cassazione, formulando principi secondo i quali la natura del «verbale di costatazione», redatto da personale della Guardia di Finanza o dai funzionari degli Uffici Finanziari, rilevando che esso è qualificabile come documento extraprocessuale ricognitivo di natura amministrativa e, in quanto tale, acquisibile ed utilizzabile ai fini probatori ai sensi dell’art. 234 cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 54379 del 23/10/2018; Sez. 3, n. 6881 del 18/11/2008; Sez. 3, n. 6218 del 17/4/1997; Sez. 3, n. 4432 del 10/4/1997; Sez. 3, n. 1969 del 21/1/1997; Sez. 3, n. 6251 del 15/5/1996).
Oltre a ciò, era altresì fatto presente che, da una parte, tale verbale, però, non è un atto processuale poiché non è previsto dal codice di rito o dalle norme di attuazione (art. 207), ne’ può essere qualificato quale «particolare modalità di inoltro della notizia di reato» (art. 221 disp. att. cod. proc. pen.), in quanto i connotati di quest’ultima sono diversi, dall’altra, nel momento in cui emergono indizi di reato e non meri sospetti, occorre però procedere secondo le modalità prescritte dall’art. 220 disp. att. cod. proc. pen, con la conseguenza che la parte di documento, compilata prima dell’insorgere degli indizi, ha sempre efficacia probatoria ed è utilizzabile, mentre non è tale quella redatta successivamente, qualora non siano state rispettate le disposizioni del codice di rito tenuto conto che la richiamata disposizione stabilisce che «quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice».
A fronte di quanto appena esposto, era inoltre rilevato che la Corte di Cassazione ha pure osservato (Sez. 3, n. 27682 del 17/06/2014) come, dalla semplice lettura della norma, emerga che essa presuppone, per la sua applicazione, un’attività di vigilanza o ispettiva in corso di esecuzione specificamente prevista da disposizioni normative e la sussistenza di indizi di reato emersi nel corso dell’attività medesima e solo in tal caso è richiesta l’osservanza delle disposizioni del codice di rito, ma soltanto per il compimento degli atti necessari all’assicurazione delle fonti di prova ed alla raccolta di quanto altro necessario per l’applicazione della legge penale, rilevandosi al contempo che, da una parte, nella medesima decisione si è fatto anche rilevare come la disposizione, che va letta in relazione anche al successivo art. 223, relativo alle analisi di campioni da effettuare sempre nel corso di attività ispettive o di vigilanza ed alle garanzie dovute all’interessato, abbia lo scopo evidente di assicurare l’osservanza delle disposizioni generali del codice di rito dal momento in cui, in occasione di controlli di natura amministrativa, emergano indizi di reato, ricordando anche quella giurisprudenza secondo la quale presupposto dell’operatività della norma non è l’insorgenza di una prova indiretta quale indicata dall’art. 192 cod. proc. pen., quanto, piuttosto, la sussistenza della mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall’inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata (Sez. 2, n. 2601 del 13/12/2005; Sez. U, n. 45477 del 28/11/2001. V. anche Sez. 3, n. 31223 del 4/6/2019), dall’altra, più recentemente, si è anche avuto modo di precisare ulteriormente che, tenendo conto del dato letterale dell’art. 220, risulta chiaramente che lo stesso si riferisce ad indizi di reato che emergono “nel corso” delle attività ispettive o di vigilanza, il che porta, per la Cassazione, ad affermare che la cognizione circa la sussistenza di indizi di reità, ancorché non riferibili ad un soggetto specifico, deve risultare oggettivamente evidente a chi opera mentre effettua tale attività e non deve essere soltanto ipotizzata sulla base di mere congetture, né può ritenersi possibile, dopo che un reato è stato accertato, sostenere che chi effettuava il controllo avrebbe dovuto prefigurarsi quale ne sarebbe stato l’esito (Sez. 3, n. 16044 del 28/2/2019, non massimata sul punto).
Chiarito ciò, gli Ermellini evidenziavano oltre tutto come la giurisprudenza sempre della Cassazione si sia anche ripetutamente pronunciata sulle conseguenze della eventuale inosservanza della disposizione in esame, chiarendo che essa non determina automaticamente l’inutilizzabilità dei risultati probatori acquisiti nell’ambito di attività ispettive o di vigilanza, ma è necessario che l’inutilizzabilità o la nullità dell’atto sia autonomamente prevista dalle norme del codice di rito a cui l’art. 220 disp. att. rimanda e che, diversamente opinando, si giungerebbe a ritenere l’inutilizzabilità di tutti i risultati probatori e gli altri risultati della verifica dopo la comunicazione della notizia di reato, situazione, all’evidenza, priva di fondamento, facendone conseguire da ciò che, dunque, non può dedursi la generica violazione dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen., essendo necessaria la specifica indicazione della violazione codicistica che avrebbe determinato l’inutilizzabilità con riguardo ai singoli atti compiuti e riportati nel processo verbale di constatazione redatto dalla medesima (Sez. 3, n. 54379 del 23/10/2018; Sez. 3, n. 6594 del 26/10/2016. V. anche Sez. 3, n. 5235 del 24/05/2016).
Orbene, declinando i criteri ermeneuti sin qui enunciati rispetto al caso di specie, i giudici di piazza Cavour notavano come il ricorrente si fosse limitato ad una generica censura di inutilizzabilità del processo verbale di contestazione, senza indicare, come invece richiesto dalle richiamate pronunce, quali specifici atti sarebbero stati inutilizzabili in conseguenza della dedotta violazione dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen. e neppure aveva posto in evidenza quando sarebbero risultati evidenti gli indizi di reato che tale disposizione avrebbero reso applicabile nella fattispecie avendo il ricorrente affermato che una condotta penalmente rilevante, quale quella dell’utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, sarebbe emersa senza che il contribuente fosse avvisato di tale circostanza, ma, secondo il Supremo Consesso, non specificava quando e come ciò sarebbe avvenuto, risultato evidente, da quanto specificato nella sentenza impugnata, che la oggettiva inesistenza delle fatture era emersa all’esito di plurimi accertamenti, come si dirà anche in seguito.
Per la Suprema Corte, di conseguenza, la Corte del merito, dunque, aveva posto in evidenza la sostanziale genericità della censura, genericità che caratterizzava, per le ragioni dette in precedenza, anche il motivo di ricorso in esame.
Ciò posto, per quanto concerne il secondo motivo di ricorso, attinente alla sussistenza gli elementi costitutivi del reato contestato, veniva rilevato – una volta fatto presente come nella sentenza impugnata venisse dato conto della sussistenza i plurimi elementi convergenti chiaramente indicativi della oggettiva inesistenza delle operazioni indicate nelle fatture e della circostanza che la decisione del primo giudice era fondata sulle dichiarazioni rese dalla funzionaria dell’Agenzia delle entrate e sulla documentazione acquisita nel corso delle indagini e prodotta in giudizio del Pubblico Ministero – che la decisiva valenza probatoria di tali elementi fattuali era stata, per la Corte di legittimità, motivatamente riconosciuta anche dalla Corte territoriale la quale, dal canto suo, aveva anche posto in evidenza la genericità delle doglianze formulate dalla difesa le quali, prospettate anche nel motivo di ricorso in esame, attenevano tutte a circostanze di fatto che non potevano essere oggetto di autonoma valutazione in sede di legittimità.
Detto questo, per gli Ermellini, manifestamente infondati risultavano essere anche il terzo e quarto motivo di ricorso relativi alla determinazione della pena in quanto, a loro avviso, da un lato, la Corte di Appello aveva espressamente escluso che vi fosse stata modifica dell’originaria imputazione da parte del primo giudice, implicitamente richiamando quanto riportato in precedenza circa il trattamento sanzionatorio da questi applicato, riguardo al quale era fatto riferimento alla continuazione interna, a causa dell’utilizzo fraudolento delle fatture, sia per la dichiarazione Iva sia per quella IRES, ritenendo più grave la prima violazione, dall’altro, sulla dosimetria della pena, la Corte territoriale aveva espresso un coerente giudizio di congruità richiamando il precedente penale specifico unitamente alla mancanza di comportamenti riparatori che avevano giustificato il diniego delle circostanze attenuanti generiche e rilevando come la pena base fosse stata quantificata in misura molto prossima al minimo edittale, giungendo ad una pena finale ritenuta assai modesta e, comunque, proporzionata alla oggettiva gravità del fatto ed alla personalità dell’imputato.
Da ultimo, per ciò che riguardava, infine, la questione relativa al possibile riconoscimento della continuazione tra i fatti per cui era processo e quelli già giudicati, di cui trattava l’ultimo motivo di ricorso, occorreva per la Corte rilevare non soltanto la genericità della doglianza, priva di qualsiasi riferimento ai fatti già giudicati ed agli estremi della relativa sentenza, ma anche il fatto che di tale richiesta non vi era alcuna traccia nei motivi di appello riportati nella sentenza impugnata trattandosi, anche in questo caso, valutazioni immuni da censure e del tutto conformi al dettato dell’art. 133 cod. pen..
Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante specialmente nella parte in cui è ivi chiarito quando il «verbale di costatazione» redatto dalla Guardia di Finanza o dai funzionari degli Uffici Finanziari ha efficacia probatoria.
Difatti, in tale pronuncia, sulla scorta di plurimi precedenti conformi emessi sempre dalla Cassazione in subiecta materia, è affermato – dopo essersi fatto presente che la natura del «verbale di costatazione», redatto da personale della Guardia di Finanza o dai funzionari degli Uffici Finanziari, rilevando che esso è qualificabile come documento extraprocessuale ricognitivo di natura amministrativa e, in quanto tale, acquisibile ed utilizzabile ai fini probatori ai sensi dell’art. 234 cod. proc. pen. e che tale verbale, però, non è un atto processuale poiché non è previsto dal codice di rito o dalle norme di attuazione (art. 207), né può essere qualificato quale «particolare modalità di inoltro della notizia di reato» (art. 221 disp. att. cod. proc. pen.), in quanto i connotati di quest’ultima sono diversi – come, nel momento in cui emergono indizi di reato e non meri sospetti, occorra procedere secondo le modalità prescritte dall’art. 220 disp. att. cod. proc. pen, con la conseguenza che la parte di documento, compilata prima dell’insorgere degli indizi, ha sempre efficacia probatoria ed è utilizzabile, mentre non è tale quella redatta successivamente, qualora non siano state rispettate le disposizioni del codice di rito fermo restando che la cognizione circa la sussistenza di indizi di reità, ancorché non riferibili ad un soggetto specifico, deve risultare oggettivamente evidente a chi opera mentre effettua tale attività e non deve essere soltanto ipotizzata sulla base di mere congetture, né può ritenersi possibile, dopo che un reato è stato accertato, sostenere che chi effettuava il controllo avrebbe dovuto prefigurarsi quale ne sarebbe stato l’esito.
Ciò posto, tale provvedimento rileva una particolare rilevanza anche perché in esso è ulteriormente precisato, sempre sulla scorta di un pregresso orientamento nomofilattico, che tale inutilizzabilità non ricorre sempre e comunque, occorrendo per contro che l’inutilizzabilità o la nullità dell’atto sia autonomamente prevista dalle norme del codice di rito a cui l’art. 220 disp. att. rimanda, in guisa tale che non può dedursi la generica violazione dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen., essendo necessaria la specifica indicazione della violazione codicistica che avrebbe determinato l’inutilizzabilità con riguardo ai singoli atti compiuti e riportati nel processo verbale di constatazione redatto dalla medesima.
Tale sentenza, di conseguenza, per i considerevoli approfondimenti ermeneutici ivi compiuti, deve essere presa nella dovuta considerazione ove si debba verificare la valenza probatoria di un verbale di tal fatta.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta decisione, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su siffatta tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.
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