Fatto
A seguito della morte del loro congiunto, gli eredi dello stesso citavano in giudizio l’Azienda Ospedaliera ove, dopo l’accesso al pronto soccorso, egli era stato ricoverato per un dolore all’arto sinistro, per sentire dichiarare dal Giudice di prima istanza la responsabilità dell’Azienda Ospedaliera nella morte del loro congiunto e contestualmente sentirsi riconoscere il diritto al risarcimento dei danni per le sofferenze patite dal de cuius collegate all’omissione delle cure mediche e per la perdita della vita, nonché dei danni conseguenti alla perdita parentale.
In via subordinata gli eredi chiedevano al Giudice di prime cure di accertare la responsabilità dell’Azienda Ospedaliera per la perdita di chances di sopravvivenza con condanna della stessa al relativo risarcimento del danno.
Il Tribunale, recependo le conclusioni della CTU, rigettava la domanda proposta da parte attrice, la quale ravvisando nella consulenza tecnica errori e congruenze, decideva di appellare la sentenza di primo grado chiedendo anche in seconda istanza che venisse riconosciuta in capo all’Azienda Ospedaliera la responsabilità per la morte del congiunto e unitamente il diritto al risarcimento dei danni sofferti.
L’Azienda Ospedaliera contestando in fatto e in diritto quanto sostenuto da parte attrice si costituiva in giudizio, chiedendo il rigetto dell’appello con conferma integrale della sentenza di I grado.
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In particolare, viene dedicato ampio spazio al tema del nesso di causalità (che riveste caratteristiche peculiari, dovendo essere valutato con riferimento ad una condotta di carattere omissivo da parte del soggetto agente), nonché alla tipologia di danni che possono derivare da una ritardata o omessa diagnosi (con particolare attenzione al danno da perdita di chance e a quello per nascita indesiderata) ed ai soggetti che possono invocare la tutela giudiziaria per ottenere il risarcimento.
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La decisione della Corte d’Appello
I Giudici della Corte d’Appello, dopo aver disposto una nuova CTU, si sono pronunciati riconoscendo un nesso di causalità tra la condotta dei sanitari e l’evento morte del paziente, ed hanno accertato a tal riguardo la responsabilità dei medici, e quindi della struttura ospedaliera, per la morte del paziente.
La Corte d’Appello nella fase decisoria ha ripercorso le fasi che hanno portato alla morte del paziente, ricordando come quest’ultimo era stato ricoverato presso il reparto di Neurochirurgia dell’Ospedale citato in giudizio, per un intervento di laminectomia decompressiva L2-L5, e come, qualche settimana dopo, lo stesso veniva ricoverato, dopo essersi presentato in pronto soccorso, presso la medesima struttura, a seguito di un improvviso e violento dolore all’arto inferiore sinistro.
Nonostante la serie di accertamenti a cui era stato sottoposto ed in base ai quali i medici avevano escluso una qualsiasi ipotesi di infezione locale del sito chirurgico rachideo o delle vicinanze, qualche giorno dopo veniva riscontrata al paziente un’insufficienza renale e veniva accertata una trombosi venosa profonda. Qualche giorno dopo il paziente moriva a seguito di uno shock settico.
Secondo i periti a cui la Corte d’Appello ha affidato la consulenza tecnica, i medici che si occuparono del de cuius al momento dell’ingresso in pronto soccorso si concentrarono a cercare una relazione fra la sintomatologia acuta lamentata dal soggetto ed il recente intervento chirurgico alla colonna a cui era stato sottoposto il paziente, sottovalutando l’attinenza fra la sintomatologia rappresentata e il quadro patologico al ginocchio sinistro (visivamente tumefatto), tenuto conto delle infiltrazioni con acido ialuronico più lidocaina che erano state fatte.
Al momento dell’accesso al pronto soccorso a seguito del dolore accusato dal de cuius al ginocchio sinistro, il medico ortopedico che lo prese in cura escluse la possibilità di una relazione del quadro clinico con il processo degenerativo articolare del ginocchio e concluse che la sola terapia da eseguire per la patologia di detto distretto fosse quella antinfiammatoria ed antidolorifica, oltre a quella topica.
Dagli esami ematochimici eseguiti, però, dal paziente risultò un netto aumento del numero dei globuli bianchi con neutrofilia. Questo dato avrebbe dovuto far pensare, secondo i consulenti tecnici, ad un possibile evento infiammatorio-infettivo del ginocchio sinistro, tenuto anche conto del fatto che non vi erano problematiche infettivo- infiammatorie localizzabili alla colonna lombare dove il paziente era stato precedentemente operato. La stessa insufficienza renale che si presentò poco dopo il ricovero in pronto soccorso avrebbe dovuto far ipotizzare al medico un fenomeno infiammatorio – infettivo in atto.
I consulenti, poi, avevano precisato che il paziente era affetto da una condizione clinica sierologica la quale è potenzialmente causa di un aumento del rischio infettivo nei pazienti che ne soffrono, riconducendo a questo la rapidità con cui si è evoluto il quadro settico del paziente, risultato fatale.
In considerazione, quindi, di quanto emerso dalla consulenza tecnica d’ ufficio, la Corte d’Appello ha concluso ravvisando la responsabilità dei sanitari nella morte del de cuius per omessa tempestiva diagnosi di un processo infettivo in atto localizzato nel ginocchio sinistro, in presenza di una serie di elementi tali che avrebbero dovuto indurre i predetti sanitari alla corretta diagnosi (avendo i medici, altresì, mancato di prendere in considerazione la patologia della quale il de cuius soffriva) nonché per la conseguente omessa corretta terapia antibiotica al paziente.
In ragione della domanda avanzata dagli appellanti di risarcimento del danno, la Corte d’Appello – per quanto qui di interesse – ha riconosciuto il diritto di questi ad essere risarciti per il danno legato alla perdita del rapporto parentale, non anche però al risarcimento iure hereditatis del danno “biologico terminale”, in quanto gli appellanti vi avevano espressamente rinunciato nel ricorso in appello.
Preliminarmente, la Corte si è comunque soffermata sul danno biologico terminale, ripercorrendo quanto definito sul punto dalla Corte di Cassazione, secondo cui il danno biologico terminale si identifica nella duplice componente di danno biologico “terminale”, cioè di danno biologico da invalidità temporanea assoluta, e di danno morale, consistente nella sofferenza patita dal danneggiato che lucidamente e coscientemente assiste allo spegnersi della propria vita. La liquidazione equitativa del danno in questione va effettuata commisurando la componente del danno biologico all’indennizzo da invalidità temporanea assoluta e valutando la componente morale del danno non patrimoniale mediante una personalizzazione che tenga conto dell’entità e dell’intensità delle conseguenze derivanti dalla lesione della salute in vista del prevedibile esito.
I Giudici di legittimità hanno, poi, aggiunto che la perdita della vita, quando la morte avviene nell’immediato o dopo pochissimo tempo dalle lesioni, di per sé non è risarcibile quale danno subito in proprio dalla persona deceduta, lo è, invece, quando la morte avviene dopo un apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni. In questo caso si parla di danno biologico c.d. terminale. A questo danno biologico terminale può aggiungersi un danno morale, ovvero il danno consistente nella sofferenza provocata dalla consapevolezza di dovere morire, risarcibile soltanto se la vittima sia stata in grado di comprendere che la propria fine era imminente. Tale consapevolezza è condizione necessaria per poter accertare l’esistenza di questa forma di danno.
Infine, la Corte territoriale ha riconosciuto agli attori il risarcimento del danno per la perdita del rapporto parentale, in considerazione dello stretto rapporto di parentela che esisteva fra questi e il paziente deceduto (in particolare, si trattava di figli e moglie del deceduto), ed ha applicato, per la sua liquidazione, le apposite tabelle del Tribunale di Milano aggiornate al 2021.
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