Le Sezioni Unite sulle misure di prevenzione

La Corte di Cassazione afferma che in tema di misure di prevenzione patrimoniale, il rimedio esperibile avverso il provvedimento definitivo di confisca fondato sulla pericolosità generica, ex art. 1, d.lgs., n. 159/2011 è la richiesta di revocazione. Inoltre, la Corte, per far valere gli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale pronunciata con sentenza n. 24 del 2019, è tenuta all’annullamento senza rinvio della sola misura fondata, in via esclusiva, sull’ipotesi di cui all’art. 1.

Indice:

  1. Il fatto
  2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
  3. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
  4. La posizione assunta dalla Procura generale presso la Corte di Cassazione
  5. Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite
  6. Conclusioni

Il fatto

La Corte di Appello di Brescia dichiarava inammissibile un’istanza proposta ai sensi dell’art. 28, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159.

In particolare, l’istanza de qua era finalizzata alla revocazione della confisca dei beni immobili, dei beni mobili registrati, dei conti correnti e di altri beni oggetto del provvedimento di confisca adottato dal Tribunale di Monza con decreto sull’assunto della sussistenza dei requisiti di cui alle lettere a) e b) dell’art. 1, d.lgs. n. 159 del 2011.

A sostegno della domanda, l’istante aveva infatti dedotto, quale elemento di novità, la sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019 che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, d.lgs. n. 159 del 2011 nella parte in cui stabilisce che la misura di prevenzione della confisca di cui agli artt. 20 e 24 d.lgs. cit., si applichi anche ai soggetti indicati dall’art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. cit..

Ciò posto, a fondamento della pronuncia di inammissibilità, la Corte di appello di Brescia aveva osservato come la revocazione della confisca possa essere chiesta nei soli tre casi tassativamente stabiliti dall’art. 28, comma 1, d.lgs. n. 159 del 2011 posto che il comma 2 della medesima disposizione non prevede un ulteriore e generale caso di revocazione della confisca, ma, così come il comma 3, pone limiti alla proposizione dell’istanza con riguardo al contenuto e al tempo della proposizione stessa.

Di conseguenza, osservava conclusivamente la Corte di Appello di Brescia, l’istanza in questione non rientrava nei casi di revocazione tassativamente previsti dall’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011.


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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso l’indicato decreto era proposto ricorso per Cassazione con cui era proposte le seguenti doglianze: 1) erronea applicazione dell’art. 28, d.lgs. n. 159 del 2011 e mancanza di motivazione avendo la Corte di Appello, ad avviso del ricorrente, apoditticamente escluso l’indicata sentenza della Corte costituzionale dal novero dei presupposti legittimanti la revocazione.

In particolare, osservava il ricorrente che nel processo penale lo strumento per far valere la pronuncia di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice intervenuta dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna è l’incidente di esecuzione ex art. 673 cod. proc. pen.; strumento, questo, di cui è priva la disciplina delle misure di prevenzione in quanto la riforma del 2011 ha introdotto l’art. 28 cit. in luogo della revoca con la conseguenza che, qualora non si ammettesse allo scopo in questione lo strumento della revocazione, il proposto resterebbe ingiustamente disarmato degli strumenti giuridici necessari a far dichiarare l’illegittimità della misura di prevenzione disposta in applicazione della norma dichiarata incostituzionale successivamente alla definitività del provvedimento ablatorio.

Detto questo, rilevava ancora il ricorso che plurime decisioni della Corte di Cassazione hanno disposto l’annullamento di provvedimenti di confisca disposti sulla base dell’art. 1, lett. a), d.lgs. n. 159 del 2011, anche quando il provvedimento era stato adottato con riguardo altresì alla lett. b) della disposizione indicata.

Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

Investita della cognizione del ricorso, la Prima Sezione penale lo rimetteva alle Sezioni Unite ravvisando un contrasto nella giurisprudenza di legittimità in ordine allo strumento processuale esperibile per affrontare la questione posta dal ricorso.

Nel dettaglio, l’ordinanza di rimessione muoveva dal rilievo secondo cui non potesse dubitarsi che l’esigenza di bilanciare il valore costituzionale del giudicato e quello della libertà personale, a fronte di una sanzione penale dichiarata illegittima, deve estendersi anche alle misure di prevenzione, personali e patrimoniali, in ragione dei principi affermati nella sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019, in quanto una misura di prevenzione patrimoniale applicata senza essere munita di un’idonea piattaforma legale deve ritenersi non conforme all’interpretazione sistematica delineata – anche con riferimento all’art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 159 del 2011 – dalla citata sentenza del giudice delle leggi.

Precisato ciò, la Prima Sezione passava poi in rassegna l’orientamento minoritario che ritiene esperibile l’incidente di esecuzione, orientamento ricollegabile all’insegnamento delle Sezioni Unite circa il potere-dovere del giudice dell’esecuzione di incidere sul giudicato relativo a una decisione rivelatasi illegittima alla luce di una declaratoria di illegittimità costituzionale (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014) mentre l’orientamento maggioritario, invece, ritiene utilizzabile lo strumento della revocazione ex art. 28, d.lgs. n. 159 del 2011; orbene, in questa prospettiva, si riteneva che, a seguito della pronuncia della Corte costituzionale n. 24 del 2019, sia esperibile il rimedio della revocazione avverso il provvedimento definitivo di applicazione della misura fondato sulla pericolosità generica ex art. 1, comma 1, lett. a) e b), d.lgs. cit. al fine di far valere l’illegittimità della previsione di cui alla lettera a), ovvero la non ricorrenza dei presupposti legittimanti la misura nell’ipotesi di cui alla lettera b), secondo i criteri interpretativi indicati dalla Corte costituzionale.

Osservava poi l’ordinanza di rimessione che, nell’ambito dell’orientamento maggioritario, alcune decisioni propendono per la tesi che la Corte di Cassazione non possa pronunciarsi sull’illegittimità della confisca, in quanto l’operazione di riqualificazione della fattispecie di pericolosità risulta possibile a condizione che i materiali istruttori la consentano, il che implica l’esame di questioni di merito.

Altre pronunce, invece, escludono l’annullamento con rinvio del decreto impugnato come conseguenza inevitabile di un giudizio di pericolosità sociale formulato in contrasto con i principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 24 del 2019.

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La posizione assunta dalla Procura generale presso la Corte di Cassazione

A sua volta il Sostituto Procuratore generale concludeva per l’annullamento con rinvio del decreto impugnato osservando che l’effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 159 del 2011 è da assimilare, in sede di prevenzione, all’effetto previsto per le disposizioni di carattere penale incidenti sulla responsabilità o sulla determinazione della pena e giustifica l’intervento del giudice pur in presenza di un giudicato.

Propendendo per l’orientamento maggioritario, la pubblica accusa osservava altresì come non possa essere di ostacolo alla revocazione la mancata previsione dell’ipotesi di declaratoria di illegittimità costituzionale, assenza che legittima un’interpretazione che faccia rientrare tale evenienza nel concetto di “prova nuova” di cui all’art. 28, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 159 del 2011.

Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite

Prima di entrare nel merito della questione, le Sezioni Unite procedevano a delimitarla nei seguenti termini: «Se, in tema di misure di prevenzione patrimoniali, il rimedio esperibile avverso il provvedimento definitivo di confisca, fondato sulla pericolosità generica ex art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, sia, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019 – che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 16 del citato d.lgs. in relazione all’art. 1, comma 1, lett. a), del medesimo decreto – la revocazione ex art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011 ovvero l’incidente di esecuzione. Se la Corte di cassazione, investita del ricorso in materia di confisca di prevenzione definitiva, adottata in relazione alle ipotesi di pericolosità generica ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. a) e lett. b), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, sia tenuta in ogni caso all’annullamento integrale del decreto per richiedere nuova verifica dei criteri adottati».

Ciò posto, gli Ermellini evidenziavano in via pregiudiziale, da un lato, che la proposta applicativa della misura di prevenzione risaliva successivamente alla data di entrata in vigore della normativa introdotta dal d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, sicché, in forza della norma transitoria di cui all’art. 117 di tale d.lgs., la disciplina di riferimento del caso di specie doveva essere rinvenuta nella nuova normativa dettata dal testo unico, rilevandosi al contempo che la giurisprudenza di legittimità – proprio in tema di applicabilità del nuovo istituto della revocazione ex art. 28 d.lgs. n. 159 del 2011 ovvero della revoca ai sensi dell’art. 7 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 – ha affermato che «l’applicazione della nuova disciplina non possa avvenire in tutti i casi in cui la “proposta applicativa” da cui è sorto il procedimento “in quanto tale” sia stata formulata prima del 13 ottobre 2011 e ciò anche nelle ipotesi in cui il procedimento sia nel frattempo definito e si discuta della revoca del provvedimento emesso» (Sez. 1, n. 2945 del 17/10/2013; conf., ex plurimis, Sez. 1, n. 33782 del 08/04/2013), dall’altro che il problema centrale – e pregiudiziale rispetto a quello, affrontato dalle decisioni espressive dei due orientamenti in contrasto, relativo al “come”, ossia all’individuazione del rimedio processuale da attivare per far valere la declaratoria di illegittimità costituzionale – era rappresentato dal “se” tale declaratoria sia idonea a incidere su confische di prevenzione divenute definitive; si tratta, in altri termini, di verificare, se, rispetto alla confisca di prevenzione, alla declaratoria di illegittimità della norma definitoria della figura di pericolosità in base alla quale il provvedimento ablatorio era stato adottato siano associati quei peculiari – o analoghi – effetti “retroattivi” stabiliti dall’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87.

Premesso ciò, i giudici di piazza Cavour ritenevano altresì opportuno precisare i due orientamenti in contrasto, richiamando gli argomenti valorizzati da ciascuno di essi e anche le indicazioni offerte sul problema del “se” cui si è fatto cenno.

Pertanto, era innanzitutto fatto presente che, nell’ambito dell’orientamento maggioritario, Sez. 1, n. 34027 del 01/10/2020, muoveva dal rilievo che «pur non potendosi negare l’esistenza del generale principio per cui la “competenza esecutiva“, intesa come titolarità del potere/dovere di regolamentare eventuali questioni interpretative del giudicato che incidano su diritti soggettivi è da riconoscersi anche nel sistema della prevenzione – in quanto attributo coessenziale alla funzione giurisdizionale – non può, al contempo, riconoscersi l’applicabilità al settore tipico della prevenzione delle singole disposizioni procedimentali contenute nel codice di rito penale in tema di esecuzione, posto che il rinvio alle previsioni di cui all’art. 666 cod. proc. pen. (in quanto compatibili) dettato dal legislatore del Codice Antimafia per la fase della cognizione (art. 7, comma 9, Cod. Ant.) e non riguarda, pertanto, la fase esecutiva».

Ciò posto, osservava la sentenza appena citata, tutte le esigenze di “rivalutazione” di una decisione definitiva emessa in sede di prevenzione sono le stesse correlate sia all’emersione di elementi di fatto, sia a eventi di natura normativa, e devono trovare sede “naturale” di verifica giurisdizionale nei procedimenti con vocazione revocatoria disciplinati nel medesimo d.lgs. n. 159 del 2011, rappresentati dalle procedure di cui all’art. 11 (nell’ipotesi di misura esclusivamente personale) e all’art. 28 (lì dove venga in rilievo, anche in rapporto alla valutazione di pericolosità soggettiva operata in sede di cognizione, la revocazione della confisca).

In particolare, rilevava Sez. 1, n. 34027 del 2020, la procedura di cui all’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011 è lo strumento introdotto dal legislatore al fine di apprezzare il «difetto originario» dei presupposti per l’adozione del provvedimento definitivo e, pur a fronte di una tipizzazione dei casi mutuata dalla disciplina generale della revisione, consente di realizzare, in via interpretativa, il necessario adeguamento del sistema della prevenzione alle particolari sopravvenienze rappresentate dalle conseguenze della sentenza n. 24 del 2019, in parte dichiarativa di illegittimità costituzionale e in parte “interpretativa di rigetto“.

Sempre nella prospettiva della valutazione critica del difforme indirizzo, Sez. 1, n. 20827 del 08/04/2021, ha affermato che la domanda, diretta a ottenere la revoca del provvedimento di confisca definitivo, nei casi di inquadramento del sottoposto nelle categorie di pericolosità di cui all’art. 1, comma 1, lett. a) e lett. b), d.lgs. n. 159 del 2011, in relazione a quanto deciso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 24 del 2019, va qualificata come domanda di revocazione ai sensi dell’art. 28 del d.lgs. citato ed è rimessa alla competenza funzionale della corte di appello e non invece a quella del giudice dell’esecuzione.

In particolare, confrontandosi con il difforme indirizzo, la sentenza n. 20287/2021 ha osservato che «all’incidente di esecuzione – modellato sulla falsariga della previsione di cui all’art. 673 cod. proc. pen. – potrebbe farsi ricorso nelle sole (peraltro infrequenti) ipotesi in cui la disposizione regolatrice della condizione di pericolosità sia stata precisamente individuata in cognizione in quella di cui all’art. 1, comma 1, lett. a) del cod. ant. dichiarata costituzionalmente illegittima», laddove «in tutte le ipotesi in cui il giudice della cognizione – in prevenzione – non risulti aver individuato con assoluta precisione la fattispecie legale di pericolosità o risulti aver compiuto un inquadramento “misto“, è evidente che l’apprezzamento giurisdizionale della “incidenza” del decisum del giudice delle leggi non potrebbe essere quello del mero incidente esecutivo, dovendosi necessariamente riaprire uno spazio cognitivo e valutativo, sia in fatto che in diritto» mentre, quanto all’obiezione relativa all’applicabilità del termine di decadenza di cui all’art. 28, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011, la sentenza n. 20287/2021 ha rilevato come, a fronte della incontestata assenza di una disposizione che regolamenti – nel testo del d.lgs. n. 159 del 2011 – in modo espresso la sopravvenienza di decisioni del giudice delle leggi potenzialmente incidenti sul giudicato, sia il ricorso al modello legale di cui all’art. 28, sia l’ipotesi di applicazione dell’art. 673 cod. proc. pen. (sostenuta dal contrario indirizzo) «realizzano una interpretazione sistematica tesa a colmare una lacuna legislativa», sicché lì dove si ritenga applicabile, per le ragioni esposte, il modello legale di cui all’art. 28 cit., è evidente che si tratta di estrarre sul piano interpretativo dalle previsioni tipiche una «ipotesi affine ed aggiuntiva»; di conseguenza, ad avviso della sentenza, la causa di decadenza ex art. 28, comma 3, cit. «non risulta applicabile a simile caso in quanto testualmente prevista per le sole ipotesi di revocazione ‘tipizzate’ di cui all’art. 28, comma 1, cit., ipotesi che anche sul piano fenomenico rendono sostenibile l’onere di attivazione in capo alla parte privata interessata» fermo restando che un’analoga impostazione era rinvenibile in Sez. 1, n. 20156 del 22/04/2021, e in Sez. 2, n. 36403 del 16/06/2021.


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Terminata la disamina di questo approdo ermeneutico, la Suprema Corte denotava come, al primo orientamento, si siano ricollegate anche Sez. 5, n. 33146 del 08/10/2020, che ha sottolineato come il proposto e il terzo che abbiano partecipato al procedimento, qualora intendano ottenere la revoca, anche parziale, del provvedimento definitivo di confisca, siano tenuti a presentare istanza di revocazione nei limiti e alle condizioni di cui all’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011, e Sez. 1, n. 14825 del 15/01/2021 che si era soffermata sul fondamento normativo dell’attitudine delle statuizioni di cui alla sentenza n. 24 del 2019 a incidere sulla confisca divenuta irrevocabile.

Sempre al primo orientamento, inoltre, era ricondotta pure Sez. 2, n. 33641 del 13/10/2020, secondo cui, a seguito della pronuncia della Corte costituzionale n. 24 del 2019, è esperibile il rimedio della revocazione ex art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011 avverso il provvedimento definitivo di applicazione della misura fondato sulla pericolosità generica di cui all’art. 1, comma 1, lett. a) e b), al fine di far valere l’illegittimità della previsione di cui alla lett. a), ovvero la non ricorrenza dei presupposti legittimanti la misura nell’ipotesi di cui alla lett. b), secondo i criteri interpretativi indicati dalla Corte costituzionale fermo restando che la sentenza appena citata ha pure sottolineato che l’istituto, che permette la rivalutazione delle misure di prevenzione patrimoniali ai fini dell’accertamento dell’idonea base legale pur in presenza di giudicato, è il rimedio della revocazione, istituto precipuamente diretto alla «elisione ex tunc del provvedimento ablativo nel caso di successivo accertamento del difetto dei presupposti come si ricava dalla lettura del secondo comma dell’art. 28 d.lgs 159/2011».

Infine, veniva ricordata, in tema di misura di prevenzione personale, Sez. 1, n. 11661 del 10/01/2020, che, muovendo dalla considerazione della pronuncia della Corte costituzionale n. 24 del 2019 nella parte relativa all’art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 159 del 2011 come sentenza “interpretativa di rigetto” e ricollegandosi alle decisioni delle Sezioni Unite alle quali si deve il processo di erosione dell’intangibilità del giudicato, ha affermato che è “sostanzialmente illegittimo“, in quanto privo di “idonea base legale” e dunque suscettibile di revoca in sede di esecuzione ex art. 11, d.lgs. n. 159 del 2011, il provvedimento di applicazione di una misura fondata sul giudizio di c.d. pericolosità generica, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 159 del 2011, che sia privo di adeguata motivazione circa la sussistenza del triplice requisito – delitti commessi abitualmente dal proposto che abbiano effettivamente generato profitti per il predetto, costituenti l’unico suo reddito o, quantomeno, una componente significativa dello stesso – necessario, alla luce della richiamata sentenza del giudice delle leggi, affinché le condotte sintomatiche di pericolosità possano rientrare in via esclusiva nella lett. b) dell’art. 1 del detto decreto.

Chiarito ciò, prima di esaminare l’altro indirizzo nomofilattico, ad avviso della Suprema Corte, era necessario svolgere una duplice considerazione reputata utile per l’analisi dei problemi rimessi all’esame delle Sezioni Unite.

Da un lato, infatti, era fatto presente come le pronunce, le quali hanno adottato l’orientamento maggioritario, si caratterizzino tutte per la ritenuta incidenza sulle confische irrevocabili della sentenza n. 24 del 2019, sia nella parte in cui ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della lett. a) dell’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 159 del 2011, sia nella parte in cui, con riguardo alla lett. b) della medesima disposizione, il giudice delle leggi si è pronunciato con una sentenza qualificata come interpretativa di rigetto fermo restando però che, come verrà rilevato successivamente, anche le sentenze espressive del secondo orientamento affrontano il problema in esame con riguardo non solo alla lett. a), ma anche alla lett. b) dell’art. 1, comma 1, cit. e, pertanto, sotto questo profilo, le decisioni ascrivibili ai due indirizzi si contrappongono a quelle pronunce secondo cui le sentenze della Corte costituzionale, nella parte in cui dichiarino l’infondatezza della questione sollevata, fornendo indicazioni interpretative che escludano il vizio di incostituzionalità, non consentono la revoca dei provvedimenti definitivi (Sez. 6, n. 29551 del 07/10/2020; in analoga prospettiva, Sez. 6, n. 38077 del 09/05/2019; Sez. 5, n. 38737 del 10/07/2019).

D’altro canto, si notava come una divaricazione argomentativa attraversi le decisioni fin qui esaminate atteso che alcune di esse (in particolare la sentenza n. 20287/2021 della Prima Sezione), mediante la qualificazione del dictum della Corte costituzionale alla stregua di un’«ipotesi affine ed aggiuntiva» rispetto a quelle delineate dall’art. 28, d. Igs. n. 159 del 2011, fanno leva, in buona sostanza, su un’analogia volta a colmare la lacuna legislativa relativa alla «sopravvenienza di decisioni del giudice delle leggi potenzialmente incidenti sul giudicato» (e riconnettono all’«ipotesi affine ed aggiuntiva» l’inapplicabilità del termine di cui al comma 3 dell’art. 28 cit.) mentre altre pronunce (la sentenza n. 33641/2020 della Seconda Sezione), invece, individuano, a fondamento dell’operatività dell’istituto della revocazione con riguardo alle confische interessate dalla sentenza n. 24 del 2019, il comma 2 dell’art. 28, d.lgs. n. 159 del 2011.

Fatte queste considerazioni, gli Ermellini analizzavano il secondo orientamento interpretativo cristallizzato nella sentenza n. 36582 del 28/10/2020 emessa dalla Sez. 6 in cui è stato individuato il rimedio esperibile avverso il provvedimento definitivo di confisca fondato sulla pericolosità generica ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. a) e b), d.lgs. n. 159 del 2011 nell’incidente di esecuzione nel caso in cui si faccia valere il difetto originario dei presupposti per effetto della sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019.

La sentenza appena menzionata, in particolare, ha sottoposto a varie critiche l’orientamento maggioritario favorevole all’individuazione della revocazione ex art. 28, d.lgs. n. 159 del 2011 come rimedio funzionale ad assicurare un “seguito” alla sentenza n. 24 del 2019.

In primo luogo, la pronuncia della Sesta Sezione ha sottolineato che la decisione della Corte costituzionale non è riconducibile ad alcuna delle ipotesi tipizzate dalle lettere a), b) e c) dell’art. 28 cit. e che neppure potrebbe farsi leva sul comma 2 del medesimo articolo, che si limita a precisare che le ipotesi tipizzate possono assumere rilievo solo quando si rivelino tali da mettere in discussione, ab origine, i presupposti fondanti la misura.

Inoltre, il comma 3 dell’art. 28 cit. prevede un termine di decadenza di sei mesi per proporre la richiesta di revocazione il che condurrebbe all’inaccettabile conclusione che «anche l’ipotesi della revocazione volta ad eliminare l’ingiustizia di una decisione fondata su una disposizione ormai espunta dal sistema perché contraria alla Costituzione, dovrebbe ritenersi soggetta ai medesimi limiti temporali di proposizione previsti dal citato comma 3» mentre non potrebbe essere valorizzato, in senso contrario, il riferimento esclusivo del comma 3 ai casi di cui al comma 1, che conferma come il legislatore abbia voluto limitare l’istituto alle sole ipotesi previste dal comma 1.

Rilevava altresì la Sesta Sezione che il rimedio della revocazione mal si addice a «una mera presa d’atto della esistenza di accadimenti successivi al giudicato che ne travolgano la validità, quale quello correlato alla intervenuta illegittimità costituzionale della fattispecie normativa sul quale si fonda la misura».

Di qui il rilievo secondo cui «anche per le misure di prevenzione deve ritenersi che l’intervento sulla misura deve spettare al giudice che ne cura l’esecuzione, recuperando dal codice di rito la normativa di riferimento e dunque adattando a tale procedimento l’incidente di esecuzione», tanto più che la soluzione contestata determinerebbe un’irragionevolezza sistematica in quanto comporterebbe diversi rimedi (e diversi discipline, anche in punto di individuazione del giudice competente) per la revoca della misura di prevenzione personale (art. 11, d.lgs. n. 159 del 2011) e di quella reale (art. 28, d.lgs. 159 del 2011).

Ciò posto, si faceva al contempo presente che, nella stessa prospettiva, Sez. 6, n. 29840 del 22/04/2021 ha ritenuto che il rimedio esperibile per far valere il difetto originario dei presupposti per l’inquadramento del proposto nella categoria di pericolosità generica di cui all’art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 159 del 2011, a seguito della sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019, sia l’incidente di esecuzione e non la revocazione di cui all’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011, evidenziandosi contestualmente come tale sentenza muovi dalla considerazione della generale applicabilità della disciplina del procedimento di esecuzione alla materia delle misure di prevenzione, ove non diversamente disposto, laddove, con riferimento alle misure di prevenzione, non sembra necessario ricorrere al rimedio di cui all’art. 28, d.lgs. n. 159 del 2011, che si fonda su specifici presupposti rispetto ai quali risulta coerente la previsione di un termine per la presentazione della richiesta, mentre non assume autonomo rilievo il comma 2 dell’art. 28 cit..

Osservava poi sempre questa sentenza, da una parte, che, in caso di declaratoria di illegittimità costituzionale, la norma di riferimento è quella di cui all’art. 30, terzo comma, della legge n. 87 del 1953 e, dall’altra, che «nel caso di specie non viene in rilievo una condanna, ma la circostanza che la norma applicata non possa essere applicata dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione, non può non trovare un corrispondente rimedio sul piano esecutivo, non diversamente da quanto ritenuto nei casi di declaratoria di illegittimità costituzionale incidente sulla pena e non direttamente sulla punibilità del fatto».

Orbene, a fronte di quanto sin qui esposto, si notava tra l’altro che, nell’ambito del secondo orientamento, mentre la sentenza n. 36582/2020 operava un generico richiamo alla normativa del codice di rito di riferimento in tema di procedimento di esecuzione (nel quadro di un marcato “parallelismo” rispetto alle vicende riguardanti il sistema penale), la sentenza n. 29840/2021 valorizzava, al fine di sostenere l’incidenza della declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 24 del 2019, per un verso, l’art. 30, terzo comma, della legge n. 87 del 1953 e, per altro verso, il richiamo a Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013, dep. 2014, -e a Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, che, invece, facevano leva sul quarto comma dell’art. 30 della legge n. 87 del 1953 (in forza del quale «Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali»), tenuto conto altresì del fatto che Sez. 6, n. 29840 del 2021, ha oltre tutto osservato che, venendo in rilievo nel caso di specie non una condanna, bensì la circostanza che la norma posta a fondamento della confisca non possa essere applicata dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione, è necessario trovare sul piano esecutivo il corrispondente rimedio, così come ritenuto nei casi di declaratoria di illegittimità costituzionale incidente sulla pena e non direttamente sulla punibilità del fatto, il che impone di scrutinare il titolo esecutivo e di verificare se sullo stesso abbia influito la norma diventata ex tunc ma applicabile.

Ebbene, ad avviso del Supremo Consesso, il riferimento, ai fini della soluzione del problema in esame, all’art. 30, ultimo comma, della legge n. 87 del 1953 – implicitamente sotteso al richiamo alle sentenze n. 18821/2013 e 42858/2014 delle Sezioni unite – non poteva essere condiviso.

Si faceva a tal riguardo presente innanzitutto come la portata della disposizione ora citata sia stata messa a fuoco da alcune decisioni delle Sezioni unite che rappresentano tuttora un punto di riferimento ineludibile per l’esame della portata e dei limiti di applicabilità dell’art. 30 cit..

In particolare, Sez. U, n. 18821 del 2013, dep. 2014, fu chiamata a misurarsi con gli effetti della sentenza n. 210 del 2013 della Corte costituzionale, che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, del dl. 24 novembre 2000, n. 341, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 CEDU e, in tale pronuncia, si sostenne che non poteva essere ulteriormente eseguita, ma doveva essere sostituita con quella di anni trenta di reclusione, la pena dell’ergastolo inflitta in applicazione dell’art. 7, dl. n. 341 cit. all’esito di giudizio abbreviato richiesto dall’interessato nella vigenza dell’art. 30, primo comma, lett. b), della legge n. 479 del 1999 (che disponeva, per il caso di accesso al rito speciale, la sostituzione della sanzione detentiva perpetua con quella temporanea nella misura precisata), anche se la condanna era divenuta irrevocabile prima della dichiarazione di illegittimità della disposizione più rigorosa, in quanto il divieto di dare esecuzione a una sanzione penale contemplata da una norma dichiarata incostituzionale dal Giudice delle leggi esprime un valore che prevale su quello della intangibilità del giudicato e trova attuazione nell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953.

Significativi, nell’iter argomentativo adottato in tale pronuncia, per la Corte, erano due passaggi dato che, per un verso, la sentenza de qua, nella rassegna dei riferimenti costituzionali posti a fondamento della decisione, associò al richiamo agli artt. 13, secondo comma, e 25, secondo comma, Cost., quello alla funzione rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost., che contribuisce a delineare un bilanciamento tra il valore dell’intangibilità del giudicato e altri valori, pure costituzionalmente presidiati, la cui tutela deve ragionevolmente prevalere sul primo, per altro verso, si chiarì che il riferimento alla «norma dichiarata incostituzionale» di cui all’art. 30, ultimo comma, della legge n. 87 del 1953 comprende anche le norme che incidono sul quantum sanzionatorio, in ciò distinguendosi dalla più ristretta portata applicativa dell’art. 673 cod. proc. pen..

Ebbene, osservavano le Sezioni Unite, in questa prospettiva, Sez. U, n. 42858 del 2014, (il cui intervento si ricollegò alla sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui vietava di valutare come prevalente la circostanza attenuante di cui all’art. 73, quinto comma, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, sulla recidiva reiterata ex art. 99, quarto comma, cod. pen.) affermò che, quando, successivamente alla pronuncia di una sentenza irrevocabile di condanna, interviene la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, e quest’ultimo non è stato interamente eseguito, il giudice dell’esecuzione deve rideterminare la pena a favore del condannato pur se il provvedimento “correttivo” da adottare non è a contenuto predeterminato, potendo egli avvalersi di penetranti poteri di accertamento e di valutazione.

Sez. U, n. 42858/2014, ha poi rimarcato il netto discrimen esistente tra abrogazione e declaratoria di illegittimità costituzionale, la prima derivante da una rinnovata e diversa valutazione del disvalore penale di un fatto operata dal Parlamento, la seconda attestante che la norma dichiarata illegittima non avrebbe dovuto essere introdotta nell’ordinamento in considerazione del primato delle norme costituzionali, il che «impone e giustifica la proiezione “retroattiva“, sugli effetti ancora in corso di rapporti giuridici pregressi, già da essa disciplinati, della intervenuta pronuncia di incostituzionalità, la quale certifica la definitiva uscita dall’ordinamento di una norma geneticamente invalida».

In linea di continuità con le pronunce richiamate, gli Ermellini, nella pronuncia qui in commento, citavano Sez. U, n. 37107 del 26/02/2015 la quale ribadito a chiare lettere che per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale sostanziale relativa al trattamento sanzionatorio è necessario rimuovere gli effetti che dalla norma in questione discendono, ossia rivisitare il giudicato di condanna in tutti i casi in cui il rapporto esecutivo non sia esaurito, sicché, in tali casi, il giudicato, da una parte, deve essere “mantenuto“, quanto ai profili relativi alla sussistenza del fatto, alla sua attribuzione soggettiva e alla sua qualificazione giuridica, ma, dall’altra, deve essere “riconformato“, quanto ai profili sanzionatori.

Orbene, per la Corte di legittimità, le indicazioni offerte dalle sentenze nn. 18821/2013, 42858/2014 e 37107/2015 delle Sezioni unite consentono di escludere che l’art. 30 della legge n. 87 del 1953 possa rappresentare la “chiave” per risolvere il problema del “se” la declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 24 del 2019 irradi i propri effetti anche sulla confisca di prevenzione statuita in via definitiva in quanto, se il quarto comma dell’art. 30 cit. trova applicazione in caso di “sentenza di condanna” e, dunque, in presenza di declaratorie di illegittimità costituzionale che abbiano investito fattispecie incriminatrici ovvero norme afferenti al quantum sanzionatorio, pur tuttavia, nell’una e nell’altra direzione, si coglie l’estraneità, rispetto all’ambito applicativo dell’art. 30 cit., della confisca di prevenzione, in nessun modo riconducibile alle tipologie normative ora indicate fermo restando che, alla natura schiettamente penale delle fattispecie prese in considerazione dall’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, si contrappone la riconducibilità della confisca in esame nel «paradigma della prevenzione» (Sez. U, n. 4880 del 26/06/2014) mentre alla funzione tipicamente sanzionatoria delle prime corrisponde, per la seconda, «la specifica finalità di sottrarre il bene al circuito economico originario, recuperandolo anche presso gli aventi causa a titolo universale, in caso di morte del soggetto pericoloso», posto che, pur con il «definitivo sganciamento della misura di prevenzione patrimoniale dalla condizione di attualità della pericolosità sociale», «presupposto ineludibile di applicazione della misura di prevenzione patrimoniale continua ad essere la pericolosità del soggetto inciso, ossia la sua riconducibilità ad una delle categorie soggettive previste dalla normativa di settore ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione» (Sez. U, n. 4880 del 2014).

A fronte di ciò, si osservava del resto che la stessa sentenza n. 24 del 2019 della Corte costituzionale ha rilevato che «le misure di prevenzione personale hanno una chiara finalità preventiva anziché punitiva, mirando a limitare la libertà di movimento del loro destinatario per impedirgli di commettere ulteriori reati, o quanto meno per rendergli più difficoltosa la loro realizzazione, consentendo al tempo stesso all’autorità di pubblica sicurezza di esercitare un più efficace controllo sulle possibili iniziative criminose del soggetto» mentre, con riguardo alla confisca di prevenzione, pur accostandola sul piano finalistico alla “confisca allargata” di cui all’art. 240-bis cod. pen., ne ha evidenziato l’estraneità allo statuto costituzionale e convenzionale delle pene, sottolineando, anche alla luce delle argomentazioni svolte da Sez. U, n. 20287/2021., che l’ablazione costituisce non già una sanzione, quanto piuttosto la naturale conseguenza dell’illecita acquisizione dei beni che ne formano oggetto.

Orbene, per la Suprema Corte, l’irriducibile differenza tra le norme penali in relazione alle quali l’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 attribuisce alla declaratoria di illegittimità costituzionale i peculiari effetti “retroattivi” esaminati e le norme disciplinanti la confisca di prevenzione, tra le quali quelle concernenti le singole categorie di pericolosità, ed esclude quindi che l’incidenza sulle misure ablative disposte in forza della norma dichiarata incostituzionale dalla sentenza n. 24 del 2019 e divenute irrevocabili possa essere sostenuta sulla base dello stesso art. 30 cit.; rilievo, questo, che, ad avviso delle Sezioni unite,  priva l’impostazione seguita dal secondo orientamento della base normativa sulla quale fa leva e, con essa, della possibilità di condividere l’individuazione dell’incidente di esecuzione quale rimedio attivabile per dare “seguito” alla pronuncia della Corte costituzionale nel caso in esame.

Detto questo, era inoltre rilevato come, tra le sentenze espressive del primo orientamento, il tema dell’individuazione del fondamento dell’idoneità della declaratoria di illegittimità costituzionale a incidere su una confisca di prevenzione divenuta definitiva sia stato affrontato da Sez. 1, n. 14825 del 2021, che ne proiettava la soluzione su un duplice piano.

Per un verso, infatti, la sentenza appena citato ha stimato non opponibile il limite delle “situazioni esaurite” dovendosi dare ampia espansione al terzo comma dell’art. 30 della legge n. 87 del 1953, deducendosi al contempo che il riferimento al terzo comma dell’art. 30 cit. non è persuasivo perché se alla normativa sulla confisca di prevenzione non è applicabile la disciplina speciale e, per così dire, “rafforzata” del quarto comma dell’art. 30 cit., l’incidenza della declaratoria di illegittimità costituzionale statuita dalla sentenza n. 24 del 2019 sulla confisca definitiva non può certo essere sostenuta sulla base della disciplina generale dettata dal terzo comma del medesimo art. 30, rilievo, questo, considerato valido anche per il riferimento alla disposizione menzionata operato, come si è visto, da Sez. 6, n. 29840 del 2021, insieme con il richiamo alle menzionate sentenze delle Sezioni Unite.

Per altro verso, la sentenza n. 14825/2021 ha fatto leva sulle peculiarità del “giudicato di prevenzione” osservando che «il particolare carattere del giudicato di prevenzione (forma di preclusione sui generi, posto che attiene all’avvenuto riconoscimento di una condizione soggettiva, più che di un fatto, secondo gli insegnamenti derivanti da Sez. U n. 18 del 1996) agevola, sul piano dogmatico, il riconoscimento della sua cedevolezza – qui in bonam – derivante da rivisitazioni della ‘base legale’ che aveva determinato l’affermazione della pericolosità».

Ebbene, per gli Ermellini, il tema toccato è di sicuro rilievo e richiede un approfondimento.

A tal riguardo era reputato un utile punto di partenza per tale approfondimento una pronuncia delle Sezioni Unite relativa alla confisca penale ex art. 240, secondo comma, n. 2, cod. pen., vale a dire Sez. U, n. 2 del 28/01/1998, il quale affermò che, poiché, nel momento del passaggio in giudicato della sentenza che la dispone, alla misura di sicurezza patrimoniale della confisca consegue un istantaneo trasferimento a titolo originario in favore del patrimonio dello Stato del bene che ne costituisce l’oggetto, la successiva invalidazione della norma incriminatrice per intervenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale, operando su una situazione giuridica che deve considerarsi ormai esaurita, non può comportare il venir meno di tale effetto in applicazione dell’art. 673 cod. proc. pen..

Orbene, si denotava come, in quell’occasione, la Corte avesse ritenuto corretta la decisione del giudice dell’esecuzione che aveva rigettato la richiesta di revoca della confisca penale disposta con la sentenza dichiarativa della prescrizione della contravvenzione di cui all’art. 708 cod. pen. la quale era passata in giudicato precedentemente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di tale disposizione sancita dalla sentenza n. 370 del 1996 della Corte costituzionale, reputandosi significativo, nel percorso argomentativo ivi adottato, è il riferimento alla fondamentale disciplina in tema di effetti temporali delle pronunce di illegittimità costituzionale dettata dal citato art. 30 della legge n. 87 del 1953 poichè le Sezioni Unite esclusero l’attinenza rispetto alla questione sottoposta al loro esame di tale disciplina e, segnatamente, dell’ultimo comma dell’art. 30 cit.; esclusione, questa, argomentata con la «considerazione del duplice dato letterale che connota la disposizione in parola, avente riguardo solo a pronunce di “condanna” e ad “effetti penali” delle stesse» trattandosi, per la Corte, di dati letterali non riferibili alla confisca di cui all’art. 240 cod. pen..

Oltre a ciò, era altresì evidenziato che, pur ribadendo adesione al principio di diritto affermato dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 2/1998, Sez. U, nella decisione n. 57 del 19/12/2006, si erano discostate da esso in ragione della natura – non già penale, ma di prevenzione – della confisca che veniva in rilievo nel caso esaminato.

Secondo la sentenza n. 57/2006, invero, il provvedimento di confisca deliberato ai sensi dell’art. 2-ter, terzo comma, della legge 31 maggio 1975, n. 575 è suscettibile di revoca ex tunc a norma dell’art. 7, secondo comma, della legge n. 1423 del 1956, allorché sia affetto da invalidità genetica e debba, conseguentemente, essere rimosso per rendere effettivo il diritto, costituzionalmente garantito, alla riparazione dell’errore giudiziario, non ostando al relativo riconoscimento l’irreversibilità dell’ablazione determinatasi, che non esclude la possibilità della restituzione del bene confiscato all’avente diritto o forme comunque riparatorie della perdita patrimoniale da lui ingiustificatamente subita.

In particolare, centrale, nell’argomentare della sentenza n. 57/2006, era stata la sottolineatura – alla luce della disciplina allora vigente – del rapporto di “accessorietà” della confisca rispetto alla misura di prevenzione personale la cui revoca era disciplinata dall’art. 7 della legge n. 1423 del 1956 fermo restando che l’analisi ivi intrapresa si saldava con quella proposta da Sez. U, n. 18 del 10/12/1997, dep. 1998, giacchè, muovendo dal rilievo che la revoca della misura di prevenzione disciplinata dall’art. 7 della legge n. 1423 del 1956 riguarda sia la revoca con efficacia ex nunc, dovuta alla sopravvenuta cessazione di pericolosità del prevenuto, sia quella con efficacia ex tunc, resa nei casi di accertamento dell’insussistenza originaria della pericolosità anche per motivi emersi dopo l’applicazione della misura, Sez. U, in una sentenza emessa il 10/12/1997, affermò che l’istituto della revisione, così come previsto dagli artt. 629 e seguenti cod. proc. pen., non può operare in via analogica con riguardo ai provvedimenti applicativi di misure di prevenzione adottati ai sensi della legge n. 1423 del 1956, in quanto l’interesse che dovrebbe essere tutelato dall’istituto della revisione – interesse al riconoscimento dell’insussistenza originaria delle condizioni che legittimano l’adozione del provvedimento di applicazione della misura di prevenzione – può essere tutelato appunto dall’istituto della revoca previsto dall’art. 7, secondo comma, della citata legge.

Sviluppando, con specifico riferimento alla misura di prevenzione della confisca, questa prospettiva, la successiva (e già richiamata) Sez. U, n. 57/2006 chiarì che «vi è un’incompatibilità strutturale tra la revoca ex nunc e la misura della confisca, essendo questa revoca ex nunc ipotizzabile soltanto per le misure di prevenzione di cui è costante l’esecuzione al momento in cui viene avanzata la relativa istanza», laddove «tale incompatibilità è invece inesistente, quando venga avanzata una richiesta di revoca con effetti ex tunc, in contemplazione di una invalidità genetica del provvedimento».

Per la Corte di legittimità, di conseguenza, la centralità rivestita dall’art. 7 della legge 1423 del 1956 si coglie ponendo mente alla peculiare configurazione del “giudicato di prevenzione” delineata, appunto sulla base dell’istituto della revoca, dalla giurisprudenza di legittimità e, segnatamente, muovendo dalla valorizzazione del secondo comma dell’art. 7 cit., Sez. U, n. 36 del 13/12/2000, dep. 2001, individuò i limiti degli effetti preclusivi derivanti da quello che solo impropriamente poteva definirsi “giudicato di prevenzione” nel rilievo dell’immutabilità solo rebus sic stantibus del provvedimento applicativo; dal carattere strumentale della misura di prevenzione, nel quale è insita la sua provvisorietà, discende, nella ricostruzione di Sez. U, n. 36/2001, «l’affinità strutturale e sistematica con le misure cautelari per il comune carattere di strumentalità e provvisorietà in quanto decisioni “allo stato degli atti” non immutabili», tenuto conto altresì del fatto che già Sez. U, n. 18 del 03/07/1996, – richiamata da Sez. 1, n. 14825 del 2021 – aveva affermato che, nel procedimento di prevenzione, la preclusione derivante dal giudicato opera sempre rebus sic stantibus e, pertanto, non impedisce la rivalutazione della pericolosità ove sopravvengano nuovi elementi; principio di diritto, questo, ribadito da Sez. U, n. 600 del 29/10/2009, fino alla vigilia dell’introduzione del c.d. codice antimafia; anche successivamente ad essa, peraltro, l’operatività solo rebus sic stantibus della preclusione collegata al “giudicato di prevenzione” è stata ribadita dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. 6, n. 53941 del 03/10/2018; Sez. 1, n. 47233 del 15/07/2016).

Orbene, in relazione a quanto sin qui enunciato, per gli Ermellini, la configurazione del giudicato di prevenzione come “giudicato debole“, per riprendere il sintagma coniato nel dibattito dottrinale, deve essere, però, rivalutata, con riferimento alla confisca, alla luce del quadro normativo delineato dal d.lgs. n. 159 del 2011 posto che, con riguardo alle misure di prevenzione personali, l’art. 11 del d.lgs. n. 159 del 2011 riprende pressoché alla lettera l’art. 7 della legge n. 1423 del 1956 sicché, su questo terreno, valgono ancora le conclusioni raggiunte dalle Sezioni Unite in ordine al “giudicato di prevenzione” e, segnatamente, all’operatività solo rebus sic stantibus della preclusione ad esso collegata.

Con riguardo, dunque, alle misure di prevenzione personali, il fondamento dell’incidenza sul giudicato della declaratoria di illegittimità costituzionale statuita dalla sentenza n. 24 del 2019 della Corte costituzionale può essere, per la Cassazione, senz’altro individuato nella circoscritta forza preclusiva del giudicato stesso, mentre lo strumento processuale attraverso il quale far valere gli effetti della citata decisione del giudice delle leggi va individuato nella revoca ex art. 11 del d.lgs.  n. 159 del 2011, che di quel peculiare “giudicato debole” rappresenta il principale referente normativo fermo restando che tale revoca potrà intervenire anche qualora la misura di prevenzione non sia più in esecuzione, richiamandosi al riguardo il principio di diritto secondo cui sussiste l’interesse all’impugnazione del provvedimento che rigetta la richiesta di revoca della misura personale cessata nelle more del giudizio, qualora con detta richiesta si sia contestata la legittimità del provvedimento genetico, poiché in questo caso l’accoglimento dell’impugnazione determinerebbe l’elisione degli effetti negativi (inibizione del rilascio di licenze, concessioni, attestazioni, iscrizioni), correlati dall’art. 67, d.lgs. n. 159 del 2011 alla pregressa applicazione della misura (Sez. 5, n. 47628 del 24/10/2019, che ha precisato come sia onere del ricorrente addurre le specifiche ragioni che giustificano il perdurante interesse ad agire; conf. Sez. 6, n. 42938 del 28/06/2018; Sez. 1, n. 24939 del 18/02/2014).

Pur tuttavia, per il Supremo Consesso, a diverse conclusioni deve giungersi con riguardo alla confisca di prevenzione, per la quale il legislatore del 2011 ha introdotto un rimedio ad hoc, ossia la revocazione ex art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011, per le ipotesi in cui l’interessato intenda far valere il ricorrere di ipotesi di anomalia genetica del provvedimento ablatorio, sottraendo, allo stesso tempo, tale provvedimento alla condizione di intrinseca “precarietà” collegata alla preclusione rebus sic stantibus in cui si sostanziava – e continua a sostanziarsi per le misure di prevenzione personali – il giudicato di prevenzione stante il fatto che la relazione di accompagnamento del d.lgs. n. 159 del 2011 descrive con chiarezza la duplice finalità sottesa all’introduzione del nuovo istituto della revocazione, volta a «fornire una disciplina compiuta, che da un lato assicuri agli interessati le necessarie garanzie, dall’altro consenta alla confisca di conservare, dopo la sua “definitività“, il connotato della “irreversibilità“».

Ciò posto, a sua volta l’emancipazione della confisca di prevenzione dal regime preclusivo “debole” è stata messa in luce da Sez. U, n. 20287/2021, lì dove ha rimarcato la sua «connaturata vocazione alla definitività, nel senso dell’irreversibile mutamento del regime giuridico della cosa per effetto della sua forzata acquisizione al patrimonio dello Stato, con conseguente spoliazione del soggetto inciso». In questa prospettiva, la giurisprudenza di legittimità ha sottolineato che la fisiologica revocabilità delle misure di prevenzione personale, soggette al principio rebus sic stantibus, in quanto ancorate alla perdurante verifica dell’attualità della pericolosità, e regolate (già dall’art. 7 della legge n. 1423 del 1956 e oggi) dall’art. 11, d.lgs. n. 159 del 2011 non può estendersi alla misura di prevenzione della confisca, che comporta la definitiva ablazione del patrimonio frutto di accumulazione di proventi illeciti e può essere revocata solo per il tramite della revocazione ex art. 28, d.lgs. n. 159 del 2011 (Sez. 6, n. 23839 del 26/04/2019) fermo restando che siffatta disposizione ha introdotto uno specifico gravame straordinario riservato ai soli provvedimenti applicativi della confisca di prevenzione con la «finalità di svincolare tale istituto dalla sfera di operatività di quello della revoca dei provvedimenti applicativi delle misure di prevenzione personali, misure qualificate da maggiore instabilità del giudicato (essendo, sotto questo profilo, parificabili alle misure cautelari personali regolate dal codice di rito)» e di «assicurare al provvedimento reale ablatorio un connotato di maggiore definitività e irreversibilità, dunque di maggiore stabilità» (Sez. 6, n. 31937 del 06/06/2019; conf. Sez. 5, n. 33146 del 2020).

Precisato ciò, era oltre tutto fatto presente che il comma 1 dell’art. 28, d.lgs. n. 159 del 2011 definisce i casi in relazione ai quali il rimedio della revocazione può essere attivato, casi rappresentati dalla «scoperta di prove nuove decisive, sopravvenute alla conclusione del procedimento» (lett. a), dall’accertamento di fatti, con sentenze penali definitive, sopravvenute o conosciute in epoca successiva alla conclusione del procedimento di prevenzione, che «escludano in modo assoluto l’esistenza dei presupposti di applicazione della confisca» (lett. b) e dalla motivazione della decisione sulla confisca fondata «unicamente o in modo determinante, sulla base di atti riconosciuti falsi, di falsità nel giudizio ovvero di un fatto previsto dalla legge come reato» (lett. c).

Ebbene, per i giudici di piazza Cavour, visti nel loro insieme, i casi di revocazione delineati dal comma 1 dell’art. 28 cit. restituiscono una configurazione del presupposto della revocazione correlata all’accertamento di un difetto originario dei presupposti della confisca sicché restano del tutto estranee all’ambito di operatività dell’istituto patologie diverse da quelle riconducibili al genus indicato, quali, ad esempio, quelle afferenti all’iter procedimentale che ha condotto all’adozione del provvedimento ablatorio.

Tutto ciò premesso, si riteneva all’uopo rilevare come fosse decisiva, ai fini che qui vengono in rilievo, la ricostruzione del rapporto tra il primo e il secondo comma («In ogni caso, la revocazione può essere richiesta solo al fine di dimostrare il difetto originario dei presupposti per l’applicazione della misura») dell’art. 28 cit. essendo state, al riguardo, divergenti le prospettive emerse dal dibattito dottrinale in ordine a questo rapporto.

In effetti, secondo una prima impostazione (seguita anche dal decreto impugnato), la portata normativa del comma 2 dell’art. 28 cit. si limita a impedire che la richiesta di revocazione si risolva in mero esercizio dialettico su un novum che, valutato insieme con gli elementi già considerati ai fini dell’adozione della confisca, non risulti comunque idoneo a dimostrare il difetto originario dei presupposti del provvedimento; così interpretata, si osserva nell’ambito della medesima prospettiva, la disposizione in esame risulta inutiliter data, posto che nulla aggiunge a ciò che già chiaramente si coglie nella menzionata disciplina dei casi di revocazione.

Una diversa impostazione, invece, amplia le ipotesi di revocazione a tutti i casi in cui, pur a prescindere dalla specifica integrazione delle cause di revocazione di cui al primo comma dell’art. 28 cit., sia dimostrabile per fatti sopravvenuti la carenza originaria dei presupposti della confisca di prevenzione.

In presenza di tale duplice chiave di lettura, si notava come anche la giurisprudenza di legittimità mostrasse delle incertezze al riguardo.

Sez. 1, n. 21958 del 06/07/2020, invero propende per la tesi restrittiva sostenendo che il comma 2 dell’art. 28 in esame non introduce un nuovo caso di revocazione della misura, ma limita la rilevanza delle ipotesi delineate dal primo comma della medesima norma al solo caso in cui ne derivi il difetto originario dei presupposti per l’applicazione della misura; la medesima sentenza, tuttavia, ritiene che la questione dell’illegittimità originaria della confisca sotto il profilo della categoria di pericolosità sociale di cui all’art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 159 del 2011 ascritta al proposto sia proponibile – anche – nell’ambito del procedimento di revocazione, poiché alla dichiarazione di invalidità originaria delle norme incostituzionali, con effetto ex tunc, consegue la loro inapplicabilità anche in relazione a rapporti sorti anteriormente alla sentenza n. 24 del 2019.

Dunque, pur non espressamente menzionata dal comma 1 dell’art. 28 cit., la declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 24 del 2019 della Corte costituzionale viene espressamene riconosciuta come idonea a integrare il presupposto della revocazione.

Nettamente propense per l’interpretazione restrittiva del comma 2 dell’art. 28, d.lgs. n. 159 del 2011 sono le sentenze espressive del secondo orientamento, ossia, come si è visto, le sentenze nn. 36582/2020 e 29840/2021 della Sesta Sezione.

Al contrario, tra le pronunce riconducibili al primo orientamento, Sez. 2, n. 33641 del 2020, riconosce una più ampia portata normativa al comma 2 dell’art. 28 cit., in linea con l’opinione dottrinale che attribuisce a esso una valenza integratrice dei casi di revocazione espressamente previsti dal comma 1.

Orbene, le Sezioni Unite ritenevano di dover aderire a quest’ultima, meno restrittiva, interpretazione del comma 2 dell’art. 28 cit. deponendo in questo senso, in primo luogo, il tenore letterale della disposizione che, nel suo incipit («in ogni caso …»), delinea una “fattispecie aperta“: del tutto superfluo nell’interpretazione della disposizione offerta dall’impostazione restrittiva, tale incipit individua quale condizione legittimante della revocazione ipotesi diverse da quelle – espressione di elementi fattuali – delineate dal comma 1, purché riconducibili al medesimo tipo, ossia a fattispecie dimostrative della carenza originaria dei presupposti della confisca, fermo restando quanto già rilevato in ordine all’irrilevanza, ai fini dell’idoneità a legittimare il ricorso alla revocazione, di fattispecie non espressive di un difetto originario di tali presupposti, quali, ad esempio, il sopravvenire di una legge abrogatrice della disposizione relativa a una figura soggettiva di pericolosità, in considerazione della diversità strutturale, messa in luce, come si è visto, da Sez. U, n. 42858/2014, tra abrogazione e declaratoria di illegittimità costituzionale, idonea, quest’ultima, a dar corpo a una carenza originaria dei presupposti della confisca di prevenzione, rilevandosi al contempo che, d’altra parte, la stessa formulazione del comma 3 dell’art. 28 cit., lì dove specifica la portata della previsione del termine, è in linea con l’interpretazione qui accolta.

In secondo luogo, era osservato che, sul piano sistematico, l’interpretazione accolta attribuisce alla disposizione in esame un significato normativo di cui – come riconoscono gli stessi fautori della tesi qui non condivisa – altrimenti sarebbe priva, sicché, sotto questo profilo, risulta in linea con i canoni dell’interpretazione utile.

Di conseguenza, così interpretato, l’art. 28, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 include nel proprio ambito applicativo la declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 24 del 2019 della Corte costituzionale che, avendo investito in toto una delle figure di pericolosità sociale giustificatrici – anche – della confisca, integra senz’altro quel difetto originario dei presupposti per l’applicazione del provvedimento ablatorio che costituisce, nei termini indicati, condizione applicativa della revocazione.

La connotazione della declaratoria di illegittimità costituzionale, che, almeno di regola, attesta, per riprendere l’espressione di Sez. U, n. 42858/2014, l’«invalidità originaria» della norma incostituzionale, è quindi, per la Corte di legittimità, del tutto in linea con la tradizionale impostazione della giurisprudenza costituzionale secondo cui la dichiarazione di illegittimità costituzionale «colpisce la norma fin dalla sua origine, eliminandola dall’ordinamento e rendendola inapplicabile ai rapporti giuridici» (Corte cost., sent. n. 127 del 1966; conf., ex plurimis, Corte cost., sent. n. 56 del 1967).

L’invalidità originaria tipica della declaratoria di illegittimità costituzionale si salda con l’art. 28, comma 2, cit., nell’interpretazione accolta, così consentendo alla decisione di accoglimento del giudice delle leggi di incidere anche sulla misura patrimoniale divenuta definitiva e, pertanto, una interpretazione di tal fatta, per il Supremo Consesso, risolve così entrambi i problemi collegati alla questione rimessa alla cognizione delle Sezioni Unite in quanto, da una parte, essa offre un fondamento giustificativo, saldamente ancorato al dato legislativo, all’idoneità della declaratoria di illegittimità costituzionale a incidere su confische divenute irrevocabili, dall’altra, individua il rimedio – appunto la revocazione ex art. 28 cit. – per far valere l’invalidità originaria della norma, ossia la carenza originaria del requisito soggettivo della confisca.

Per la Corte, del resto, le critiche rivolte dalle decisioni ascrivibili al secondo orientamento non inducono a diverse conclusioni.

Infatti, quanto al rapporto tra il primo e il secondo comma dell’art. 28, d.lgs. n. 159 del 2011, si notava come la ricostruzione condivisa dalle Sezioni Unite nel caso di specie sia in linea con il dato letterale della disposizione e, sul piano sistematico, assicuri un’interpretazione “utile” della norma.

Non si ritenevano inoltre che cogliessero nel segno neppure le obiezioni incentrate sul termine di sei mesi dal fatto integrante l’ipotesi di revocazione o dalla sua conoscenza previsto dal comma 3 dell’art. 28 cit., termine espressamente riferito ai soli casi di cui al comma 1 e, dunque, non applicabile agli “ulteriori casi” individuabili, nei termini sopra indicati, a norma del comma 2, facendosi a tal riguardo presente che l’opzione legislativa, tesa a non assoggettare ad alcun termine la richiesta di revocazione per i casi non espressamente previsti dal comma 1, risulta del tutto ragionevole proprio in considerazione del carattere non predefinito – se non nel tipo generale – delle ipotesi che possono venire in rilievo, carattere che, proprio in quanto afferente a una “fattispecie aperta“, non consente una preventiva valutazione ex lege dell’adeguatezza o meno della previsione di un termine rispetto alle specifiche istanze sottese alla revocazione della confisca: il caso che qui viene in rilievo della declaratoria di illegittimità costituzionale (per di più, in linea con l’orientamento espresso al riguardo dalla Corte EDU) della norma relativa a una delle figure di pericolosità generica previste dalla legge ben rappresenta l’esempio di una fattispecie la cui rilevanza mal si concilierebbe con la previsione di termini e decadenze, data la necessità di assicurare la massima potenzialità applicativa alla decisione che sancisce, ex tunc, l’invalidità costituzionale della figura di pericolosità soggettiva in questione.

La soluzione indicata a proposito dell’inoperatività del termine di cui al comma 3 dell’art. 28 cit. agli “ulteriori casi” di cui al comma 2, d’altronde, per la Cassazione, ridimensiona le differenze tra la disciplina in esame e quella della revoca della misura di prevenzione personale, le quali a loro volta, peraltro, caratterizzano anche la revocazione per una delle tre ipotesi di cui al comma 1 dell’art. 28, il che esclude che la loro considerazione possa contrastare la ricostruzione qui accolta.

Ciò posto, le Sezioni Unite, alla luce delle considerazioni sin qui svolte, enunciavano il seguente principio di diritto: «in tema di misure di prevenzione patrimoniale, il rimedio esperibile avverso il provvedimento definitivo di confisca fondato sulla pericolosità generica, ex art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, al fine di far valere il difetto originario dei presupposti della misura, a seguito della sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019, è la richiesta di revocazione, di cui all’art. 28, comma 2, del d.lgs. citato».

A diverse conclusioni, invece, gli Ermellini ritenevano che si dovesse giungere con riguardo alla confisca disposta a norma dell’art. 16 in relazione all’art. 1, lett. b), del d.lgs. n. 159 del 2011.

Era a tal proposito rilevato che, con riferimento alla disposizione ora in esame, la sentenza n. 24 del 2019 della Corte costituzionale ha ritenuto «che, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale successiva alla sentenza de Tommaso, risulti oggi possibile assicurare in via interpretativa contorni sufficientemente precisi alla fattispecie descritta dell’art. 1, numero 2), della legge n. 1423 del 1956, poi confluita nell’art. 1, lettera b), del d.lgs. n. 159 del 2011, sì da consentire ai consociati di prevedere ragionevolmente in anticipo in quali “casi” – oltre che in quali “modi” – essi potranno essere sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, nonché alle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca», essendo stato infatti osservato, da parte del giudice delle leggi, che l’interpretazione consolidatasi dopo l’intervento della Corte di Strasburgo «permette di ritenere soddisfatta l’esigenza – sulla quale ha da ultimo giustamente insistito la Corte europea, ma sulla quale aveva già richiamato l’attenzione la sentenza n. 177 del 1980 di questa Corte – di individuazione dei “tipi di comportamento” (“types of behaviour”) assunti a presupposto della misura», posto che «le “categorie di delitto” che possono essere assunte a presupposto della misura sono in effetti suscettibili di trovare concretizzazione nel caso di specie esaminato dal giudice in virtù del triplice requisito – da provarsi sulla base di precisi “elementi di fatto“, di cui il tribunale dovrà dare conto puntualmente nella motivazione (art. 13, comma secondo, Cost.) – per cui deve trattarsi di a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto, b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui, c) i quali a loro volta costituiscano – o abbiano costituito in una determinata epoca – l’unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito».

Le disposizioni censurate, pertanto, si sottraggono al giudizio di illegittimità costituzionale «nella parte in cui consentono di applicare le misure di prevenzione della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, del sequestro e della confisca, ai soggetti indicati nell’art. 1, numero 2), della legge n. 1423 del 1956, poi confluito nell’art. 1, lettera b), del d.lgs. n. 159 del 2011».

Dunque, la sentenza n. 24 del 2019, «pur in assenza nel dispositivo di una espressa declaratoria di rigetto» (come rilevato da Sez. 6, n. 29551 del 2020) ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, lett. b), del d.lgs. n. 159 del 2011, rilevandosi  al riguardo che alcune pronunce di legittimità hanno ricondotto, per questa parte, la sentenza n. 24 del 2019 nel genus delle “sentenze interpretative di rigetto” (Sez. 1, n. 27696 del 01/04/2019) mentre altre hanno escluso tale inquadramento rilevando, in particolare, la mancanza, nel dispositivo, della formula tipica di questa tipologia di decisioni reiettive del giudice delle leggi («nei sensi di cui in motivazione» (Sez. 6, n. 27689 del 18/05/2021).

In effetti, ad avviso delle Sezioni unite, la mancanza (anche nella motivazione) della formula indicata potrebbe indurre a ricondurre la sentenza n. 24 del 2019 nel novero – non già delle sentenze interpretative di rigetto ma – di quelle che autorevole dottrina costituzionalistica definisce “sentenze di rigetto interpretative“, caratterizzate dal fatto che l’interpretazione alternativa posta a fondamento della decisione di rigetto – di regola, anche se non necessariamente, un’interpretazione “adeguatrice” – è fornita solo nella motivazione.

In ogni caso, anche a voler propendere (come – se non il tenore letterale – la ratio decidendi della pronuncia sembra suggerire) per l’inquadramento della sentenza n. 24 del 2019, nella parte qui in rilievo, nel genus delle sentenze interpretative di rigetto, caratterizzate, tra le pronunce di non accoglimento, da una maggiore “forza conformativa” rispetto al giudice comune, i giudici di piazza Cavour denotavano come i relativi effetti fossero stati puntualmente delineati dalla giurisprudenza di legittimità.

In particolare, quanto agli effetti, già Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, aveva chiarito che «la forza preclusiva della sentenza interpretativa di rigetto è rispondente ad una precisa esigenza di coerenza interna del sistema e si traduce in un vincolo negativo di interpretazione per il giudice che aveva sollevato la questione giudicata non fondata, nel senso che quest’ultimo non può attribuire alla disposizione di legge la portata esegetica ritenuta non corretta dalla Corte Costituzionale, pur restando libero di optare a favore di differenti soluzioni ermeneutiche che, ancorché non coincidenti con quelle della sentenza interpretativa di rigetto, non collidano con norme e principi costituzionali».

Un vincolo del genere, però, riguarda solo il giudizio a quo, poiché, osserva ancora Sez. U, n. 930/1995, su un piano generale le sentenze interpretative di rigetto della Corte costituzionale non sono munite dell’efficacia erga omnes propria delle decisioni con le quali viene dichiarata l’illegittimità costituzionale di una disposizione di legge, per cui assumono il valore di mero precedente e non sono vincolanti per il giudice, al quale è consentito discostarsi dall’interpretazione da esse fornita e sollevare nuovamente la questione di legittimità dell’identica disposizione, per le medesime ragioni già disattese.

In questa stessa prospettiva, Sez. U, n. 23016 del 31/03/2004, ha ribadito che le sentenze interpretative di rigetto della Corte costituzionale, a differenza di quelle dichiarative dell’illegittimità costituzionale di norme, non hanno efficacia erga omnes e pertanto determinano solo un vincolo negativo per il giudice del procedimento in cui è stata sollevata la relativa questione mentre in tutti gli altri casi il giudice conserva il potere – dovere di interpretare in piena autonomia le disposizioni di legge a norma dell’art. 101, secondo comma, Cost., purché ne dia una lettura costituzionalmente orientata, ancorché differente da quella indicata nella decisione interpretativa di rigetto.

Per i giudici comuni diversi da quello a quo, dunque, viene in rilievo, come puntualizzato da Sez. U, n. 25 del 16/12/1998, non già un vincolo giuridico, ma il «valore persuasivo» della sentenza interpretativa di rigetto, che costituisce «un precedente autorevole nonché il risultato di una interpretazione sistematica in funzione adeguatrice proveniente dall’organo più qualificato in tema di interpretazione costituzionale».

Nel caso in esame, il «valore persuasivo» della sentenza n. 24 del 2019, nella parte in cui ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, lett. b), del d.lgs. n. 159 del 2011, è stato pienamente valorizzato anche dalla successiva giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, Sez. 5, n. 182 del 30/11/2020; Sez. 2, n. 27263 del 16/04/2019; Sez. 6, n. 21513 del 09/04/2019) fermo restando che è di tutta evidenza, però, che tale «valore persuasivo» in ordine all’interpretazione adeguatrice avallata dalla sentenza n. 24 del 2019 in relazione all’art. 1, lett. b), cit. è privo di attitudine a incidere sul giudicato formatosi in relazione al provvedimento che dispone la confisca di prevenzione.

Invero, proprio per il suo collocarsi esclusivamente sul piano delle interpretazioni costituzionalmente conformi e per la indiscussa carenza di efficacia erga omnes, la sentenza interpretativa di rigetto è inidonea a rimettere in discussione il giudicato formatosi sul provvedimento di confisca di prevenzione e, in questo senso, la giurisprudenza di legittimità, in una fattispecie relativa a confisca disposta in relazione alla riconosciuta pericolosità del proposto ex art. 1, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 159 del 2011, n. 159, ha sottolineato come le sentenze della Corte costituzionale, nella parte in cui dichiarino l’infondatezza della questione sollevata fornendo indicazioni interpretative che escludano il vizio di incostituzionalità, non consentano la revoca dei provvedimenti definitivi potendo «costituire solamente un autorevole punto di riferimento per l’interpretazione della disciplina in questione nei procedimenti pendenti, non anche svolgere una valenza “demolitoria” rispetto alle decisioni che hanno acquisito carattere di definitività procedimentale» (Sez. 6, n. 29551 del 2020).

Ciò posto, un esame specifico, per la Corte, deve poi essere dedicato all’ipotesi, frequente nella prassi, in cui la confisca risulti disposta sulla base di un “doppio titolo“, ossia sulla base dell’inscrizione del proposto sia nella categoria soggettiva di cui alla lett. a), del comma 1 dell’art. 1, d.lgs. n. 159 del 2011, sia in quella di cui alla lett. b).

Invero, in tali ipotesi, l’ovvia fondatezza della richiesta di revocazione con riguardo alla lett. a) cit. deve accompagnarsi alla verifica se il “titolo” di cui alla lett. b) cit. sia, rispetto allo specifico provvedimento di confisca che viene in rilievo, autonomo e autosufficiente, ossia svincolato dal sostegno giustificativo correlato alla figura di pericolosità sociale dichiarata incostituzionale e idoneo – nella prospettazione del giudice di merito – a offrire integrale fondamento al provvedimento ablatorio, in tutte le componenti patrimoniali che ha preso ad oggetto.

Ebbene, qualora tale verifica dia esito positivo, la confisca non può essere revocata, basandosi su un titolo non colpito dalla declaratoria di illegittimità, né, come sostengono alcune pronunce espressive, in particolare, del primo orientamento, il giudice della revocazione deve accertare che il provvedimento di applicazione di una misura fondata sul giudizio di cd. pericolosità generica – anche – ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. b), cit. sia fornito di adeguata motivazione circa la sussistenza del triplice requisito (delitti commessi abitualmente dal proposto che abbiano effettivamente generato profitti per il predetto, costituenti l’unico suo reddito o, quantomeno, una componente significativa dello stesso) necessario, alla luce della richiamata sentenza del giudice delle leggi, affinché le condotte sintomatiche di pericolosità possano rientrare in via esclusiva nella lett. b) dell’art. 1 del d.lgs. n. 159 del 2011 dal momento che, ad avviso delle Sezioni unite, sostenere che il giudice della revocazione debba rivalutare gli elementi posti a sostegno dell’affermazione dell’ascrivibilità del soggetto alla luce dei canoni interpretativi avallati dalla sentenza n. 24 del 2019 significherebbe, in buona sostanza, attribuire alla pronuncia di rigetto quell’attitudine a incidere erga omnes sul provvedimento di confisca divenuto irrevocabile di cui, come si è visto, essa è priva.

Alla stregua di ciò, le Sezioni  unite ritenevano di dovere convenire con il principio di diritto secondo cui la Corte di Cassazione, qualora sia investita del ricorso avverso un provvedimento applicativo di misura che, prima della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 159 del 2011, ad opera della sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019, abbia inquadrato la pericolosità sociale del proposto nelle fattispecie di cui alle lett. a) e b) del citato art. 1, non è tenuta a disporre l’annullamento con rinvio di tale provvedimento per una nuova valutazione del materiale probatorio, in quanto lo stesso è già stato delibato nel contraddittorio delle parti e ritenuto sufficiente a ricavarne la ricorrenza dei presupposti delle misure di prevenzione, per essere il proposto annoverabile anche nella categoria criminologica di cui alla citata lett. b) dell’art. 1 cit. (Sez. 6, n. 38077 del 2019) fermo restando che il fondamento giustificativo della confisca basato sulla categoria criminologica non investita dalla declaratoria di illegittimità costituzionale deve connotarsi nei termini di autonomia e autosufficienza sopra indicati, venendo al riguardo in rilievo l’ultima parte del quesito, così come sopra riportato, che chiama in causa la latitudine della cognizione del giudice di legittimità in ordine alla valutazione del materiale conoscitivo.

Ebbene, ad avviso del Supremo Consesso, andava sul punto ribadito che tale valutazione è circoscritta alla verifica dell’autonomia e dell’autosufficienza della qualifica soggettiva di cui all’art. 1, comma 1, lett. b), cit. (o di altra qualifica soggettiva diversa da quella oggetto della declaratoria di illegittimità costituzionale) a sostenere, da sola, il provvedimento ablativo; il giudizio da compiere va svolto sulla base del provvedimento ex art. 28, d.lgs. n. 159 del 2011 – naturalmente alla luce, innanzitutto, delle deduzioni articolate dall’interessato prima in sede di richiesta, poi attraverso l’impugnazione – e, qualora possibile, dello stesso provvedimento di confisca.

Ciò posto, circa i limiti che aveva incontrato la Corte di Cassazione nello svolgimento di siffatto scrutinio (limiti che si riflettono sulla formula conclusiva del giudizio di legittimità), le Sezioni Unite fornivano risposta al quesito posto dall’ordinanza di rimessione attraverso l’individuazione del principio di diritto già enunciato da Sez. U, n. 3464 del 30/11/2017, secondo cui la Corte di Cassazione pronuncia sentenza di annullamento senza rinvio se ritiene superfluo il rinvio e se, anche all’esito di valutazioni all’insegna di una “discrezionalità vincolata” rispetto alle statuizioni del giudice di merito, può decidere la causa alla stregua degli elementi di fatto già accertati e desumibili dalla motivazione dei provvedimenti di merito o sulla base delle statuizioni adottate dal giudice di merito, non risultando necessari ulteriori accertamenti in fatto.

Pertanto, premesso che restano fermi, in ogni caso, gli ordinari oneri di allegazione del ricorrente, nelle ipotesi, in particolare, di confisca di prevenzione disposta sulla base, come si è visto, di un “doppio titolo“, l’annullamento dovrà essere disposto senza rinvio (in toto o limitatamente a una parte dei beni confiscati) solo qualora, sulla base di una valutazione guidata dalla “discrezionalità vincolata” delineata da Sez. U, n. 3464/2017, la Corte di Cassazione sia in grado di constatare che la misura ablatoria – per tutte le sue componenti patrimoniali o per una parte di esse – sia fondata, in via esclusiva, sull’ipotesi di cui all’art. 1, comma 1, lett. a), cit. mentre, simmetricamente, l’annullamento non potrà che essere disposto con rinvio nei casi in cui il riferimento alla qualifica soggettiva di cui alla lett. a) dell’art. 1 cit. e, cumulativamente, quello alla categoria di cui alla lett. b) non consentano al giudice di legittimità – nell’esercizio della “discrezionalità vincolata” – la verifica in quest’ultimo dei richiamati connotati dell’autonomia e dell’autosufficienza, verifica che, invece, se svolta con esito positivo, escluderà l’accoglimento del ricorso.

Il Supremo Consesso, in virtù di quanto sin qui enunciato, formulava il seguente principio di diritto: «la Corte di cassazione, investita del ricorso in materia di confisca di prevenzione definitiva, adottata in relazione alle ipotesi di pericolosità generica ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. a) e lett. b), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, per far valere gli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale pronunciata con sentenza n. 24 del 2019, è tenuta all’annullamento senza rinvio della sola misura fondata, in via esclusiva, sull’ipotesi di cui all’art. 1, comma 1, lett. a)».

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante essendo ivi affrontate diverse problematiche riguardanti le misure di prevenzione.

Infatti, in tale pronuncia, componendosi dei contrasti ermeneutici, dopo un lungo e articolato ragionamento giuridico, è postulato, da un lato, che, in tema di misure di prevenzione patrimoniale, il rimedio esperibile avverso il provvedimento definitivo di confisca fondato sulla pericolosità generica, ex art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs., 6 settembre 2011, n. 159, al fine di far valere il difetto originario dei presupposti della misura, a seguito della sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019, è la richiesta di revocazione, di cui all’art. 28, comma 2, del d.lgs., 6 settembre 2011, n. 159, dall’altro, che la Corte di Cassazione, investita del ricorso in materia di confisca di prevenzione definitiva, adottata in relazione alle ipotesi di pericolosità generica ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. a) e lett. b), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, per far valere gli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale pronunciata con sentenza n. 24 del 2019, è tenuta all’annullamento senza rinvio della sola misura fondata, in via esclusiva, sull’ipotesi di cui all’art. 1, comma 1, lett. a).

Tale sentenza, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione ove si verifichi una di queste situazioni.

Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, proprio perché fa chiarezza su codeste tematiche giuridiche, non può che essere positivo.

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