Con la sentenza qui in esame il Consiglio di Stato interviene in ordine a un contenzioso riguardante i limiti di budget assegnato agli operatori sanitari privati accreditati.
A tali soggetto è riconosciuta, dall’adito Collegio giudicante, la facoltà di scegliere se operare, o meno, in tale settore (e dunque con remunerazione delle prestazioni rese a carico della P.A.), ovvero se operare privatamente.
Tale alternativa è conseguente al principio della <<non negoziabilità>> dei vincoli di spesa posti dai piani di rientro.
La pronuncia così resa si colloca nel solco di un consolidato insegnamento giurisprudenziale per il quale il vigente quadro normativo di riferimento (d.lgs. n. 502/1992) pone, da un lato, le attribuzioni della Regione (in ordine alla determinazione del budget di spesa) e, dall’altro lato, le competenza delle aziende sanitarie (in riferimento alla contrattazione) così perseguendo l’obiettivo di un raffreddamento della spesa del comparto sanità.
A tale fine gli artt. 8, V, 8 quater e 8 quinquies, d.lgs. n. 502/1992 sono applicativi di un indirizzo razionalizzatore della spesa sanitaria: dal loro tenore complessivo emerge come la stipula di un accordo (tra amministrazione sanitaria e soggetto accreditato) sia il presupposto imprescindibile per l’esercizio di attività sanitaria con aggravio di spesa a carico del servizio sanitario (Cons. Stato, sez. III, 6 settembre 2021, n. 6224).
Al di fuori del contratto, da un lato, la struttura accreditata non è obbligata ad erogare prestazioni agli assistiti del servizio sanitario regionale e, dall’altro, l’amministrazione sanitaria non è tenuta a corrispondere la relativa remunerazione (Cons. Stato, sez. V, 17 settembre 2010, n. 6967).
Tanto risponde al principio generale della necessità di una previa valutazione comparativa dei privati aspiranti a contrattare con l’Amministrazione pubblica per l’esercizio di attività che importino la distribuzione di risorse finanziarie.
Al tempo stesso è da rilevare come, nell’ambito del servizio sanitario nazionale, il passaggio dal regime di convenzionamento esterno al regime (attuale) dell’accreditamento previsto dal d.lgs. n. 502 cit. all’art. 8 (e poi integrato dalla L. n. 724/1994, art. 6) non ha modificato la natura del rapporto esistente tra l’Amministrazione e le strutture private, che rimane di natura sostanzialmente concessoria (Cass. civ., sez. I, ord., 6 settembre 2021, n. 24003).
Con la precisazione che: <<il contratto per la regolamentazione delle prestazioni sanitarie concluso ex art. 8 quinquies D.Lgs. n. 502 del 1992 è a tutti gli effetti un contratto di diritto privato che non concorre alla determinazione dell’azione autoritativa della P.A., bensì si pone a valle di essa recependo – quale contenuto vincolato – il budget fissato dagli atti amministrativi di programmazione (T.A.R. Catanzaro, Sez. II, 2 marzo 2021, n. 458; Id., 6 marzo 2020, nn. 440, 441, 442). Pertanto, le patologie negoziali discendenti dall’eventuale invalidità dei provvedimenti amministrativi a monte debbono essere indagate, secondo i principi e le regole proprie del diritto privato, dal giudice ordinario>> (T.a.r. Calabria, Catanzaro, sez. II, 22 luglio 2021, n. 1510).
In riferimento, poi, allo specifico profilo del possibile indebito arricchimento della ASL, in virtù delle prestazioni erogate extra budget e non pagate, si è detto (Cons. Stato, sez. III, 8 gennaio 2019, n. 184; Cons. Stato, sez. III, 27 febbraio 2018, n. 1206; Cass. civ., sez. III, 29 ottobre 2019, n. 27608) che l’osservanza del tetto di spesa in materia sanitaria rappresenta un vincolo ineludibile che costituisce la misura delle prestazioni sanitarie che il s.s.n. può erogare e che può permettersi di acquistare da ciascun erogatore privato, con la conseguenza che deve considerarsi giustificata (anche) la mancata previsione di criteri di remunerazione delle prestazioni extra budget per la necessità di dover comunque rispettare i tetti di spesa e, quindi, il vincolo delle risorse disponibili.
L’inserimento, nell’accordo contrattuale de quo, della cd. “clausola di salvaguardia” impone alla struttura privata di accettare incondizionatamente il budget assegnato dall’azienda sanitaria locale.
Si tratta di una clausola ritenuta legittima operando lo schema tipico dell’acquiescenza, per cui la struttura, con la sottoscrizione della clausola, rinuncia, sul piano sostanziale, alla posizione giuridica lesa dal provvedimento e, sul piano processuale, al proprio diritto a ricorrere in giudizio (Cons., Stato, sez. III, 28 ottobre 2020, n. 6569).
E ciò vale ancor più nelle regioni sottoposte al piano di rientro dal disavanzo sanitario e ai successivi programmi operativi, dove l’accettazione della clausola di salvaguardia da parte della struttura privata equivale all’assunzione di un impegno al rispetto degli stringenti vincoli di programmazione economico-finanziaria e di spesa imposti dallo Stato (Trib. Vasto, 6 aprile 2021, n. 94; Cons. Stato, sez. III, 10 gennaio 2022, n. 165; T.a.r. Lombardia, Milano, sez. III, 14 gennaio 2022, n. 79).
La clausola di salvaguardia è, quindi, meramente ricognitiva dell’effetto preclusivo dell’iniziativa impugnatoria che si produce, per generale opinione giurisprudenziale, nel caso in cui il soggetto pregiudicato dal provvedimento ponga in essere atti, comportamenti o dichiarazioni univoci che dimostrino la chiara e incondizionata volontà dello stesso di accettarne gli effetti e l’operatività (T.a.r. Lazio, Roma, sez. III, 3 maggio 2018, n. 4968).
La giurisprudenza amministrativa, con l’affermazione della legittimità di tale clausola, ne protegge la duplice finalità ad essa sottesa (Cons. Stato, sez. III, 22 febbraio 2017, n. 836; Cass. civ., sez. III, 6 luglio 2020, n.13884):
– da una parte, garantire il necessario contenimento della spesa sanitaria nelle regioni che presentino un deficit economico finanziario;
– dall’altra, evitare che il rispetto dei vincoli finanziari, attuato con la sottoscrizione di accordi contrattuali compatibili con le risorse regionali disponibili, possa essere esposto ad iniziative in sede giurisdizionale in grado di compromettere o porre in pericolo gli obiettivi perseguiti dalla Regione.
Ci si è interrogati, ancora, sulla possibilità, o meno, di formulare una domanda condanna, ex art 2041 c.c., a titolo di indebito arricchimento della ASL (sempre in riferimento alle prestazioni erogate extra budget).
In attuazione di una importante pronuncia delle S.U. della Cassazione (n. 10798 del 26 maggio 2015) si è precisato che, anche in materia di prestazioni rese a vantaggio della P.A., il riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, sicché il depauperato che agisce ex art. 2041 c.c. nei confronti della P.A. ha solo l’onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’ente pubblico possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, esso potendo, invece, eccepire e provare che l’arricchimento non fu voluto o non fu consapevole, e che si trattò, quindi, di arricchimento imposto.
L’imposizione non comporta indennizzo alcuno a chi l’imposizione abbia effettuato, secondo i principi generali contrari alla coazione/costrizione nei rapporti tra i soggetti. Diversamente lo strumento indennitario dell’art. 2041 c.c., anziché ripianare una situazione che ha perduto un corretto equilibrio economico, servirebbe per abusare delle capacità patrimoniali del soggetto cui l’indennizzo viene richiesto.
Al fine di ravvisare l’imposizione è sufficiente che la P.A. abbia deliberato un tetto di spesa adempiendo ai suoi obblighi di legge di sana gestione delle finanze pubbliche e lo abbia comunicato agli interessati, in ciò ravvisandosi – come detto – in modo inequivoco il suo diniego a sostenere una spesa superiore, quindi il suo non accettare prestazioni che siano ulteriori rispetto a quelle che generano un corrispettivo nei limiti di spesa.
In conclusione, una volta conosciuto l’importo del budget, la struttura sanitaria accreditata non può erogare prestazioni extra budget ponendole a carico del servizio sanitario, ma solo prestazioni a totale carico degli assistiti (sarà poi l’utente a scegliere se rivolgersi alla struttura privata o servirsi della struttura pubblica); d’altronde le strutture private accreditate non hanno l’obbligo di erogare prestazioni sanitarie, ancorché indifferibili ed urgenti (Cass. civ., sez. un., 18 giugno 2019, n.16336).
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