La restrizione dell’imputato agli arresti domiciliari per altra causa integra un impedimento legittimo a comparire?

La restrizione dell’imputato agli arresti domiciliari per altra causa, documentata o, comunque, comunicata al giudice procedente, in qualunque tempo, integra un impedimento legittimo a comparire che impone al medesimo giudice di rinviare ad una nuova udienza e disporne la traduzione.

Indice:

Il fatto

La Corte di Appello di Catanzaro confermava in punto di responsabilità una sentenza del Tribunale di Crotone che aveva ritenuto l’imputato colpevole del reato di evasione, per essersi allontanato senza autorizzazione dal luogo ove era sottoposto agli arresti domiciliari, e aveva ridotto la pena inflitta ad anni uno di reclusione.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento summenzionato il difensore dell’imputato ricorreva per Cassazione, deducendo i seguenti motivi: 1) violazione di cui all’art. 606, comma l, lett. b), cod. proc. pen., oltre che vizio di motivazione, con riferimento agli artt. 178, comma l, lett. c) e 179 cod. proc. pen., nella parte in cui la sentenza impugnata aveva ritenuto di rigettare l’eccezione di nullità della pronuncia di primo grado; 2) violazione di cui all’art. 606, comma l, lett. b), cod. proc. pen., oltre che vizio di motivazione, in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato; 3) violazione di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per omessa motivazione sulla richiesta di riconoscimento delle attenuanti generiche.

Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

La Sesta Sezione penale, cui era stato assegnato il procedimento, rilevava un contrasto interpretativo riguardo al se la restrizione dell’imputato agli arresti domiciliari per altra causa, sopravvenuta nel corso del processo e comunicata solo in udienza, integri un legittimo impedimento a comparire e precluda la celebrazione del giudizio In assenza, anche quando risulti che l’imputato avrebbe potuto · informare il giudice del sopravvenuto stato di detenzione in tempo utile per la traduzione.

Difatti, era fatto presente che, se un primo orientamento, nel richiamare i principi espressi da Sez. U, n. 37483 del 26/09/2006, e Sez. U, n. 35399 del 26/06/2010, ritiene che l’imputato, già citato a giudizio in stato di libertà, e successivamente tratto in arresto e detenuto per altra causa, versa in stato di legittimo impedimento, qualora non ne sia ordinata la traduzione, per cui non può procedersi in sua assenza, ove non sia espressa rinuncia a presenziare al giudizio, conseguendone altrimenti la nullità di tutti gli atti compiuti senza che egli abbia avuto modo di partecipare allo stesso (Sez. 2, n. 8098 del 10/02/2016; Sez. 4, n. 19130 del 14/10/2014; Sez. 6, n. 2300 del 10/12/2013), secondo un diverso indirizzo esegetico, invece, è onere dell’imputato, regolarmente citato in stato di libertà e dichiarato contumace (o assente), segnalare tempestivamente al giudice il suo sopravvenuto stato di detenzione, se non desumibile dagli atti né altrimenti comunicato, e la sua volontà di prendere parte al giudizio, non potendo egli, in caso contrarlo, invocare “a posteriori” la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello per non avere potuto partecipare al processo (Sez. 2, n. 27817 del 22/03/2019; Sez. 2, n. 30258 del 14/03/2017; Sez. 2, n. 17810 del 09/04/2015).

Orbene, secondo questa Sezione, il contrasto segnalato verteva anche sulla possibilità o meno di traslazione dei suesposti principi al caso di soggetti la cui libertà personale sia comunque vincolata da misure diverse da quella di massimo rigore e segnatamente da quella degli arresti domiciliari (per altra causa).

Secondo talune decisioni, invero, il sopravvenuto stato di detenzione, anche se non in carcere, integra comunque un’ipotesi di legittimo impedimento a comparire e preclude la celebrazione del giudizio, anche quando risulti che l’imputato avrebbe potuto informare il giudice del sopravvenuto stato di detenzione in tempo utile per la traduzione (Sez. 5, n. 47048 del 12/07/2019; Sez. 4, Sentenza n. 18455 del 30/01/2014; Sez. 4, n. 1871 del 03/10/2013; Sez. 6, n. 5989 dei 10/03/1997) mentre altre pronunce ritengono, invece, che sia onere dell’imputato agli arresti domiciliari per altra causa chiedere tempestivamente l’autorizzazione ad allontanarsi dal domicilio per il tempo necessario (in tal senso Sez. 5, n. 6540 del 10/12/2018; Sez. 2, n. 7286 del 15/11/2018; Sez. 5, n. 48911 del 01/10/2018; Sez. 5, n. 32667 del 16/7/2018; Sez. l, n. 39768 del 2/5/2018; Sez. 7, n. 20677 del 12/1/2018; Sez. 2, n. 48030 del 20/10/2016; Sez. 3, n. 33404 del 15/7/2015; Sez. 5, n. 8876 del 22/12/2014; Sez. 5, n. 12690 del 10/11/2014; Sez. 5, n. 30825 del 1/7/2014; Sez. 6, n. 36384 del 25/6/2014; Sez. 5, n. 42888 del 5/6/2014; Sez. 2, n. 21529 del 24/4/2008; Sez. 5, n. 44922 del 14/11/2007; Sez. 4, n. 28558 del 13/5/2005; Sez. 5, n. 7369 del 15/11/2002; Sez. 6, n. 77319 del 30/04/1997).

Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite

Prima di entrare nel merito della questione, le Sezioni Unite procedevano a delimitarla nei seguenti termini: “Se la restrizione dell’imputato agli arresti domiciliari per altra causa, comunicata In udienza, integri comunque un’ipotesi di legittimo impedimento a comparire, così precludendo la celebrazione del giudizio in assenza, ovvero gravi sull’imputato il previo onere di richiedere al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare l’autorizzazione ad allontanarsi dal domicilio per presenziare a detta udienza”.

Premesso ciò, gli Ermellini osservavano, dopo avere ripercorso sinteticamente quanto argomentato nell’ordinanza di rimessione, come, secondo un primo orientamento, che prende le mosse dalle linee interpretative tracciate in materia da Sez. U, nella pronuncia n. 37483/2006, il sopravvenuto stato di detenzione per altra causa, anche non inframuraria, – di cui il giudice si reso edotto- integra un’ipotesi di legittimo impedimento dell’imputato a comparire e preclude la legittima celebrazione del processo pur se risulti che l’imputato medesimo avrebbe potuto informare il giudice del suo status in tempo utile per la traduzione, deducendosi al contempo che, a sostegno di tale scelta interpretativa, si adduce la mancanza di una previsione normativa in tal senso e l’eccezionalità del rito contumaciale o in assenza le cui norme devono intendersi di stretta interpretazione (Sez. 5, n. 37658 del 20/11/2020; Sez. 5, n. 47048 del 12/07/2019; Sez. 4, n. 18455 del 30/01/2014; Sez. 4, n. 1871 del 03/10/2013), osservandosi inoltre che, nell’ottica di un processo di tipo accusatorio, la partecipazione dell’imputato afferisce al diritto di autodifesa, certamente rinunziabile, ma non «delegabile, né confiscabile».

Ciò posto, a fronte di tale approdo ermeneutico, si prendeva atto della sussistenza di un diverso e più consistente orientamento seguito da Sez. 4, n. 10157 del 18/2/2020; Sez. 4, n. 3905 del 21/1/2020; Sez. 5, n. 6540 del 10/12/2018; Sez. 2, n. 7286 del 15/11/2018; Sez. 5, n. 32667 del 16/7/2018; sez. l, n. 39768 del 2/5/2018; Sez. 7, n. 20677 del 12/1/2018; Sez. 2, n. 48030 del 20/10/2016; Sez. 3, n. 33404 del 15/7/2015; Sez. 5, n. 8876 del 22/12/2014; Sez. 5, n. 12690 del 10/11/2014; Sez. 5, n. 30825 del 1/7/2014; Sez. 5, n. 42888 del 5/6/2014, 01; Sez. 2, n. 21529 del 24/4/2008; Sez. 5, n. 44922 del 14/11/2007; Sez. 4, n. 28558 del 13/5/2005; Sez. 5, n. 7369 del 15/11/2002; Sez. 6, n. 77319 del 30/4/1997.

In particolare, secondo tale filone giurisprudenziale, diversamente da quanto previsto per l’imputato in custodia intramuraria – nei confronti del quale incombe al giudice procedente di emettere l’ordine di traduzione -, la persona sottoposta agli arresti domiciliari per altra causa ha l’onere di chiedere tempestivamente al giudice della cautela (che In tesi non coincide con il giudice che procede) l’autorizzazione ad allontanarsi dal domicilio per il tempo necessario, autorizzazione che, benché dovuta, non potrà intervenire in assenza di una manifestazione di volontà, ossia di un atto di impulso, da parte dell’interessato, trattandosi di un’opzione ermeneutica secondo la quale i principi enunciati dalla sentenza n. 37483/2006 in merito alla «assoluta impossibilità di comparire» – che giustifica, a norma dell’art. 420-ter cod. proc. pen., l’avviso per la nuova udienza – afferiscono alla sola detenzione ordinaria e non anche allo status del soggetto agli arresti domiciliari per altra causa, poiché questi, ricevuta la citazione, è in condizione di chiedere all’autorità giudiziaria l’autorizzazione a recarsi in udienza, sicché solo qualora questa gli venga negata per un qualsiasi motivo ricorrerà l’ipotesi di «assoluta impossibilità a comparire» (Sez. 6, n. 36384 del 25/6/2014).

Orbene, ad avviso delle Sezioni Unite, ai fini della soluzione del quesito rimesso occorreva prendere le mosse dai (ritenuti) condivisibili approdi della sentenza Sez. U, 34483 del 26/09/2006, dal momento che, pronunciando in un caso di impedimento dell’imputato derivante dalla condizione di restrizione in carcere per altra causa, le Sezioni Unite hanno affermato i seguenti principi: 1) la conoscenza da parte del giudice di un legittimo impedimento dell’imputato preclude la dichiarazione di contumacia (o di assenza) e in tal caso la celebrazione dell’udienza è consentita solo se sia stata espressa dall’imputato legittimamente impedito la volontà che si proceda in sua assenza, o sia intervenuto rifiuto di partecipare da parte dell’imputato detenuto; 2) costituisce legittimo impedimento la detenzione per altra causa, anche nell’ipotesi in cui l’imputato avrebbe potuto comunicare tale sua condizione al giudice per consentire la traduzione in tempo utile per lo svolgimento dell’udienza e non lo ha fatto tempestivamente; 3) l’accertata presenza di un legittimo impedimento, comunque venuto a conoscenza del giudice entro la fase dell’accertamento della regolare costituzione delle parti, in mancanza di una rinuncia alla partecipazione non consente la dichiarazione di contumacia (o di assenza) e, ove questa intervenga, deve ritenersi illegittima; 4) la mancanza di una espressa previsione normativa che ponga a carico dell’imputato un onere di comunicazione dello stato di restrizione sopravvenuta è di ostacolo a che possa procedersi ritualmente in contumacia (o in assenza) solo in virtù di un difetto di previa comunicazione dell’interessato; 5) l’onere di rappresentare tempestivamente il proprio impedimento è previsto dalla legge esclusivamente per il difensore (art. 420-ter, comma 5, cod. proc. pen.).

Pur tuttavia, per il Supremo Consesso, la situazione processuale appena presa in considerazione era ovviamente diversa da quella del giudice che procede nei confronti dell’imputato ristretto per la causa in corso dato che egli ne è necessariamente edotto e sono disciplinati positivamente i poteri volti a superare l’impedimento mediante l’emissione dell’ordine di traduzione o del provvedimento di autorizzazione a giungere all’udienza con mezzi propri in presenza del regime di detenzione presso la propria abitazione, non ponendosi in questo caso alcun dubbio sull’inesistenza di un dovere di comunicazione da parte del ristretto tanto è vero che, se l’imputato non viene reperito e non comunica lo status impeditivo della presenza in udienza, eventualmente sopravvenuto alla fase delle Indagini, è previsto il dovere officioso del giudice di disporre le ricerche anche in carcere, prima di emettere il decreto di irreperibilità, prodromico alla citazione.

Tal che se ne faceva conseguire che se l’imputato, per il processo in corso, non viene reperito e si trova ristretto in carcere, il giudice del procedimento lo apprenderà di sua iniziativa, essendo tenuto a ricercarlo anche presso gli istituti di pena.

La questione sottoposta all’esame del Collegio nel caso di specie era, dunque, per le Sezioni Unite, diversa da tale ultima configurazione in quanto pone il tema della configurabilità (e relativi limiti) di un impedimento assoluto dell’imputato a comparire in udienza, derivante dalla concomitante restrizione per altra causa e, altresì, il tema della conoscenza, da parte del giudice, della predetta condizione.

Chiarito ciò, i giudici di piazza Cavour ritenevano pertanto rilevante in tale prospettiva sottolineare che i condivisi principi esposti nella sentenza n. 37483/2006 appena richiamata sono stati successivamente ribaditi da Sez. U, n. 35399 del 26/06/2010, pronunciata con riferimento al caso dell’imputato agli arresti domiciliari per altra causa che, giudicato in primo grado nelle forme del rito abbreviato, aveva chiesto di partecipare al giudizio camerale d’appello.

In particolare, veniva fatto presente che tale decisione, muovendo dalla equiparazione della condizione dell’imputato detenuto a quella della persona agli arresti domiciliari o, comunque, sottoposto a limitazione della libertà personale che non le consente la presenza in udienza, ha affermato che nel giudizio ordinario deve essere sempre assicurata, in mancanza di inequivoco rifiuto alla partecipazione, la presenza dell’imputato.

Di conseguenza, per la Corte di legittimità, in virtù della norma generale fissata dall’art. 420-ter, commi l e 2, cod. proc. pen., qualora l’imputato non si presenti ed in qualunque modo risulti (o appaia probabile) che l’assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, spetta al giudice disporre, anche di ufficio, il rinvio ad una nuova udienza, senza che sia necessaria una qualche richiesta in tal senso e, pertanto, qualora l’imputato sia detenuto o agli arresti domiciliari o comunque sottoposto a limitazione della libertà personale che non gli consente la presenza in udienza, poiché in tali casi è in re ipsa il legittimo impedimento, il giudice, in qualunque modo ed in qualunque tempo venga a conoscenza dello stato di restrizione della libertà, anche in assenza di una richiesta dell’imputato, deve d’ufficio rinviare il processo ad una nuova udienza e disporre la traduzione dell’imputato, salvo che non vi sia stato un espresso rifiuto dell’imputato ad assistere all’udienza.

Oltre a ciò, era altresì notato come la citata pronuncia abbia, inoltre, argomentato che «la detenzione per altra causa costituisce legittimo impedimento anche quando l’imputato avrebbe potuto avvisare il giudice della sua condizione in tempo utile per consentire la traduzione», nonché escluso che «l’imputato abbia un onere di chiedere al giudice competente la rimozione dell’impedimento o di comunicare al giudice che procede la sua volontà di essere presente, avendo rilievo soltanto il fatto che il giudice abbia comunque conoscenza di una obiettiva situazione di impedimento» e manchi un’esplicita rinuncia a comparire, rilevando al contempo come tale approdo esegetico si basi sulla considerazione che non è possibile subordinare l’esercizio di un diritto fondamentale, come quello di partecipare al processo, ad oneri che non siano espressamente previsti da una disposizione legislativa.

Orbene, pure a fronte di tali chiari approdi ermeneutici, si evidenziava come la parte maggioritaria della giurisprudenza abbia ritenuto di continuare a tracciare una distinzione tra l’imputato ristretto in carcere e quello agli arresti domiciliari per altra causa ritenendo che, in quest’ultimo caso, l’impedimento non sarebbe legittimo ed assoluto, poiché l’imputato può chiedere l’autorizzazione o l’accompagnamento o la traduzione al giudice competente, osservando al contempo che le motivazioni di queste pronunce, intervenute dopo la sentenza delle Sezioni Unite da ultimo citata, sono state variamente articolate.

Invero, se alcune disconoscono espressamente l’identità di condizione tra persona detenuta ed agli arresti domiciliari per altra causa e ritengono che la restrizione domiciliare non determini un impedimento assoluto (Sez. 2, n. 7286 del 15/11/2018; Sez. 5, n. 6540 del 10/12/2018; Sez. 5, n.32667 del 16/7/2018; Sez. l, n. 39768 del 2/5/2018) mentre altre attribuiscono specifico rilievo alla omessa tempestiva attivazione per ritenere legittimo il processo in assenza dell’imputato (Sez. 5, n. 12690 del 10/11/2014; Sez. 5, n. 8876 del 22/12/2014), altre ancora ritengono che non sia configurabile un obbligo dell’autorità giudiziaria procedente di disporre la traduzione dell’imputato agli arresti domiciliari per altra causa se questi non abbia avanzato tempestiva richiesta al giudice procedente (Sez. 4, n. 10157 del 18/02/2020; Sez. 7, n. 20677 del 12/1/2018; sez. 2, n. 48030 del 20/10/2016; Sez. 5, n. 30825 del 117/2014).

Un quarto gruppo infine valorizza lo status dell’imputato al momento della notifica del decreto di citazione a giudizio ed osserva che, qualora la restrizione della libertà personale per altra causa intervenga successivamente, non sussiste un obbligo di attivazione ufficiosa del giudice ignaro della sopravvenuta misura limitativa, e ritiene che la restrizione domiciliare non determini un impedimento assoluto, atteso che l’interessato può rimuoverlo, formulando richiesta di autorizzazione a lasciare l’abitazione (Sez. 4, n. 3905 del 21/01/2020; Sez. 3, n. 33404 del 15/07/2015; Sez. 2, n. 17810 del 09/04/2015; Sez. 5, n. 42888 del 05/06/2014; Sez. 6, n. 841 del 14/12/2011).

Ebbene, le Sezioni Unite stimavano come tale orientamento non potesse essere avallato nella sua interezza dal momento che, se il primo degli orientamenti illustrati omette di confrontarsi con i principi enunciati dalle due decisioni delle Sezioni Unite già ricordate e non adduce argomentazioni per confutare le affermazioni che i casi di restrizione della libertà personale diversi dalla detenzione in carcere determinano un legittimo impedimento giuridico, non differente, agli effetti che interessavano nella fattispecie in esame, dall’impedimento costituito dalla detenzione in carcere, e che l’esercizio di un diritto fondamentale, come quello di partecipare al processo, non può essere subordinato ad oneri non espressamente previsti dalla legge, il secondo indirizzo non tiene conto, quanto meno ai fini di una diversa prospettazione giustificativa, della motivazione di Sez. U, n. 35399/2010, secondo cui l’impedimento di chi è sottoposto a restrizione della libertà diversa dalla detenzione in carcere è pur sempre legittimo ed assoluto e una differenziazione delle due situazioni sarebbe foriera di irragionevolezza, ove si consideri che il detenuto in carcere può più facilmente dialogare con l’autorità giudiziaria procedente tramite l’ufficio matricola, mentre non sempre l’imputato agli arresti domiciliari è in grado di veicolare le sue richieste, in assenza di strumenti adeguati o di persone in grado di agire in sua vece, così come le restanti decisioni, riconducibili al terzo ed al quarto filone giurisprudenziale, prescindono dal contesto normativo e dai principi elaborati dalle Sezioni Unite in tema di processo in assenza anche per effetto dei plurimi interventi della Corte Edu (Sez. U, n. 698 del 24/10/2019; Sez. U, n. 12778 del 27/2/2020; Sez. U. n. 15498 del 26/11/2020).

Ciò posto, da quanto premesso se ne faceva discendere come la soluzione interpretativa da sostenere sia quella che configura, in capo all’imputato che abbia reso il giudice edotto del sopravvenuto stato restrittivo per altra causa, il pieno diritto di vedere assicurata la propria presenza al processo mediante la disposizione della traduzione e senza ulteriori oneri a proprio carico.

Le pronunce delle Sezioni Unite appena citate, invero, hanno fondato le loro conclusioni sulla natura incondizionata del diritto alla partecipazione al processo, come disegnato in maniera univoca dalle disposizioni internazionali e convenzionali, ricordandosi in particolare quanto stabilito dall’art. 6, § 3, lett. c), d), e), della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che, nell’elencare i diritti dell’imputato – autodifesa, diritto di farsi interrogare e far interrogare testimoni, l’interprete, in caso di mancata conoscenza della lingua – presuppone l’essenzialità della sua partecipazione al processo, come univoca mente ritenuto, anche nella giurisprudenza della Corte Edu, la quale, a sua volta, nel tempo ha più volte censurato il giudizio contumaciale italiano, condizione che ha condotto alla novella normativa del giudizio in assenza, caratterizzato da un accertamento effettivo e non meramente formale della conoscenza del processo da parte dell’imputato, e dalla necessità di accertamento, in caso di assenza, di un rifiuto alla partecipazione, o di un comportamento inequivoco, riconducibile a tale decisione, rilevandosi al contempo che le medesime garanzie sono richiamate dal Patto internazionale sui diritti civili e politici (adottato a New York il 16 dicembre 1 966, reso esecutivo çon legge 25 ottobre 1977, n. 881, ed entrato in vigore per l’Italia il 15 dicembre 1978) che, nel suo art. 14, terzo comma, lett. d), e), f), riconosce all’imputato i diritti di essere presente e di difesa; di interrogare i testimoni e di farsi assistere da un interprete, diritti tutti che presuppongono la presenza dell’Interessato al suo processo.

Per la Corte di legittimità, quindi, la natura ineludibile di tali garanzie nel processo penale risulta ulteriormente espressa dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nelle nove “regole minime” richiamate nella Risoluzione n. 11 del 21 maggio 1975, ove si prescrivono le garanzie da riconoscere all’imputato assente nel processo, “salvo che si sia accertato che egli si è sottratto volontariamente alla giustizia”, denotando del resto che nelle pronunce della Corte Edu, succedutesi nel tempo in argomento (X c. Olanda, 3/11/2021; G.c. Seydovic c. Italia, 01/03/2006; Somogyi c. Italia, 10/11/2004; F.C.B. c. Italia, 28/8/1991; Colozza c. Italia, 12/2/1985), è stato affermato che “la facoltà per l’accusato di prendere parte all’udienza discende dall’oggetto e dalla ratio dell’insieme dell’articolo, tenuto conto altresì del fatto che gli alinea c), d) ed e) del § 3 riconoscono ad “ogni persona accusata” il diritto di “difendersi personalmente”, “esaminare o far esaminare i testimoni e “farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza”, “attività che non si concepiscono senza la sua presenza”.

Si è, quindi, rilevato che “né la lettera né la ratio dell’art. 6 della Convenzione impediscono ad  una persona di rinunciare volontariamente alle garanzie di un processo equo in maniera espressa o tacita, ma tale rinuncia deve essere non equivoca e non deve porsi in conflitto con alcun interesse pubblico significativo”, e da ultimo considerato che la conoscenza da parte dell’imputato dell’apertura di un processo penale a suo carico non consente di concludere che egli abbia rinunciato in maniera non equivoca al suo diritto a comparire all’udienza.

Di conseguenza, l’interpretazione richiamata, proprio in quanto garantisce in maniera stringente la partecipazione al giudizio di merito dell’imputato, per il Supremo Consesso, risulta conforme ai principi del giusto processo e del contraddittorio, sanciti dall’art. 111, comma 3 Cost. fermo restando che solo la garanzia di partecipazione al processo da parte dell’imputato invera i principi di immediatezza ed oralità, ugualmente richiamati nella disposizione costituzionale.

Ripercorrendo ulteriori e successive decisioni della Corte Edu, d’altronde, si ricava la costante importanza che assume: I) la presenza di un imputato per lo svolgimento di un processo penale equo e giusto (Grande Camera, Hermi c. Italia, 18/10/2006; De Lorenzo C. Italia, 12/2/2004; Lala C. Olanda, 22/09/1994; Poitrimol C. Francia, 23/11/1993); II) l’obbligo di garantire all’imputato il diritto di essere presente nella sala di udienza – sia durante il primo procedimento nei suoi confronti sia nel corso di un nuovo processo – nell’ottica dell’articolo 6 (Stoichkov C. Bulgaria, 24/03/2005).

Oltre a ciò, è stato altresì specificato che, né il testo, né lo spirito dell’articolo 6 della Convenzione, impediscono ad una persona di rinunciare spontaneamente alle garanzie di un processo equo in maniera espressa o tacita (Seliwiak C. Polonia 21/07/2009; Kwlatkowska C. Italia, 30/11/2000), ma, per essere considerata efficace, la rinuncia al diritto di partecipare all’udienza deve essere stabilita in modo non equivoco (Draca c. Croazia, 20/01/2022; Huzuneanu c. Italia, 01/09/2016; Battisti C. Francia, 12/12/2006; Poitrimol cit.) e deve essere frutto di una scelta consapevole sulle conseguenze processuali di tale decisione (Murtazaliyeva c. Russia, 18/12/2018; G. c. Dvroski c. Croazia, 20/10/2015; Pishchalnikov c. Russia, 24/12/2009; G.C. Salduz c. Turchia, 27/11/2008; G.C. Seydovlc c. Italia, cit.).

Del resto, anche la normativa europea, successiva alle pronunce della Corte di legittimità in argomento, nel dettare principi minimi comuni agli Stati in punto di garanzie da riconoscere nel processo penale, ha ulteriormente ribadito la centralità della garanzia di partecipazione al processo da parte dell’Interessato, nel solco delle disposizioni della Carta dei diritti fondamentali e della giurisprudenza della Corte Edu. La Direttiva UE n. 343 del 9 marzo 2016, dopo aver ricordato nel preambolo che il diritto alla partecipazione al processo da parte dell’interessato può essere oggetto di rinuncia espressa o tacita, ma non equivoca, prescrive al suo art. 9 che nelle norme nazionali sia previsto il diritto ad un nuovo processo nell’ipotesi in cui si sia proceduto in assenza al di fuori delle fattispecie che legittimano tale procedimento.

Il complesso delle disposizioni costituzionali e convenzionali appena richiamate, alla luce dei principi elaborati dalla Corte Edu e dalle Sezioni Unite, secondo i giudici di piazza Cavour, consente quindi di affermare la centralità del diritto dell’imputato di partecipare al processo e di individuare le rigorose condizioni cui è subordinata la celebrazione del giudizio in assenza nella: a) certezza della conoscenza del processo, della data e del luogo fissati per il suo svolgimento; b) inequivocità della rinuncia a comparire nel giorno fissato.

Sulla base di tali principi, di conseguenza, per la Corte, si può concludere che il procedimento in assenza, la cui disciplina costituisce il necessario punto di equilibrio tra pretesa della tutela punitiva statua le ed esigenza di garantire il diritto dell’imputato alla partecipazione al suo processo, è legittimo solo qualora vi sia certezza della conoscenza dell’accusa, della data e delle possibilità di accesso all’udienza da parte dell’imputato e vi sia stato a cura del giudice, inoltre, un rigoroso e non equivoco accertamento della volontà dell’interessato di sottrarsi al procedimento; in caso contrarlo il giudice deve disporre la sua traduzione al processo.

Conferma della natura ineludibile dell’accertamento della mancanza di qualsiasi impedimento alla partecipazione su cui il giudicante possa intervenire, che evidenzia la natura subvalente dell’efficienza del processo rispetto alla necessità di tutela del diritto alla partecipazione, per la Suprema Corte, si ricava dall’espressa previsione di un obbligo per il giudice di valutare, anche in chiave probabilistica, la sussistenza di un impedimento alla partecipazione, riconducibile al caso fortuito o alla forza maggiore, imposto dall’art. 420-ter, comma 2, cod. proc. pen. ove si equipara l’accertamento dell’impedimento al dubbio sulla sua sussistenza, al fine di imporre il rinvio del procedimento fermo restando che la disposizione de qua evidenzia la rilevanza attribuita dall’ordinamento alle condizioni di effettività dell’esercizio del diritto a partecipare, superiore ad ogni ragione di interesse alla celere definizione di un procedimento e delinea in maniera penetrante la natura dell’accertamento rimesso al giudice del processo, in quanto la sua corretta instaurazione può basarsi solo sulla eliminazione di ogni Impedimento alla partecipazione dell’imputato.

Solo lo svolgimento di questa verifica, e l’eliminazione di qualsiasi ostacolo alla partecipazione che sia in potere del giudice superare, consente pertanto, per la Corte, di ricondurre la mancata comparizione esclusivamente ad una scelta libera dell’imputato.

Tal che se ne faceva conseguire che la conoscenza da parte del giudicante della presenza di una limitazione alla libertà, imposta da altra autorità giudiziaria, su cui sia possibile intervenire, non può essere pretermessa, se non ignorando allo stesso tempo l’evidente discrasia logica che si verrebbe a creare tra la pretesa libertà di determinazione dell’interessato, presupposto di legittimità del giudizio in assenza, e la condizione di restrizione; né potrebbe, d’altro canto, esserci alcun dubbio che l’impedimento sia legittimo, in quanto conseguenza di un provvedimento giurisdizionale.

L’assenza può costituire, di conseguenza, ad avviso della Suprema Corte, una chiara espressione della abdicazione del diritto a partecipare solo ove non risulti in alcun modo la presenza di un impedimento e possa essere ricondotta univocamente ad una libera rinuncia dell’imputato ad esercitare il suo diritto fermo restando che tale condizione non sussiste in tutte le ipotesi nelle quali il giudice che procede ha conoscenza dell’esistenza di un impedimento dell’imputato a partecipare al processo a causa della limitazione della libertà personale e non sia stata manifestata da parte dell’interessato, in maniera inequivoca, la volontà di rinunciare a presenziare e, in tal caso, incombe al giudice procedente l’obbligo di esercitare, di ufficio e senza ulteriori sollecitazioni da parte dell’imputato, tutti i poteri che l’ordinamento gli conferisce al fine di assicurare la partecipazione dell’imputato non rinunciante mentre la difforme interpretazione si fonda sul disconoscimento della natura assoluta dell’impedimento, in quanto superabile da una manifestazione di interesse da parte dell’imputato, ma omette di considerare che tale attività, sicuramente possibile, non è però imposta dalla legge, che non pone a carico dell’imputato, citato in condizioni di libertà, e ristretto per altra causa, di attivarsi presso il giudice della cautela, o il magistrato di sorveglianza competente sulla restrizione in atto.

Il dato normativo impone quindi, per le Sezioni Unite, di escludere la legittimità di una interpretazione che appare fondata sulla configurazione della partecipazione dell’imputato come un interesse persegui bile su sua iniziativa, e non un diritto, e su esigenze di funzionalità e celerità del processo, più che sul rispetto della sua ritualità, secondo le precise scansioni dettate dalle disposizioni sul punto in quanto, proprio la richiamata centralità della partecipazione dell’interessato al processo, ha imposto la previsione di verifiche costanti della corretta instaurazione del giudizio in assenza, come meglio sarà tratteggiato in seguito, cosicché ogni controllo, il cui esito non rispetti i principi rigorosi fissati per la legittimità del giudizio in assenza, rischia di condurre allo svolgimento di attività processuale suscettibile di essere travolta da un successivo accertamento di nullità del procedimento, né, argomenti contrari all’assunto che qui si accredita possono essere tratti dal disposto dell’art. 22 disp. att. cod. proc. pen.

Il comma 1 di tale disposizione disciplina, invero, il potere del giudice della cautela di autorizzare l’imputato, sottoposto a misura coercitiva, a comparire, con mezzi propri, per ragioni di giustizia, dinanzi alla autorità giudiziaria, rendendo evidente che detto potere autorizzatorio è riconosciuto, di regola, per l’appunto al giudice che quella misura ha imposto, anche se la comparizione si prefiguri dinanzi ad autorità giudiziaria diversa da questa ma una simile disposizione non impone, tuttavia, di ritenere che per la comparizione dinanzi all’autorità giudiziaria diversa da quella della cautela l’indagato o imputato necessiti imprescindibilmente della suddetta autorizzazione nel senso che questa non è, cioè, condizione necessaria per la comparizione dell’imputato al proprio processo per causa diversa, sicché è improprio evocare il suddetto precetto per condizionare la presenza dell’interessato al processo alla autorizzazione del giudice che gli aveva imposto la misura: da attivare, dunque, allo scopo, ad opera dell’imputato.

In realtà, per la Corte di legittimità, il comma 2 dell’art. 22 citato rende evidente che l’esercizio del suddetto potere autorizzatorio è alternativo all’accompagnamento o alla traduzione e che l’autorità giudiziaria dinanzi alla quale la persona deve comparire resta comunque titolare di un autonomo potere di disporne la traduzione, nei casi in cui tale incombente risulti necessario ma, in tale eventualità, può rivivere il potere del giudice della cautela di riconoscere all’interessato, che si sia attivato presso di lui in tal senso, l’autorizzazione ad allontanarsi dal domicilio con mezzi propri, in luogo di avvalersi della traduzione.

In conclusione, gli Ermellini giungevano alla conclusione secondo cui l’art. 22 citato per nulla incide sul potere-dovere del giudice che procede di disporre, quando l’atto è dovuto, la traduzione dell’imputato dinanzi a sé, ed anzi espressamente lo menziona, mentre è invece da intendere, più semplicemente, come norma che attribuisce al giudice della misura coercitiva il potere di sostituire la traduzione eventualmente disposta da altro giudice con l’autorizzazione all’allontanamento con mezzi propri, valutandone i presupposti di sicurezza.

Orbene, sulla base dei presupposti fin qui esaminati, per la Corte di legittimità, non può che concludersi per la parificazione degli effetti delle forme di restrizione, carceraria o domiciliare, ai fini della valutazione dell’impedimento nel senso che il giudice che procede, nell’ipotesi in cui emerga, in qualsiasi modo, dagli atti la circostanza che l’imputato, libero nel suo procedimento, sia in condizione di restrizione di qualsiasi natura per altra causa, deve attivarsi a disporre l’ordine di traduzione, ed il rinvio del procedimento, qualora tale ordine non sia eseguibile per l’udienza già fissata – nell’ipotesi in cui tale conoscenza sia acquisita nell’Immediatezza della prima udienza e non sia possibile procedere utilmente all’emissione dell’ordine per quella data – con correlato obbligo di rinnovo dell’avviso mentre, nel caso in cui, invece, tale condizione non emerga dagli atti non può che farsi carico all’imputato correttamente citato, o al suo difensore, di comunicare la condizione di restrizione sopraggiunta, che abbia effetto impeditivo della libertà di accesso all’udienza dato che, a fronte della certezza della corretta citazione, nel rispetto della previsione di cui all’art. 420-bis, comma 2, cod. proc. pen., sarebbe impensabile, sul plano funzionale, gravare l’ufficio che procede di ricerche negli istituti carcerari o presso gli uffici giudiziari in ordine allo stato di restrizione, carceraria o domiciliare, in tutti i casi in cui l’imputato, libero per il procedimento in corso, non compaia e l’obbligo di procedere al rinvio ed alla traduzione dell’interessato per la nuova udienza si realizza in tal caso solo ove la condizione di restrizione sia portata a conoscenza del giudice entro le formalità di apertura del dibattimento, fase funzionale all’accertamento della regolare costituzione delle parti; ne consegue che è consentito procedere in assenza solo ove risulti la corretta citazione dell’interessato, e, qualora non sia stata formulata espressa rinuncia alla partecipazione, non emerga alcun impedimento alla comparizione, condizioni che, congiuntamente valutate, permettono di concludere per la volontaria sottrazione al processo e ne consentono la sua regolare instaurazione.

Del resto, per le Sezioni Unite, conferma della utilità della comunicazione eseguita in udienza, nel termine indicato, si trae dalla mancanza di un obbligo di tempestività della segnalazione dell’impedimento, previsto dall’art. 420-ter, comma 5, cod. proc. pen. solo con riferimento all’impedimento del difensore.

In assenza della comunicazione o della rilevabilità dagli atti processuali della condizione di restrizione domiciliare, la corretta costituzione del rapporto processuale esclude di conseguenza, per il Supremo Consesso, che il successivo accertamento di tale preesistente condizione possa assumere valenza invalidante dell’attività processuale antecedente a tale conoscenza: all’impossibilità per chi procede di accertare ogni ipotetica causa di assenza, anche se non dedotta, fa da contraltare l’onere, per chi ha ricevuto notizia diretta della citazione, di veicolare al proprio giudice l’informazione inerente alla  sua condizione di restrizione, onere che, in difetto di deduzione di cause impeditive della comunicazione entro la prima udienza, esclude ogni rilevabilità successiva di causa di nullità, non esposta, né altrimenti nota al giudicante.

Pertanto, in assenza di risultanze o comunicazioni che giustifichino la presenza di impedimenti, l’accertamento di regolare costituzione delle parti, effetto del controllo conclusosi con esito positivo sulla conoscenza da parte dell’interessato sia dell’accusa elevata, che della data e del luogo del processo, rende legittimo il procedimento in assenza fermo restando che, a tutela della tenuta complessiva delle garanzie, il sistema prevede rimedi all’assenza dell’imputato, anche nelle fasi processuali successive, che gli consentono il recupero dei diritti di partecipazione, a condizione che sia successivamente portata a conoscenza del giudice che procede la presenza di condizioni impeditive, quali l’impossibilita di comunicazione dell’impedimento a comparire alla prima udienza, determinata da caso fortuito o forza maggiore, o altro legittimo impedimento, la cui manifestazione sia intervenuta con ritardo non imputabile a colpa, o l’incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo secondo la previsione dell’art. 420-bis, comma 4, cod. proc. pen..

Di conseguenza, se nel corso del processo l’interessato porta a conoscenza dell’autorità procedente l’impedimento derivante dalla sua restrizione, carceraria o domiciliare, esistente fin dalla prima udienza, ove tale deduzione sia accompagnata dalla prova della presenza di condizioni impeditive della comunicazione entro la prima udienza di comparizione, inquadra bili nelle situazioni eccezionali richiamate, sarà revocata la dichiarazione di assenza e l’interessato sarà rimesso in termini per l’esercizio dei diritti di cui all’art. 420-bis, comma 4, cod. proc. pen. mentre, al contrario, se l’esplicitazione di tale impedimento, sia preesistente che sopraggiunto nel corso del processo, emerga dagli atti o sia comunicato, dall’interessato o dal difensore, in un momento successivo a quello della costituzione delle parti, fermo l’obbligo per il giudicante di disporre la traduzione, per consentire la partecipazione alle udienze successive alla notizia acquisita, l’imputato parteciperà al processo senza possibilità di recuperare le facoltà cui ha rinunciato non intervenendo, in quanto in tal caso non emerge che la decisione di non comparire alla prima udienza non sia stata libera.

D’altronde, come già posto in luce in un precedente della Corte di Cassazione (Sez. U, n. 15498 del 26/11/2020), la legittimità del giudizio in assenza viene assicurata, oltre che dai rigorosi accertamenti iniziali, dalla presenza di verifiche costanti sull’effettiva volontà dell’interessato di non partecipare, nel corso del giudizio di merito, che conducono al riconoscimento di specifiche forme di tutela del diritto di partecipazione: a) nel corso del giudizio di primo grado, con il rilievo attribuito agli accertamenti sopravvenuti, secondo il percorso appena accennato; b) nel corso del giudizio di appello, con la previsione di cui all’art. 604, comma 5 bis, cod. proc. pen. di annullamento della sentenza impugnata con la restituzione degli atti al giudice di primo grado, per la celebrazione del giudizio nell’ipotesi in cui sia fornita la prova della irrituale instaurazione del giudizio in assenza, per effetto del mancato rispetto delle condizioni per il suo corretto svolgimento, previste dagli artt. 420-ter e quater, cod. proc. pen..

Ciò posto, tali verifiche intermedie, a loro volta, sono funzionali a garantire lo sviluppo di un rapporto processuale scevro da vizi, fondato sulla piena consapevolezza dell’interessato del suo svolgimento, tenuto conto altresì del fatto che, da un lato, anche dopo la definizione del procedimento ed il passaggio in giudicato della sentenza, è prevista una verifica del rituale svolgimento del giudizio di merito con la possibilità di attivare il rimedio straordinario della rescissione, grazie al quale, in presenza delle condizioni legittimanti, l’imputato che dimostra la mancanza di conoscenza incolpevole del processo, e quindi l’illegittimità della dichiarazione di assenza, deve essere rimesso in termini per esercitare il suo diritto di difesa in un rinnovato giudizio di merito, dall’altro, solo il complesso di tali garanzie, unitamente alla mancanza di limiti all’esercizio del diritto alla partecipazione, basati su presunzioni di conoscenza o su un presunto difetto di Interesse a presenziare, consente di assicurare un modello processuale in linea con i principi costituzionali e convenzionali già espressi.

In definitiva, al quesito posto veniva data la seguente risposta:

La restrizione dell’imputato agli arresti domiciliari per altra causa, documentata o, comunque, comunicata al giudice procedente, in qualunque tempo, integra un impedimento legittimo a comparire che impone al medesimo giudice di rinviare ad una nuova udienza e disporne la traduzione“.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante essendo ivi chiarito, dopo un lungo e articolato ragionamento giuridico, che la restrizione dell’imputato agli arresti domiciliari per altra causa, documentata o, comunque, comunicata al giudice procedente, in qualunque tempo, integra un impedimento legittimo a comparire che impone al medesimo giudice di rinviare ad una nuova udienza e disporne la traduzione.

Tale condizione in cui versa l’imputato, pertanto, per effetto di questo arresto giurisprudenziale, costituisce un impedimento legittimo rispetto al quale il giudice non può che prenderne atto, rinviando ad altra udienza e disponendo la sua traduzione.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su codesta tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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