- Il fatto
- I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
- Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
- Conclusioni
Il fatto
La Corte di Appello di Bologna aveva confermato una sentenza pronunciata, in esito a giudizio abbreviato, dal Gup del Tribunale di Ferrara con cui, riqualificato il fatto di cui al capo 1) della rubrica ai sensi dell’art. 73, comma 5, d.P.R. 309/90, era stato assolto l’imputato dal reato di cui al capo 2) perché il fatto non costituisce reato.
In particolare, l’imputato era stato chiamato a rispondere del delitto di cui all’art. 73, comma 1, d.P.R. 309/90, per avere ceduto a terzi una dose di sostanza stupefacente di tipo eroina (capo 1) e del delitto di cui all’art. 586 cod. proc. pen. (capo 2) per avere, a seguito dell’anzidetta cessione, cagionato il decesso dello stesso, dovuto a edema polmonare acuto produttivo di insufficienza respiratoria acuta ed irreversibile, conseguente ad assunzione di eroina.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il provvedimento emesso dai giudici di seconde cure proponeva ricorso per Cassazione il difensore delle parti civili, che deduceva i seguenti motivi: 1) e 2) censure circa la riqualificazione del fatto nell’ipotesi attenuata di cui al comma 5 dell’art. 73 d.P.R. 309/90 sotto il profilo dell’inosservanza o erronea applicazione della legge penale e sotto il profilo della carenza contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione; 3) e 4) doglianze afferenti l’art. 586 cod. pen. con riguardo al duplice profilo dell’inosservanza o erronea applicazione della legge penale e della carenza contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione; 5) inosservanza o erronea applicazione della legge penale in ordine al mancato riconoscimento del risarcimento del danno in favore delle parti civili, pur essendo stata disposta una provvisionale.
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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il ricorso proposto nell’interesse delle parti civili era ritenuto fondato per le seguenti ragioni.
Si evidenziava a tal proposito innanzitutto, quanto al primo profilo, come dovesse essere ribadito il principio per il quale, in tema di attività illecite concernenti gli stupefacenti, l’evento morte dell’acquirente, in conseguenza dell’assunzione della droga ceduta, non costituisce, di per sé, elemento ostativo all’applicazione della fattispecie della lieve entità del fatto di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 309/90 (Sez. 6, n. 10022 del 25/02/2010) dato che, nel concetto di “globalità” dell’accertamento, ai fini del riconoscimento della fattispecie di lieve entità, non può paradigmaticamente ricomprendersi il verificarsi di tale evento, conseguito ad assunzione di sostanza stupefacente, ed addebitabile all’agente a titolo di colpa, consistita nella violazione della legge sugli stupefacenti e nella conseguente prevedibilità dell’evento letale (Sez. 6, n. 6339 del 11/03/1994, ove si è specificato che la nozione di “mezzi, modalità e circostanze dell’azione” va altresì ricollegata – conformemente ai decisa della Corte costituzionale di cui alle sentenze n. 333/1991 e n. 133/1992 – all’ambito proprio delle attività illecite), concernenti gli stupefacenti), restando, pertanto, al di fuori delle condizioni previste dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. 309/1990, un evento non voluto dall’agente ed esterno al regime della repressione penale in materia ed, oltre tutto, autonomamente addebitato applicando le disposizioni di cui agli artt. 586 e 589 cod. pen..
Ciò detto, si ricordava altresì che, ai fini del riconoscimento dell’anzidetta fattispecie attenuata, la consolidata giurisprudenza della Cassazione ha stabilito il principio a mente del quale il giudice del merito deve fornire una adeguata valutazione complessiva del fatto (in particolare, mezzi, modalità e circostanze dell’azione, qualità e quantità della sostanza, con riferimento alla percentuale di purezza della stessa), calibrando il giudizio sui fatti rigorosamente accertati, fedele alla ricostruzione fattuale nella sua interezza e fondato su una razionale analisi relativa alla combinazione di tutte le specifiche circostanze (Sez. 6, n. 38606 del 08/02/2018; Sez. 6, n. 1428 del 19/12/2017), solo in tal modo essendo possibile formulare un giudizio di lieve entità.
Orbene, a fronte di tale approdo ermeneutico, ad avviso degli Ermellini, nel caso di specie, il Giudice di Appello, sbrigativamente richiamandosi sul punto alla decisione del Giudice di primo grado, non aveva effettuato alcuna valutazione complessiva del fatto limitandosi ad affermare, pur in assenza di qualsiasi indicazione al riguardo, che «il quantitativo ceduto era davvero minimo» e che la cessione era stata «motivata da ragioni di amicizia», affermazione disancorata da qualsiasi riscontro e considerazione.
Parimenti apodittico si rivelava, poi, sempre per la Corte di legittimità, l’assunto per il quale, essendo anche la vittima assuntore di sostanze stupefacenti, sarebbe stato «sensibile alle accorate richieste dell’amico».
Terminata la disamina del primo motivo, per quanto concerne il secondo, concernente l’esclusione del reato di cui all’art. 586 cod. pen., i giudici di piazza Cavour facevano presente in via preliminare come la giurisprudenza elaborata in sede nomofilattica abbia da tempo delineato i parametri a cui ancorare la valutazione sulla relativa responsabilità.
In effetti, nel rispetto del principio di colpevolezza, escluso che la disposizione configuri una ipotesi di responsabilità oggettiva, si è affermato che, in «tema di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, la morte dell’assuntore di sostanza stupefacente è imputabile alla responsabilità del cedente sempre che, oltre al nesso di causalità materiale, sussista la colpa in concreto per violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma che incrimina la condotta di cessione) e con prevedibilità ed evitabilità dell’evento, da valutarsi alla stregua dell’agente modello razionale, tenuto conto delle circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente reale» (Sez. U, n. 22676 del 22/01/2009; Sez. 3, n. 41462 del 02/10/2012).
Anche nel caso di morte o lesioni conseguenti all’assunzione di sostanze stupefacenti, dunque, la responsabilità per questi ulteriori eventi a carico di colui che le abbia illecitamente cedute potrà essere ravvisabile quando sia accertata la sussistenza, da un lato, di un nesso di causalità fra la cessione e l’evento morte o lesioni, non interrotto da fattori eccezionali sopravvenuti, e, dall’altro, che l’evento non voluto sia comunque soggettivamente collegabile all’agente, ovvero sia a lui rimproverabile a titolo di colpa in concreto, valutata secondo i normali criteri di valutazione della colpa nei reati colposi.
In particolare – una volta fatto presente che il principio di colpevolezza, così come ha ribadito la Corte costituzionale, con la sentenza n. 322 del 2007, postula un coefficiente di partecipazione psichica del soggetto al fatto ed implica, quindi, che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente ed a lui rimproverabili, siano cioè investiti dal dolo o dalla colpa, avendo altresì chiarito che, nell’ambito delle diverse forme di colpevolezza, il legislatore ben può «graduare» «il coefficiente psicologico di partecipazione dell’autore al fatto, in rapporto alla natura della fattispecie e degli interessi che debbono essere preservati: pretendendo dall’agente un particolare “impegno” nell’evitare la lesione dei valori esposti a rischio da determinate attività», e ciò significa che, qualora si tratti della tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, il legislatore non solo può prevedere che sia sufficiente la sola colpa, invece del dolo, ma può anche richiedere un grado di attenzione ed un obbligo di conoscenza maggiori di quelli normalmente richiesti – gli Ermellini osservavano come, nell’ipotesi in esame, ricorresse una di queste situazioni, sia per la rilevanza costituzionale dei beni (vita ed incolumità fisica) tutelati, sia perché la natura astrattamente e genericamente pericolosa dell’attività è legislativamente segnalata dall’art. 81 del d.P.R. 309/1990 il quale, a sua volta, prevede la possibilità che l’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope possa cagionare la morte o lesioni personali dell’assuntore e che in tal caso possano essere configurabili i reati di cui agli artt. 586, 589 o 590 cod. pen. per chi abbia determinato o agevolato tale uso avendo il legislatore voluto che l’agente sia tenuto a prendere in considerazione tutte le eventuali circostanze del caso concreto e a desistere dall’azione (ossia dalla cessione dello stupefacente) sia quando taluna di queste circostanze evidenzi un concreto pericolo per l’incolumità dell’assuntore, e sia anche quando rimanga in concreto un dubbio in ordine alla effettiva pericolosità della stessa.
Ad avviso del Supremo Consesso, quindi, lo spacciatore potrà ritenersi esente da colpa quando una attenta e prudente valutazione di tutte le circostanze del caso concreto non faccia prevedere l’evento morte o lesioni mentre la colpa potrà, invece, essere ravvisabile quando la morte sia prevedibile, ed anche quando non sia prevista perché una circostanza pericolosa sia stata ignorata per colpa o sia stata erroneamente valutata, sempre per colpa.
In sintesi, la colpa non potrà essere ravvisata nella prevedibilità in astratto dell’evento morte, desunta dalla presunta frequenza, o dalla notorietà, o dalla ordinarietà di tale evento in seguito alla assunzione di sostanza stupefacente, o in un pericolo che sarebbe presuntivamente insito in qualsiasi cessione della sostanza, ovvero nella natura di talune sostanze più pericolose di altre fermo restando che la colpa andrà accertata sempre e soltanto in concreto sulla base delle circostanze di fatto di cui il soggetto era o poteva essere a conoscenza e che dimostravano il concreto pericolo di un evento letale a seguito dell’assunzione di una determinata dose di droga da parte dello specifico soggetto.
Precisato ciò, la Suprema Corte riteneva come nella fattispecie in esame la Corte territoriale non avesse fatto buon governo degli anzidetti principi avendo del tutto trascurato di valutare la sussistenza del coefficiente di concreta prevedibilità (e, dunque, di evitabilità), in capo all’imputato, del rischio connesso all’assunzione di stupefacente — peraltro, con così elevato principio attivo — da parte di un soggetto della cui recente scarcerazione e relativa disintossicazione forzata egli non poteva non essere a conoscenza.
Il conseguente stato di fragilità in cui si trovava l’assuntore, quindi, per la Cassazione fondava in concreto, la prevedibilità, da parte dell’imputato, del rischio di morte per overdose dell’assuntore della sostanza, tenuto altresì conto delle precedenti assunzioni di sostanza stupefacente di cui si è detto in narrativa.
La sentenza impugnata era dunque annullata, con rinvio, per nuovo giudizio, al giudice civile competente per valore in grado di appello.
Conclusioni
La decisione in esame desta un certo interesse essendo ivi chiarito quando, in tema di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, la morte dell’assuntore di sostanza stupefacente è imputabile al cedente.
Difatti, in tale pronuncia, dopo essere stato fatto presente, sulla scorta di un pregresso orientamento nomofilattico, che, in tema di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, la morte dell’assuntore di sostanza stupefacente è imputabile alla responsabilità del cedente sempre che, oltre al nesso di causalità materiale, sussista la colpa in concreto per violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma che incrimina la condotta di cessione) e con prevedibilità ed evitabilità dell’evento, da valutarsi alla stregua dell’agente modello razionale, tenuto conto delle circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente reale e, dunque, anche nel caso di morte o lesioni conseguenti all’assunzione di sostanze stupefacenti, la responsabilità per questi ulteriori eventi a carico di colui che le abbia illecitamente cedute potrà essere ravvisabile quando sia accertata la sussistenza, da un lato, di un nesso di causalità fra la cessione e l’evento morte o lesioni, non interrotto da fattori eccezionali sopravvenuti, e, dall’altro, che l’evento non voluto sia comunque soggettivamente collegabile all’agente, ovvero sia a lui rimproverabile a titolo di colpa in concreto, valutata secondo i normali criteri di valutazione della colpa nei reati colposi, si afferma che lo spacciatore potrà ritenersi esente da colpa quando una attenta e prudente valutazione di tutte le circostanze del caso concreto non faccia prevedere l’evento morte o lesioni mentre la colpa potrà, invece, essere ravvisabile quando la morte sia prevedibile, ed anche quando non sia prevista perché una circostanza pericolosa sia stata ignorata per colpa o sia stata erroneamente valutata, sempre per colpa; in altri termini, la colpa non potrà essere ravvisata nella prevedibilità in astratto dell’evento morte, desunta dalla presunta frequenza, o dalla notorietà, o dalla ordinarietà di tale evento in seguito alla assunzione di sostanza stupefacente, o in un pericolo che sarebbe presuntivamente insito in qualsiasi cessione della sostanza, ovvero nella natura di talune sostanze più pericolose di altre fermo restando che la colpa andrà accertata sempre e soltanto in concreto sulla base delle circostanze di fatto di cui il soggetto era o poteva essere a conoscenza e che dimostravano il concreto pericolo di un evento letale a seguito dell’assunzione di una determinata dose di droga da parte dello specifico soggetto.
Tale sentenza, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione ogni volta si debba verificare se, in ordine alla fattispecie delittuosa di cui all’art. 586 cod. pen., la morte dell’assuntore di sostanza stupefacente è effettivamente imputabile alla responsabilità del cedente.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, pertanto, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su codesta tematica giuridica, non può che essere positivo.
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