Indice:
- Il fatto
- I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
- Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
- Conclusioni
Il fatto
Il Tribunale di Macerata applicava, su concorde richiesta delle parti, nei confronti di persona imputata del reato di cui all’art. 8 d.lgs. 74/2000 per aver emesso e rilasciato, in qualità di l. r. della E. M. s.a.s., fatture per operazioni inesistenti al fine di consentire l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, la pena di otto mesi e sette giorni di reclusione.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il provvedimento summenzionato proponeva ricorso per Cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Ancona, con unico motivo, ossia vizio di violazione di legge riferito all’art. 1, comma 143, l. 244/2007, 322-ter c.p. e 12 bis d.lgs. 74/2000 in quanto, a suo avviso, la mancata disposizione della confisca deve trovare necessaria applicazione per i beni costituenti il profitto o il prezzo del reato.
In particolare, nel rilevare come lo specifico reato in contestazione, pur non contemplando per l’emittente le false fatture, a differenza dell’utilizzatore, un vantaggio fiscale, comporti di norma l’incameramento di un compenso versato da parte di chi delle suddette fatture abbia beneficiato, l’autorità requirente si doleva circa la mancanza di motivazione sul punto della confisca che, anche nel caso in cui il profitto non sia determinabile, deve comunque accompagnare la sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti.
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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il ricorso era ritenuto fondato per le seguenti ragioni.
Gli Ermellini evidenziavano a tal proposito innanzitutto che, secondo quanto previsto dall’art. 448, comma 2 bis, cod. proc. pen. – disposizione introdotta con la l. 23 giugno 2017, n. 103 -, il pubblico ministero e l’imputato possono ricorrere per Cassazione contro la sentenza di applicazione della pena su richiesta solo per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato stesso, e, quindi, al difetto di correlazione tra richiesta e sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza.
Ciò posto, per il Supremo Consesso, deve ritenersi correttamente ricompresa nella nozione di illegalità della pena anche l’omessa disposizione della misura di sicurezza quando la sua applicazione è prevista obbligatoriamente (cfr. da ultimo Sez. 3, n. 29428 del 08/05/2019) atteso che, così come risulta pena illegale quella eccedente, per specie o quantità, la sanzione astrattamente prevista per la corrispondente fattispecie incriminatrice, ovvero quella che si configuri come una sanzione non prevista dall’ordinamento giuridico, ivi compresa l’ipotesi in cui è stata determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione basato su una cornice edittale inapplicabile, perché dichiarata costituzionalmente illegittima o perché individuata in violazione del principio di irretroattività della legge penale più sfavorevole, secondo quanto già affermato dalla medesima Cassazione (Sez. U, n. 40986 del 19/07/2018, Sez. 5, n. 19757 del 16/04/2019), rientra, del pari, nell’ambito della stessa nozione, la mancata pronuncia della misura sicurezza imposta ex lege determinando una illegalità sul piano quantitativo della pena nel suo complesso (Sez. 3, n. 4252 del 15/01/2019).
Orbene, declinando tale criterio ermeneutico rispetto al caso di specie, i giudici di piazza Cavour notavano, essendo il reato in esame compreso tra quelli di cui al d.lgs. 74/2000 per i quali la confisca è prevista obbligatoriamente dall’art. 12 bis, come l’omessa pronuncia da parte del Tribunale lombardo integrasse, in quanto difforme dal modello legale previsto come obbligatorio, una statuizione illegale, non risultando che il giudice, il quale emette una sentenza di patteggiamento, è vincolato dall’accordo inter partes a fronte di una statuizione sottratta alla sfera di disponibilità delle parti e che non afferisce all’accordo negoziale concluso dalle medesime.
Infatti, sempre secondo la Suprema Corte, se è ben vero che solo l’utilizzatore delle fatture relative ad operazioni inesistenti ottiene automaticamente un profitto pari al risparmio di imposta che consegue con l’inserimento nella dichiarazione dei redditi o sul valore aggiunto delle fatture per operazioni inesistenti realizzando l’accrescimento, per l’appunto fittizio, dei costi, e che altrettanto non avviene per l’emittente che, realizzando invece una divergenza tra la realtà commerciale e l’espressione documentale della stessa, non acquisisce con l’emissione della falsa fattura alcun vantaggio fiscale, è altrettanto vero che però non per questo può omettersi di considerare che il reato di cui all’art. 8 d.lgs.74/2000, proprio perché finalizzato a consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, implica, di norma, l’incameramento da parte del suo autore di un compenso, quand’anche inferiore al profitto, ovverosia al risparmio di imposta, conseguito dall’utilizzatore delle fatture ideologicamente false, corrispondente al prezzo del reato medesimo e, poiché nella specie, sempre ad avviso della Corte di legittimità, nulla era stato disposto, né argomentato dal giudice di merito in ordine alla confisca obbligatoriamente prevista, né erano state evidenziate le ragioni che imponessero di escludere l’applicazione della misura ablatoria, doveva disporsi l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente a tale punto che, in quanto oggetto di statuizione officiosa del giudice, non incideva sull’accordo negoziale concluso dalle parti, con conseguente rinvio al Tribunale di Macerata affinché si pronunciasse sulla confisca.
Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante essendo ivi postulato, sulla scorta di un pregresso orientamento nomofilattico, una volta fatto presente che rientra nella nozione di illegalità della pena anche l’omessa disposizione della misura di sicurezza quando la sua applicazione è prevista obbligatoriamente, che la mancata pronuncia della misura sicurezza imposta ex lege determina una illegalità sul piano quantitativo della pena nel suo complesso che, in quanto tale, ben può essere dedotta e rilevata nei modi e nelle forme previste dal codice di rito penale.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, quindi, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su codesta tematica procedurale, non può che essere positivo.
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