- Origini ed evoluzioni del lavoro a distanza
- Tipologie principali del lavoro da casa
- La nuova organizzazione del lavoro: dal telelavoro allo smart working
1. Origini ed evoluzioni del lavoro a distanza
Le nuove forme del lavoro da remoto hanno una prima legittimazione in America, con il Clean Air Act[1] del 1990 in cui si assegnano bonus fiscali alle aziende che le introducono, e in Europa, con il cosiddetto “Rapporto Bangemann” del 1994[2] che, fra le sperimentazioni attese, contempla nuovi modelli lavorativi quali “il lavoro a domicilio e/o il telelavoro” (lasciandone intendere i margini di differenza). Sono queste le prime occasioni di modalità lavorative più flessibili e più rispondenti alle esigenze dei datori di lavoro, dei lavoratori e, ancor di più, di quelli svantaggiati (disabili), oltre che dell’intera collettività in termini sociali, energetici e ambientali. La considerazione trae spunto dal fatto che spostare ogni giorno milioni di persone da casa ai luoghi di lavoro non sia tanto più un’esigenza reale ma un’abitudine suppurata a danno di un’economia emergente, la new economy[3], con relazioni interpersonali sempre più richieste in una società globalizzata[4]. Di fatto, la soluzione risponde a differenti questioni: far fronte a un’emergenza inevitabile, mitigare gli effetti economici o di dipendenza strutturale dalle materie prime, offrire una sostenibilità maggiore in termini ecologici e di vivibilità degli individui. Sono questi i cardini sui quali si avvia e si compie la transizione del lavoro a distanza.
Dopo le sperimentazioni si impone la questione definitoria. La prima attestazione istituzionale che volge a un chiarimento nell’area europea arriva nei primi anni ’90 da parte di Eurofound[5], senza distanziarsi molto da quelle delle origini d’oltreoceano: “telelavoro è ogni forma di lavoro svolta per conto di un imprenditore o un cliente da un lavoratore dipendente, autonomo o a domicilio che è effettuata regolarmente e per una quota consistente del tempo di lavoro da una o più località diverse dal posto di lavoro tradizionale utilizzando tecnologie informatiche e/o delle telecomunicazioni”[6], ampliata alla particolare modalità di organizzazione ed esecuzione della prestazione lavorativa da declinare nelle varie tipologie di lavoro tipizzate in ciascun ordinamento e quindi siano esse subordinate, autonome o parasubordinate con le conseguenti peculiarità. Non è un caso che a quegli anni risalga anche la convenzione internazionale dell’OIL del 1996[7] subito accolta nella Raccomandazione della Commissione Europea[8] “per la rapida evoluzione” della questione, spingendo dichiaratamente gli stati membri ad una rapida ratifica[9] della convenzione OIL che promuove la parità di trattamento tra i lavoratori a domicilio e gli altri lavoratori dipendenti. L’accezione più semplice con cui tradurre il mutamento in atto diviene quella di “lavoro da casa”, in cui si rintraccia chiaramente l’elemento non occasionale dello svolgimento presso l’abitazione o in altri locali di libera scelta, comunque diversi dal luogo di lavoro del datore di lavoro e indipendentemente da chi fornisce le attrezzature, i materiali o altri elementi utilizzati al fine produttivo.
2. Tipologie principali del lavoro da casa
Discendono per l’OIL tre diverse tipologie di lavoro da casa:
- lavoro industriale a domicilio, in cui cioè la produzione si svolge a domicilio pur nel quadro della produzione di fabbrica;
- lavoro da casa su piattaforma digitale, in cui cioè finiscono i “crowdworkers” (cosiddetti lavoratori nella folla, ai quali somigliano i moderni riders o ciclofattorini[10]), non considerati generalmente lavoratori dipendenti ma autonomi;
- telelavoro, in cui cioè i lavoratori utilizzano le tecnologie dell’informazione e della comunicazione per svolgere il loro lavoro a distanza, da casa o in un altro luogo scelto e definito.
Il “telelavoro” come “lavoro a distanza” è proposto per la stragrande maggioranza delle tipizzazioni lavorative affermando, semmai ancora ce ne fosse bisogno, la propria predominanza. Sono gli anni in cui se ne prende progressivamente atto nei primi tentativi di risistemare la questione e avviare il dibattito di regolamentazione e tutela che fino ad allora non aveva mai ammesso “il domicilio come luogo di lavoro”[11]. Il segnale del cambiamento, in Italia, arriva nei primi Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro pronti a sperimentare nuove modalità di lavoro (telelavoro) come nel caso del settore delle telecomunicazioni nel 1996[12] o, nel pubblico impiego nel 1998, nell’ottica dell’ammodernamento della Pubblica Amministrazione tramite appositi progetti di telelavoro[13], fino al punto di coinvolgere le maggiori Confederazioni nazionali italiane di categoria che recepiscono nel 2004[14] l’Accordo Quadro Europeo di due anni prima[15], allo scopo di incrementare la produttività del lavoro e di agevolare la conciliazione tra vita e lavoro (work life balance[16]) nei diversi settori produttivi.
Il lavoro a distanza, sperimentato e introdotto nella contrattazione sindacale europea ed italiana nella forma del “telelavoro”, assume contorni e motivi sempre più precisi. Nell’evoluzione storica accennata fin qui si può quindi giungere a riordinare almeno due tratti variabili di esso, così come emersi ancor prima di ogni qualificazione giuridica, nell’ottica di censire le principali forme presenti: una variabile spaziale, intesa come lo spazio fisico dentro o fuori il quale è esplicata materialmente l’attività lavorativa, e una variabile tecnologica, intesa come l’insieme delle caratteristiche e modalità alternative con cui è possibile rende una prestazione di lavoro nell’ambito del rapporto di lavoro.
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3. La nuova organizzazione del lavoro: dal telelavoro allo smart working
Il salto dal telelavoro allo smart working arriva dalla forte spinta maturata ancora una volta davanti a nuovi eventi dello scenario internazionale: nel 2010 “la strategia Europa 2020 mira a fare in modo che la ripresa economica dell’Unione europea in seguito alla crisi economica e finanziaria si accompagni a una serie di riforme che stabiliscano fondamenta solide per la crescita e la creazione di occupazione da qui al 2020”[1]. Oltre alle prime avvisaglie della crisi finanziaria dovute al debito crescente e alle questioni ambientali più urgenti ci sono numerosi cambiamenti che incidono sulle imprese e sui lavoratori. Per i primi, l’esigenza di innovare e competere su mercati più ampi aumentando la produttività e, per i secondi, l’attenzione al miglioramento degli stili di vita e quindi alla conciliazione tra vita e lavoro (la work life balance già richiamata nei primi accordi europei delle parti sociali). La road map dell’Unione Europea guarda a tutte quelle misure legislative che “includono le iniziative volte a potenziare, emendare e, laddove necessario, introdurre una legislazione che consentano la diffusione del lavoro flessibile”[2]. Pur senza introdurre criteri e modalità nuove le legislazioni nazionali si avviano a percorsi di riforma che giungono all’istituzione di forme che discendono direttamente dal telelavoro ma che ne ampliano gli obiettivi e la consistenza. Se le caratteristiche del telelavoro erano state individuate nell’espressione delle due variabili (spaziale e tecnologica), la transizione allo smart working passa per l’introduzione di un’ulteriore variabile, quella temporale, relativamente alle nuove modalità di organizzazione dei tempi della prestazione lavorativa. Può essere considerato questo il momento storico della transizione per il quale si compie lo spillover. Da allora le denominazioni sulle nuove forme del lavoro a distanza sono proliferate senza prevederne ogni volta caratteristiche basilari discordanti (Smart Working[3] o Lavoro Agile in Italia, Flexible Working in Inghilterra, Work 4.0 in Germania, Activity Based Working in Olanda, ecc.) ma solo a seconda degli impianti normativi previsti dai diversi paesi anziché del principio base, comune a tutti, legato ad una necessaria e crescente flessibilità nell’organizzazione del lavoro sostenuta dall’Unione Europea in sede Parlamentare[4].
In Italia l’introduzione del concetto di smart working (successivamente italianizzato in lavoro agile) compare direttamente negli atti ufficiali del Parlamento mutuati da una consultazione pubblica preventiva[5] in occasione della proposta di legge del 2014 in cui si definisce una “forma flessibile e semplificata di telelavoro[6]“. Risulta palese la legittima paternità con il telework (ritenuto, dallo stesso atto parlamentare, inattuato o comunque fortemente sottoutilizzato nella grande maggioranza dei casi) pur distanziandosi dagli accordi interconfederali del 2004. In otto pagine di proposta legislativa si sdogana la nascita di una nuova flessibilità del lavoro, dichiaratamente diversa al telelavoro, con caratteristiche e obblighi propri (per il lavoratore e per il datore di lavoro) giustificata dal miglioramento della produttività e della soddisfazione dei lavoratori oltre che dal venir meno degli obblighi e dei costi per l’azienda fra i quali quelli della sicurezza sul lavoro, comunque presenti nel telelavoro. È qui che si rintraccia il cambio “di paradigma: dal lavoro legato alla presenza in azienda al lavoro per obiettivi, dove la lavoratrice e il lavoratore sono liberi di auto-organizzarsi a patto che portino a termine i progetti stabiliti nelle scadenze previste”. Il neologismo che contiene l’aggettivo “smart” (che sostituisce il più antiquato “tele”) ha contorni sfumati in quanto richiama sia l’espressione inglese traducibile in “intelligente”[7] sia, velatamente, il metodo “Smart[8]” della diffusa cultura manageriale, relativo alla gestione aziendale per obiettivi. Dunque, lavoro “intelligente” come lavoro “per obiettivi”. A poca distanza dalla prima proposta di legge sullo smart working si succede il disegno di legge del 2016 che include, fra le altre, “misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”[9] poi sancite definitivamente nella legge istitutiva del 2017 che regola il “lavoro agile”[10] in Italia. Lo smart working lascia quindi il posto solo a una nuova denominazione, “lavoro agile” appunto, fermi restando gli scopi “produttivi” e di “conciliazione vita-lavoro” già richiamati in passato. L’accento sulla qualità “agile” può essere riferito all’intenzione di far risaltare i larghi limiti posti allo svolgimento della modalità di lavoro che coincidono solo con la durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale (da legge e contrattazione collettiva) confermando quella mutazione dei rapporti generata dalle nuove forme di organizzazione pianificate per fasi, cicli e obiettivi, e in cui si perdono per sempre non solo vincoli di luogo ma anche quelli di orario.
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Note
[1] Il Clean Air Act viene introdotto nel 1970 e modificato più volte, rappresenta la normativa fondamentale che fissa la disciplina sulla qualità dell’aria negli Stati Uniti. In particolare, nelle modifiche apportate alla legge nel 1990 prevede la fissazione, da parte dell’Environmental Protection Agency (Epa), l’agenzia per la protezione dell’ambiente statunitense, di standard nazionali di qualità dell’aria.
[2] Il rapporto prodotto da un gruppo di esperti presieduto da Martin Bangemann, Commissario agli Affari Industriali, e poi adottato nel 1995 dalla Commissione Europea è denominato istituzionalmente “Libro Verde sulla liberalizzazione delle infrastrutture di telecomunicazione e delle reti televisive via cavo”.
[3] Insieme dei fenomeni economici, ma anche sociali e culturali, associati all’impetuoso sviluppo delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni (Information and Communication Technologies) che ha caratterizzato l’ultimo scorcio del 20° secolo a partire dagli Stati Uniti per poi estendersi agli altri paesi industrializzati (di Laura Ramaciotti – Dizionario di Economia e Finanza 2012, in Treccani.it).
[4] Antony Giddens ha definito la globalizzazione “l’intensificazione di relazioni mondiali che collegano tra loro località molto lontane” determinando tra loro una stretta interdipendenza” in Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna 1994.
[5] Eurofound, European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, è la Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro quale agenzia dell’Unione Europea di base a Dublino.
[6] Aa.Vv. The legal and Contractual Situation of Teleworkers in the Member States of the European Union: labour law aspects including self-employed, General Report, European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, Dublino, 1995.
[7] OIL, l’Organizzazione internazionale del lavoro è l’agenzia specializzata delle Nazioni Unite e la convenzione in questione è la numero 177, del 20 giugno 1996, sul lavoro a domicilio.
[8] Raccomandazione della Commissione del 27 maggio 1998 concernente la ratifica della convenzione OIL n. 177, del 20 giugno 1996, sul lavoro a domicilio.
[9] È da tener presente che, ad oggi, solo 10 Stati membri dell’OIL hanno ratificato la convenzione.
[10] La disciplina dei cosiddetti riders viene introdotta in Italia con il Jobs Act (D. Lgs. n. 81/2015) con tutele differenziate a seconda della tipologia di inquadramento lavorativo attraverso la Legge n. 128/2019.
[11] Convenzione OIL numero 177, del 20 giugno 1996, sul lavoro a domicilio.
[12] Il contratto del settore Telecomunicazioni viene siglato il 9 settembre 1996 tra Intersind, in rappresentanza di Stet, Telecom Italia, Telecom Italia Mobile e Nuova Telespazio, con le organizzazioni dei lavoratori aderenti a CGIL, CISL e UIL.
[13] L’introduzione nel nostro ordinamento è sancita con la Legge 16 giugno 1998 n. 191 (cosiddetta Bassanini ter) e il Decreto istitutivo del Telelavoro nella PA, DPR 8 marzo 1999 n. 70, che fornisce indicazioni sulle caratteristiche e i criteri per l’installazione e l’utilizzo delle postazioni di telelavoro.
[14] L’Accordo Interconfederale del 9 giugno 2004, in recepimento dell’Accordo Quadro Europeo sul telelavoro del 16 luglio 2002 è stipulato tra le maggiori organizzazioni nazionali di rappresentanza delle imprese dei diversi settori produttivi (Confindustria, Confartigianato, Confesercenti, Cna, Confapi, Confservizi, Abi, Agci, Ania, Apla, Casartigiani, Cia, Claai, Coldiretti, Confagricoltura, Confcooperative, Confcommercio, Confinterim, Legacoop, Unci) e le associazioni sindacali dei lavoratori più rappresentative (Cgil, Cisl, Uil).
[15] L’Accordo Quadro Europeo sul telelavoro è sottoscritto il 16 luglio 2002 tra le parti sociali rappresentative UNICE (Confindustria europea), UEAPME (Associazione europea artigianato), CES (Sindacato europeo), CEEP (Associazione europea delle imprese partecipate dal pubblico e di interesse economico generale) promosso dalla Commissione Europea nell’ambito della seconda fase della consultazione relativa alla modernizzazione ed al miglioramento del rapporto di lavoro.
[16] Sebbene è possibile far risalire il concetto pratico all’applicazione di turni lavorativi in alcune multinazionali statunitensi (la Kellogg Company nel 1930, tramite trasformazione degli usuali turni da otto ore per tre giorni alla settimana in turni da sei ore per quattro giorni, migliorandone migliore predisposizione al lavoro e produttività), nell’accezione più attuale riguarda la crescente attenzione all’equilibrio tra la vita personale e il lavoro professionale, come contenuto nel testo “Managing Work-life Balance: A Guide for HR in Achieving Organisational and Individual Change” di David Clutterbuck, del 2003.
[17] Nella comunicazione del 3 marzo 2010 la Commissione Europea illustra la strategia Europa 2020 “per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”.
[18] La citazione è contenuta nel documento elaborato dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Ufficio per gli Interventi in materia di parità e pari opportunità – sulla base dello studio “Telelavoro, Smartworking, Co-working – Linee guida per la progettazione integrata di misure e servizi di conciliazione innovativi” realizzato dal RTI Consedin SpA – Studio Come Srl nell’ambito del servizio di assistenza tecnica al POAT.
[19] La derivazione originaria del termine è controversa, a livello cronologico è possibile segnalarne l’uso nel testo di John Blackwell, Smartworking – A definitive report on today’s smarter ways of working, Jossey Bass, 2008.
[20] Risoluzione del Parlamento Europeo del 13/9/2016 (principio generale n° 48).
[21] La Proposta di legge numero 2014 riporta la modalità di consultazione avvenuta con pubblicazione on line nel blog del quotidiano nazionale Corriere della Sera (“La 27esima Ora”) e l’invio tramite e-mail a personalità e associazioni particolarmente attive nell’ambito delle politiche del lavoro e nello specifico esperte di flessibilità dell’organizzazione del lavoro.
[22] Proposta di legge numero 2014 di iniziativa dei deputati Mosca, Ascani, Saltamartini, Tinagli, Bonafè, Morassut, presentata il 29 gennaio 2014 dal titolo “Disposizioni per la promozione di forme flessibili e semplificate di telelavoro”.
[23] Secondo l’Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani S.p.A., il neologismo smart working è espressione inglese composta dall’aggettivo “smart” (intelligente) e dal sostantivo “working” (lavoro, occupazione).
[24] Il metodo “Smart” è presente nel testo di Peter Drucker del 1954 “The Practice of Management”, come parte integrante della filosofia di gestione aziendale MBO (Management by Objectives) per la definizione di obiettivi che secondo cinque criteri che corrispondono ai termini anglosassoni che compongono l’acronimo “S.MA.R.T.”: Specific, Measurable, Achievable (raggiungibile), Realistic (realistico), Time-Based (a scadenza).
[25] È il Disegno di Legge presentato dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali numero 2233 del 2016.
[26] La Legge 22 maggio 2017 numero 81, recante “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”.
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