Indice
- Cosa s’intende con emersione del lavoro irregolare
- Il fatto e i riferimenti di diritto del caso in questione
- La decisione del Consiglio
- Conclusioni
1. Cosa s’intende con emersione del lavoro irregolare
La sanatoria, o più tecnicamente l’ emersione del lavoro irregolare è un processo attraverso il quale si provvede a rendere ufficiale, alla pubblica autorità, la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare, instaurato con lavoratori di qualsiasi cittadinanza (anche, in alcuni casi, extracomunitari non in regola con i documenti di soggiorno).
Si tratta di un provvedimento eccezionale che ha costituito, finora, uno dei pilastri principali della politica migratoria. In particolare, nel 2020, con il decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (convertito dalla L. 17 luglio 2020, n. 77), era stato introdotto con l’indicazione di una finestra temporale prevista dal 1 giugno al 15 luglio 2020.
2. Il fatto e i riferimenti di diritto del caso in questione
Il 19 giugno 2020 un datore di lavoro aveva presentato istanza di emersione del rapporto di lavoro irregolare nell’interesse di una persona di cittadinanza straniera, ai sensi del già citato decreto legge. Non avendo ricevuto risposta, il 30 luglio 2021 aveva presentato ricorso al TAR, basando la sua richiesta sul il termine generale di 30 giorni entro il quale il procedimento amministrativo deve essere concluso, qualora non siano previsti dall’ordinamento giuridico specifici e diversi termini, indicato dall’art. 2, comma 2, l. n. 241 del 1990. Il TAR aveva concordato con questa tesi, ma il Ministero aveva impugnato la sentenza del TAR, deducendo il vizio di “violazione e falsa applicazione dell’art. 103 del D.L. 34/2020, convertito con legge n. 77 del 2020”, argomentato mediante il richiamo all’orientamento espresso dal Consiglio per il quale, ai sensi dell’art. 2, comma 4, della L.241 del 1990, la materia dell’emersione deve ritenersi esclusa dall’intero sistema dei termini per il procedimento amministrativo.
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3. La decisione del Consiglio di Stato
Il Consiglio riconosce che 180 giorni in materia di procedimenti amministrativi, nell’ambito della L 241 del 1990, è una doppia deroga, sia al termine normale di 30 giorni sia a quello derogatorio di 90. Tuttavia, fa notare che “lo stesso articolo 2 ha previsto che per questi procedimenti (NDR: i procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e di quelli riguardanti l’immigrazione) (e solo per loro) l’ordinaria durata possa essere più lunga, da un lato per la loro particolare e intrinseca complessità e dall’altro per il pressoché certo altissimo numero dei procedimenti amministrativi.”. Da ciò trae che la disciplina dei procedimenti sull’immigrazione e sulla cittadinanza, rispondendo ad esigenze organizzative particolarmente complesse, sia svincolata dalla disciplina ordinaria, e risponda a termini propri.
Trova poi questi termini riferendosi al comma 4 dello stesso articolo, dove la formulazione indica una non-subordinazione della materia in questione alle condizioni procedurali previste ( “[…]I termini ivi previsti non possono comunque superare i centottanta giorni, con la sola esclusione dei procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e di quelli riguardanti l’immigrazione.”); non prevedendo una condizione o dei termini in materia, il termine di 180 giorni (considerato il termine non plus ultra per gli altri procedimenti) diventa il termine accettabile per i procedimenti sull’immigrazione e sulla cittadinanza. Il Consiglio di Stato ha dunque subordinato la richiesta dell’appellato al termine di 180 giorni; tuttavia, essendo stato anche questo termine ampiamente evaso dal Ministero, ha imposto allo stesso di chiudere il procedimento entro 90 giorni.
4. Conclusioni
Questa sentenza si inserisce in un solco di giurisprudenza ben tracciato dal Consiglio di Stato (n.891 del 2014, n. 4607 del 2014, n. 206 del 2015, n. 5265 del 2015, n.1425 del 2016), ma che diventa necessario ribadire alla luce dei nuovi provvedimenti emanati. Viene dunque ribadito che il procedimento amministrativo ordinario e il procedimento sull’immigrazione e la cittadinanza, ai sensi della L. 241 del 1990, viaggiano su binari separati, e rispondono a termini diversi.
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