L’intervista “incriminata”
Parlando del rapporto delle donne nel mondo del lavoro, la stilista esordisce dicendo che se un imprenditore assume una donna e la pone in posizione di dirigente apicale, poi non può permettersi di non vederla per due anni perché la donna rimane incinta. Un imprenditore investe tempo e denaro nei propri dipendenti, e se un dirigente ti viene a mancare è un problema, quindi anche lei, confessa candidamente, ha spesso puntato sugli uomini in passato per i ruoli di responsabilità nella sua azienda.
E fin qui, diciamo che siamo su un terreno scivoloso, ma insomma, gestibile. La presentatrice-intervistatrice, infatti, cerca di alzarle la palla, affermando che certo, le donne stanno tanto lontane dal lavoro dopo la gravidanza, perché i loro uomini non le aiutano abbastanza a casa.
Ma si spinge oltre l’intervistata, affermando che lei, nella sua azienda, ha moltissime donne in ruoli dirigenziali, ma sono tutte “over anta”, ragazze già cresciute, che hanno già fatto tutto il giro familiare più o meno canonico: matrimonio, figli, eventualmente anche una separazione, e sono disponibili per lavorare con lei “accaventiquattro”, orribile espressione che tuttavia va molto di moda nel mondo del lavoro (figuriamoci poi se il lavoro è nel mondo della moda). Con estrema costernazione della moderatrice, che tenta di interloquire opponendo che lei stessa, la Elisabetta Franchi, ha figli, e che quindi dovrebbe essere maggiormente ben disposta nei confronti delle neo mamme, la nostra mattatrice, non paga, prosegue nella sua escalation, affermando che intanto lei è tornata a lavorare dopo dodici minuti dal parto, e che, se ci pensiamo bene, la biologia non scherza e che comunque la si voglia mettere l’istinto primordiale delle donne è quello di fare figli e che sono loro che tengono acceso il “camino” a casa (non ben chiaro se si riferisse al focolare domestico, o se desse per scontato che in tutte le case delle donne italiane ci sia un camino reale e funzionante, ma il concetto è apparso ad ogni buon conto abbastanza chiaro).
E tanti cari saluti a secoli di lotte femministe, RIP suffragette e addio alla cultura della parità di genere. Tutto in poco più di 100 secondi.
Le reazioni del web
Come era ampiamente prevedibile, le reazioni del mondo del web non si sono fatte attendere ed hanno rovesciato addosso alla stilista una tale quantità di odio, insulti, video in risposta, da fare invidia al Trump dei giorni migliori; in qualche (rara purtroppo) occasione le risposte sono state esternate con ironia e urbanità, ma la stragrande maggioranza del popolo italico, maschile e, soprattutto, e ovviamente aggiungerei, femminile, ha condannato la boutade della Franchi in maniera trasversale e unanime. Una crocifissione in sala mensa in piena regola, che nelle intenzioni dei più avrebbe potuto essere tranquillamente non solo metaforica e mediatica, ma reale e fisica.
Dopo aver inizialmente tentato di corroborare la sua posizione, accusando di strumentalizzazione gli organi di stampa (avendo però ascoltato le parole dell’intervista dalla viva voce della Franchi, posso confermare che c’era ben poco da strumentalizzare o equivocare) la Franchi ha successivamente ritrattato ufficialmente la sua dichiarazione sui social del proprio brand, affermando di essersi espressa in modo “inappropriato”.
Qualche riflessione in libertà
La signora Franchi si è infilata in un bel cul de sac, poco ma sicuro.
L’ha, volontariamente e consapevolmente, “toccata pianissimo” su argomenti e temi caldi, che fanno vibrare corde delicatissime, si è avventurata in un terreno scivoloso, dove è praticamente impossibile esprimere un parere articolato che si dissoci dal “pensiero comune”, figuriamoci poi parlare senza mezzi termini di ruoli maschili e femminili davanti al popolo di Internet, nel pieno della cultura, della parità, del non binario, della fluidità non solo dei generi, ma anche e soprattutto dei ruoli.
Diciamo la verità, se la poteva risparmiare.
E tuttavia.
E tuttavia, se provassimo per un fuggevolissimo attimo fuggente a riflettere sulle parole della stilista giusto un secondo prima di avventarci sulla tastiera a sparare insulti a raffica (insulti che, peraltro, mai e poi mai avremmo il coraggio di rivolgere né alla Franchi né a nessun altro di persona, segno inequivocabile che la piaga sociale dell’hate speech e dei leoni da tastiera purtroppo non accenna a ridursi, ma al contrario dilaga peggio delle cavallette in Egitto) forse il nostro livello di scandalo subirebbe un forte ridimensionamento. Certo, per farlo servirebbero capacità di analisi, pensiero critico, volontà di mettersi nei panni altrui e una buona dose di empatia, ma proviamoci per un momento tutti insieme.
La parità dei sessi è un tema su cui non voglio spendere nemmeno mezzo secondo, perché mi auguro vivamente che non ce ne sia bisogno. Il problema, a mio modo di vedere, è la confusione che si è creata tra i concetti di parità e uguaglianza.
Uomini e donne sono o dovrebbero essere pari, ma non sono e non saranno mai uguali. Lo dice anche la nostra Costituzione, che quando sancisce il principio di uguaglianza sostanziale, art. 3 secondo comma, stabilisce che debbano essere trattati in modo uguale situazioni uguali e in modo diverso situazioni diverse. È la base della democrazia e dello stato sociale, perché se così non fosse non avrebbero senso, ad esempio, gli aiuti ai soggetti fragili o deboli, o alle famiglie numerose, oppure le politiche di ricollocamento sul lavoro dei disoccupati.
Perseguire la parità nel rispetto della diversità dovrebbe essere l’obiettivo, ma il vero tema è che non dovrebbe creare scandalo dire che gli uomini e le donne sono diversi e hanno ruoli diversi. Lo siamo, diversi, e diverso è bello, diverso arricchisce, accresce, completa.
Usciamo alla sera, invece di stare in casa, per fare qualcosa di diverso; facciamo un viaggio in un paese esotico per vedere qualcosa di diverso (di certo non andiamo a cercare chiese in Tailandia o rovine romane a Bali); andiamo in un ristorante etnico perché vogliamo mangiare qualcosa di diverso. Non c’è niente di sbagliato o di inferiore nel diverso.
Un altro tema che andrebbe analizzato con maggiore profondità e non buttato lì in mezzo minuto di intervista televisiva è quello delle scelte.
La vita è fatta di scelte
Ogni giorno facciamo scelte, piccole o grandi che siano e ogni scelta comporta una rinuncia, perché fa morire tutte le altre possibilità della vita. Il sentire comune, il pensiero generalista e generalizzato insegna a noi e soprattutto ai nostri figli che possiamo fare qualsiasi cosa, che possiamo essere chiunque vogliamo essere, che l’unico limite è la nostra inventiva, creatività e immaginazione.
Se vuoi, puoi. Se puoi sognarlo, puoi farlo.
Bè, sono consapevole di stare per scrivere una cosa estremamente impopolare, ma non è così. Non è vero che basta sognare qualcosa per poterla realizzare, non è vero che si può avere tutto, non è vero che basta credere fortemente in qualcosa per ottenerla: ci vogliono tenacia, talento, impegno, costanza, fatica, intuizione, dedizione, nonché una bella dose di fortuna, che senza quella, ahinoi, non si va da nessuna parte. Uno su mille ce la fa, cantava il Morandi nazionale, e ho sempre pensato che fosse un inguaribile ottimista. Forse uno su un milione, sarebbe stata una stima più realistica.
Anche le donne, come tutti, devono fare delle scelte nella vita, e quando la scelta posta davanti a loro diventa tra famiglia e carriera, tra lavoro e figli, allora sì che le cose si fanno complicate.
Perché non si può fare tutto. Bisogna scegliere.
Il punto non è, sempre a mio parere, che le donne debbano scegliere tra famiglia e carriera.
Tutti lo fanno.
Anche gli uomini scelgono tra famiglia e carriera, è stato così da sempre. Per ogni manager sulla cresta dell’onda, ci sono figlioli a casa che crescono con le amorevoli cure di una baby sitter. Per ogni super dirigente, per ogni CEO, per ogni presidente di consiglio di amministrazione ci sono partite di calcio perse, saggi di danza mancati, lezioni aperte di nuoto deserte e bambini visti solo da addormentati per un bacio tardivo al rientro dal lavoro.
Il punto è essere o non essere costrette a farlo.
Il punto è considerare una mamma meno mamma se sceglie di puntare sul lavoro e coinvolge il compagno nella gestione della prole; il punto è considerare una donna meno realizzata se preferisce gestire figli e famiglia invece di lavorare “accaventiquattro”, per riprendere l’espressione usata dalla Franchi.
Il punto è fornire alle madri, ma anche ai padri, il welfare ed i servizi necessari, adeguati, per una gestione bilanciata delle incombenze lavorative e familiari che pesi sulle spalle di entrambi i genitori in maniera pari e secondo le scelte reali, consapevoli, libere di ciascuna e di ciascuno.
Perché è vero che le imprese non possono permettersi di non vedere una top manager per due anni perché la top manager è impegnata a gestire i propri figli a casa.
Ma è anche vero che a quella manager, a quella donna, a quella madre deve essere fornita una scelta, che lei potrà compiere liberamente, consapevolmente e soprattutto alla pari con tutti i suoi colleghi manager, uomini, padri.
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