- L’ambito di applicazione della tutela restitutoria per i fatti rientranti in una sanzione conservativa del CCNL
- Il fatto
- La massima della sentenza n. 13065 del 26.04.2022 della Suprema Corte
1. L’ambito di applicazione della tutela restitutoria per i fatti rientranti in una sanzione conservativa del CCNL
L’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, la cui rubrica reca “tutela del lavoratore in caso di licenziamento”, enuclea le fattispecie di licenziamento illegittimo sottoposte a tutela reintegratoria, nonché a tutela economica. In proposito, v’è da dire che il legislatore del 2012, con la riforma dello stesso anno, la n.92 (c.d. riforma Fornero), ha “raschiato” il testé richiamato articolo 18, limitando la tutela restitutoria a determinate ipotesi. Parimenti, la l. n. 92/2012 ha ridefinito il sistema sanzionatorio che, oggi, si presta a differenti ipotesi di illegittimità cui fanno seguito determinate tipologia di tutela. Sul tema, taluni affermano che il nuovo sistema rappresenta una fattispecie a gravità decrescente e rilevanza residuale.[1] La formulazione della norma in commento, rivisitata dalla riforma Fornero, ha introdotto, per chiarezza, due tutele reali, una piena e l’altra attenuata, e due tutele obbligatorie, una con indennizzo pieno (4-24 mensilità) e l’altra con indennizzo attenuato (6-12 mensilità).[2]
In ogni caso, questa sede non si presta ad una enunciazione di dettaglio circa le singole tutele cui godrebbe il prestatore nel caso il licenziamento illegittimo, ma ha l’esclusiva finalità di evidenziare che la reintegra del posto di lavoro per quei fatti che rientrano “tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”, è applicabile ai lavoratori assunti sino al 6 marzo 2015 con contratto a tempo indeterminato da imprese che, alla predetta data, avevano alle dipendenze più di 15 dipendenti. Orbene, la giurisprudenza che l’autore commenterà a seguire non trova applicazione per i lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti, per i quali – in linea con i dettami di cui al d.lgs. n. 23/2015 – il giudice è costretto a dichiarare estinto il rapporto di lavoro alla data di licenziamento, e condannare il datore di lavoro al pagamento di un’indennità che va da un minimo di 6 mensilità ad un massimo di 36, [3] anche nel caso in cui il fatto rientri in una delle sanzioni conservative del CCNL, ovvero nel codice disciplinare.
2. Il fatto
La dipendente della società X, il giorno 14 agosto 2017, giorno di permesso ex lege n. 104/1992, concesso per assistere la madre disabile, si trovava in villeggiatura. La mamma della lavoratrice, pur tuttavia, alloggiava in altro luogo. La società datrice, orbene, a valle del procedimento disciplinare ex art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, comminava la sanzione espulsiva del licenziamento esponendo, a sostegno della stessa, la violazione dei “principi di correttezza e buona fede, nonché gli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà’”; secondo la società datrice, inoltre, la condotta della prestatrice avrebbe cagionato disagi e disservizi nell’organizzazione del lavoro”. La società, altresì, ha evidenziato che, “in sede di giustificazioni, la lavoratrice non ha negato l’effettività del fatto specificamente contestato, scusandosi dell’errore commesso di cui ha riconosciuto la gravità, adducendo quali motivi l’improvvisa indisponibilità espressa dalla madre soltanto nella tarda serata del giorno prima (13/08/2017) a raggiungerla, come concordato, presso la località di villeggiatura e, quanto al mancato tempestivo rientro, le proprie condizioni di salute, anche in relazione alla guida di notte per lunghi tragitti ed al traffico che avrebbe trovato; in giudizio ha altresì allegato di non aver pensato di avvertire l’azienda del fatto che il 14.8. non avrebbe potuto materialmente assistere la madre e comunque di essere ripartita per (OMISSIS) in treno nel pomeriggio dello stesso giorno, disdettando la prenotazione dell’albergo”.
La dipendente, impugnando il licenziamento nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92/2012, ricorreva al Tribunale in funzione del giudice del lavoro. Il suindicato Tribunale condannava la società alla reintegra del posto di lavoro e al pagamento dell’indennità risarcitoria secondo i canoni stabiliti dal co. 4 dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
La società datrice, ai sensi dell’art. 1, co. 47, della l. n. 92/2012, si opponeva alla sentenza di primo grado con reclamo presentato alla Corte d’Appello di Bologna. Quest’ultima confermava con sentenza il provvedimento del giudice di primo grado di applicazione delle “conseguenze sanzionatorie previste dalla L. n. 300 del 1970, articolo 18, comma 4, e successive modifiche e integrazioni”.
La società datrice, quindi, presentava ricorso alla Corte di Cassazione adducendo, quali motivi di censura, la “violazione e falsa applicazione degli articoli 1362 e 1363 c.c. in relazione agli articoli 115 e 116 c.p.c” e “la violazione e la falsa applicazione della L. n. 104 del 1992, articoli 33, comma 3, in relazione agli articoli 2104, 2105, 2106 e 2119 c.c.”.
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3. La massima della sentenza n. 13065 del 26.04.2022 della Suprema Corte
Secondo la Corte, “i motivi, congiuntamente scrutinabili per connessione”, sono inammissibili anche “sulla scorta del principio di diritto affermato da questa Corte (Cass. n. 11665 del 2022), qui ribadito: “In tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, articolo 18 commi 4 e 5, come novellata dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l’illecito con sanzione conservativa anche laddove sia espressa attraverso clausole generali o elastiche. Tale operazione di interpretazione e sussunzione non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando tale operazione di interpretazione nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo”.
La Corte, inoltre, ha affermato che “laddove la fattispecie punita con una sanzione conservativa sia delineata dalla norma collettiva mediante una clausola generale o elastica, graduando la condotta con riguardo ad una sua particolare gravità ed utilizzando nella descrizione della fattispecie espressioni che necessitano di essere riempite di contenuto, sicuramente rientra nel compito del giudice riempire di contenuto la clausola utilizzando standard conformi ai valori dell’ordinamento ed esistenti nella realtà sociale in modo tale da poterne definire i contorni di maggiore o minore gravità, perché all’interprete è demandato di interpretare la fonte negoziale e verificare la sussumibilità del fatto contestato nella previsione collettiva anche attraverso una valutazione di maggiore o minore gravità della condotta“.
In sintesi, dunque, la Corte di Cassazione, sulla scorta del principio già affermato dalla stessa con sentenza n. 11665 del 2022, ha asserito che il giudice, al fine di reintegrare il lavoratore illegittimamente licenziato, può sussumere la condotta contestata anche nelle clausole del CCNL, prevedenti una sanzione conservativa, che abbiano formulazione generica o elastica.
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Note:
[1] M.T. CARINCI, Il rapporto di lavoro al tempo della crisi, Giornate di studio di Diritto del Lavoro AIDLASS, 7-9.6.2012, Pisa, 19; COLOSIMO, Prime riflessioni sul sindacato giurisdizionale nel nuovo sistema di tutele in caso di licenziamento illegittimo: l’opportunità di un approccio sostanzialista, DRI 2012, 4, 1026.;
[2] R. Del Punta, F. Scarpelli (a cura di), Codice commentato del lavoro, Wolters Kluwer, I edizione, 2020, 1056
[3] Sul punto si veda la sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale
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