A ridosso dell’uscita sul piccolo schermo di Mucho Mas, il docufilm realizzato da Amazon Prime sulla vita e la fortuna di Gianluca Vacchi, influencer da 50 milioni di follower (e da molti più milioni di euro), il popolo di Internet ha trovato un nuovo caso a cui appassionarsi e precisamente quello della ex colf del ballerino dj e imprenditore, che lo avrebbe denunciato per maltrattamenti sul luogo di lavoro, sfruttamento, turni di lavoro massacranti, mancata corresponsione dei giusti salari e altre cose brutte che le persone per bene non dovrebbero fare, soprattutto se queste persone dispongono di svariati milioni di euro per retribuire adeguatamente il proprio personale. Non solo, ma l’influencer bolognese, a detta della colf accusatrice, la avrebbe anche insultata e fatta bersaglio di lancio di oggetti, a causa di suoi errori (suoi della dipendente) nelle coreografie dei balletti. Per un normale rapporto datore di lavoro-dipendente questo particolare non potrebbe che fare ridere, ma conoscendo l’importanza che hanno i balletti nella strategia di comunicazione di Vacchi, c’è poco da fare gli spiritosi.
Va da sé che la solidarietà della rete è andata tutta alla dipendente: seguiamo come piccoli fedeli brachetti ogni personaggio pubblico dalla vita brillante e patinata, ma non vediamo l’ora di vederli scivolare nelle miserie umane che affliggono tutti, almeno una volta nella vita, per scagliarci addosso a loro e fare scempio delle loro carni, stavolta come alani incarogniti. E nell’espressione di grande solidarietà che ha raggiunto la colf, seguita, naturalmente, da una paritetica e complementare onda di violenza verbale che si è riversata sull’influencer, è stata richiesta a gran voce la sospensione della programmazione del film Mucho Mas, il suo ritiro dal palinsesto di Prime con minaccia di annullare l’abbonamento in caso di mancata risposta positiva da parte di Amazon.
Questa abitudine di chiedere la cancellazione di programmi televisivi “scomodi”, per un motivo o per un altro, non è nuova. Successe qualche mese fa con la Squid Game, la serie coreana culto di Netflix che sbancò il botteghino e che fece discutere per la presunta connessione con episodi di violenza nelle scuole, fin dalle elementari: ne parlammo in questo articolo.
Ma allora come ora, la censura non è la soluzione, e come in quel caso non lo scrissi perché fan della serie (che non avevo e non ho tuttora guardato) così oggi non lo dico perché sono follower del Vacchi (che anzi non mi sta nemmeno particolarmente simpatico, se devo proprio dirla tutta).
Ritirare dalla programmazione il film non solo non renderebbe alcuna giustizia alla dipendente, ma non farebbe un euro di danno nemmeno alla controparte. Ritirare dalla programmazione il film servirebbe solo a “placare” le nostre coscienze dalla coda di paglia piuttosto spessa, che prima ci facciamo affascinare da questi personaggi mirabolanti e dalla loro vita fantastica e poi ci scandalizziamo quando agiscono sopra le righe. Gli unici a rimanerne danneggiati, ma sul serio, sarebbero i moltissimi lavoratori che hanno contribuito alla sua realizzazione, montatori, cameraman, elettricisti, addetti al set, dipendenti di Amazon e insomma tutta quella schiera di “invisibili” che alla fine di ogni film affollano i titoli di coda, i cui nomi nessuno legge, ma le cui professionalità sono quelle che rendono possibile il nostro intrattenimento. Sono loro e solo loro che avrebbero da ridire se la produzione venisse cancellata.
Non solo. I processi, quelli in cui ci sono due parti contrapposte che espongono ragioni contrastanti e cercano di convincere un terzo imparziale, il giudice, a dare loro ragione, si fanno in Tribunale. Non sui social, non in televisione (chiedo scusa, ma ho un’età per cui ancora mi ricordo le ricostruzioni di Bruno Vespa a Porta a Porta dei casi giudiziari più eclatanti e ancora mi sento male al solo pensiero) e questa regola, ahinoi, vale per tutti, anche per quelli che ci stanno antipatici. Anche per GV, che non sarà la persona più piacevole e amabile del mondo, ma per cui valgono le stesse regole del gioco.
Sempre in merito alla spinosa vicenda della colf maltrattata, da alcuni giorni girano sui social, anche ad opera di testate giornalistiche di tutto rispetto, file audio in cui si riconosce chiaramente la voce del dj bolognese imprecare in modo non proprio da gentleman proprio contro il suo personale di servizio. E di nuovo, per quanto mi dolga farlo, sono costretta a ricordare che la registrazione di conversazioni private è consentita tra le parti e può essere utilizzata in giudizio come elemento di prova, ma la diffusione delle stesse, senza il consenso di chi è coinvolto, configura un trattamento illecito di dati personali e come tale va, o andrebbe, sanzionata.
In occasione dello spettacolo del primo maggio dell’anno scorso, i più attenti tra noi ricorderanno che vi fu bagarre tra Fedez, incaricato di condurre il “concertone” di Roma, e i vertici di Rai3, per concordare che cosa il rapper potesse o non potesse dire dal palco. Fedez registrò e poi pubblicò sulle proprie pagine social quella telefonata, e vi fu sostanziale unanimità nel dire che quelle registrazioni, ancorché legittime da un punto di vista squisitamente processuale, non avrebbero dovuto essere diffuse dal rapper.
Ecco, siccome la rete, tra le altre cose, non dimentica, dovremmo anche noi ricordarci le battaglie che abbiamo combattuto in passato e imparare che usare due pesi e due misure non è il modo corretto per approcciare le “cause sociali” che decidiamo di abbracciare.
Anche se questo significa, per un breve, fuggevole momento, dare ragione persino a Gianluca Vacchi.
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