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1. Risarcimento-indennizzo: le principali differenze
Nell’accezione comune i termini indennizzo e risarcimento, vengono, sovente utilizzati come sinonimi.
L’errore, di per sé, poggia sulla considerazione che entrambi siano una specie di rimborso, talvolta di natura pattizia o altre volte previsto dalla legge, al fine di “compensare” l’eventuale danno arrecato alle persone o alle cose.
Nella realtà e soprattutto in ambito giuridico, questi termini non sono sinonimi; difatti, tra i medesimi istituti giuridici in commento, esistono profonde e nette differenze.
Innanzitutto, il primo tratto distintivo riguarda l’ammontare, ossia il quantum dell’indennizzo riconosciuto, il quale, il più delle volte, può essere molto inferiore rispetto a quello che si potrebbe ottenere con la richiesta di risarcimento.
Ciò accade, in quanto, l’indennizzo viene quantificato, nella maggior parte dei casi, attraverso un procedimento predeterminato, astratto e a carattere forfettario, quindi, non necessariamente commisurato all’effettività del danno riportato e a mente di tale impostazione, potrebbe non essere idoneo a coprire tutti i pregiudizi, in concreto, sofferti dal danneggiato.
Il risarcimento, invece, sotto tale aspetto, può definirsi “pienamente satisfattivo”, in quanto ricomprende il ristoro integrale di tutti i danni patiti, ovviamente se questi opportunamente dimostrati, circostanza, quest’ultima, non richiesta ai fini del riconoscimento dell’indennizzo.
Ulteriori differenze attengono alla fonte dalla quale scaturisce l’obbligo di versare l’indennizzo; talune volte nei casi previsti dalla legge o in alcuni tipi di contratto e viene disposto, come già ribadito, anche in conseguenza di condotte perfettamente lecite dal punto di vista legale.
A conclusioni differenti si addiviene in relazione al risarcimento, quart’ultimo, infatti, deriva da un fatto che l’ordinamento giuridico considera illecito, qui inteso come danno da reato o un inadempimento contrattuale o di natura extracontrattuale.
Quindi, possiamo affermare che, il danno dalla quale emerge il diritto al risarcimento, contempla, sempre, l’ingiustizia del danno.
Ed è proprio su questa considerazione di carattere sistematico che può intuirsi la principale differenza tra indennizzo e risarcimento, il quale, oltretutto, differenzia i casi in cui spetta l’indennizzo da quelli in cui sorge, invece, il diritto al risarcimento.
Dunque, in pratica, può essere destinatario di un indennizzo anche colui che non vanti un diritto al risarcimento, in quanto non abbia subito un danno ritenuto ingiusto dalla legge, la quale, però, in determinati casi, gli attribuisce comunque un ristoro di natura economica, riconoscendo che un suo diritto è stato sacrificato o semplicemente limitato, sia pure in maniera del tutto lecita.
Ulteriori differenze attengono ai presupposti normativi.
La norma cardine, in tema di risarcimento del danno, in tal caso di natura extracontrattuale è espressa dall’ art. 2043 c.c. rubricato “Responsabilità per fatto illecito” che dispone: «Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno».
Dunque, da quanto si può desumere dalla disposizione in commento, il risarcimento e strettamente collegato all’ingiustizia del danno, quale presupposto fondamentale.
Questa caratteristica, quale requisito del danno risarcibile, invece, manca nell’indennizzo, che va riconosciuto allorquando un comportamento di per sé legittimo, sia produttivo di danni.
Dunque, la funzione del risarcimento è quella di riparare questi danni, riconoscendo un ammontare economico corrispondente al loro valore.
Invece, nel caso in cui le parti erano già legate tra loro dall’assunzione di un’obbligazione, sorge, in capo al debitore la c.d. responsabilità contrattuale, prevista dall’art. 1218 c.c. rubricato “Responsabilità del debitore” che obbliga il contraente inadempiente a risarcire alla controparte i danni provocati dal suo mancato, incompleto o tardivo inadempimento salvo che non provi che la prestazione è divenuta impossibile per una causa a lui non imputabile.
Invece, con riferimento al termine indennizzo, questi, viene espressamente menzionato dall’art. 42 della Costituzione, laddove dispone che: «La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale».
Nonostante detta norma sia riferita all’espropriazione compiuta dalla Pubblica Amministrazione per motivi di pubblica utilità, la previsione costituzionale lascia chiaramente intendere che, nonostante l’indennizzo derivi da un’attività ancorché lecita, a seguito dell’espropriazione è giusto riconoscere un ristoro di natura economica a chi è stato privato o abbia visto limitare il suo diritto per pubblica utilità[1].
Oltre al dettato costituzionale, ulteriori casi di indennizzo vengono espressamente stabiliti dalle leggi ordinarie, tra le quali, sicuramente, devono rammentarsi:
- lo stato di necessità, di cui a dall‘art. 2045 c.c., il quale, fa venir meno la responsabilità risarcitoria per fatto illecito ma, al contempo, riconosce al danneggiato «un’indennità, la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice»;
- il c.d. «equo indennizzo», attribuito ai dipendenti della Pubblica Amministrazione in relazione all’infermità derivante da causa di servizio anche quando la stessa amministrazione non è direttamente responsabile dell’evento lesivo;
- l’indennizzo per i danni da vaccino, obbligatorio o anche raccomandato, come il vaccino antinfluenzale o quello contro il SarsCovid-19[2].
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2. Il caso
A seguito di un’impugnazione concernente un provvedimento reso in primo grado, la Corte di Appello adita, respingendo l’appello proposto dal Ministero della Salute, confermava quanto disposto dal Giudice di prime cure, il quale, accogliendo la domanda proposta dai genitori esercenti la potestà genitoriale sul minore leso, disponeva in loro favore il diritto all’indennizzo di cui all’art. 1 co.1 della L. 210/1992, << per la menomazione all’integrità psico-fisica conseguita alla vaccinazione antimeningococcica alla quale il minore si era sottoposto[3]>>, vaccinazione di tipo raccomandato e ivi prevista nel Piano nazionale dei vaccini.
La corte territoriale adita, prendeva atto che la vaccinazione risponde ad un interesse della collettività e << legittima l’obbligo imposto al singolo per un determinato trattamento sanitario ancorché comportante un rischio specifico>> e nel rimarcare il necessario e doveroso bilanciamento fra la dimensione collettiva della salute e la relativa dimensione individualista, implica, il riconoscimento, nell’ipotesi in cui si paventi il rischio specifico, di prevedere una tutela ulteriore a (in tal caso indennizzo) a favore del soggetto passivo del trattamento imposto o raccomandato.
La corte, giustifica il diritto all’indennizzo tutte le volte in cui il singolo, destinatario del trattamento sanitario, obbligatorio o raccomandato, esponga a rischio la propria integrità psico-fisica a tutela di un interesse, necessariamente ad esercizio collettivo.
Inoltre, per il caso in esame, la Corte territoriale, a mente delle considerazioni di parte, accertava il nesso di casualità tra la somministrazione del vaccino e la patologia sofferta dal minore e disponeva il diritto all’indennizzo a favore dei genitori di quest’ultimo.
Avverso tale sentenza, ricorre per cassazione la parte soccombente spiegando un ricorso contenente tre motivi di gravame.
La Suprema corte, nell’intento di dirimere la questione richiama le disposizioni vigenti in materia di indennizzo a carico dello Stato per danni conseguenti alla profilassi vaccinale.
Innanzitutto, l’iter argomentativo del Supremo Consesso, richiama la disposizione della L. 210/1992, la quale, introduce una tutela con scopi solidaristici a favore dei soggetti danneggiati a causa della loro sottoposizione a vaccini obbligatori, in quanto da considerarsi necessarie per la tutela della salute pubblica[4].
La corte, nel suo excursus argomentativo rievoca la pronuncia del Giudice delle leggi e precisamente la n. 307 del 1990 evidenziando che, << la compatibilità di un sistema impositivo di trattamenti sanitari con l’art. 32 Cost., laddove siffatti trattamenti siano non solo volti a migliorare e/o preservare quello della collettività>>, puntualizzando, inoltre che, << un trattamento sanitario può essere reso obbligatorio a condizione che lo stesso non vada ad incidere negativamente sullo stato di salute del destinatario diretto, o che nel caso di eventuale danno , sia prevista una protezione ulteriore o un equo ristoro a carico della collettività>>.
A proseguo dell’argomentazione giuridica si evidenziano, inoltre, le statuizioni della sentenza della Corte Cost. n. 27 del 1990 in tema di indennizzo per danni causati da vaccinazioni antipolio antecedenti alle leggi dell’obbligo.
Con tale sentenza la Corte ha rilevato che << non sussistono ragioni per differenziare il caso in cui il trattamento sanitario sia imposto per legge da quello in cui esso sia, in base ad una legge, promosso dalla pubblica autorità ai fini della sua capillare diffusione nella società>>.
A conferma di quanto sin qui argomentato, la Corte Costituzionale, prendendo le mosse dalla sentenza suindicata, in tema di poliomielite, aveva dichiarato incostituzionale il primo comma dell’art. 1 della L.210/1992 nella parte in cui non aveva previsto il diritto all’indennizzo in favore di coloro che si erano sottoposti a vaccinazione anti epatite B prima che la stessa divenisse obbligatoria, anche in tal caso si trattava di un trattamento sanitario di tipo raccomandato[5] e anche in tal caso, non vi era ragione di differenziare un trattamento imposto da uno promosso dall’Autorità in vista di una sua capillare diffusione[6].
Nel caso di specie, la vaccinazione antimeningococcica, alla quale venne sottoposto il minore rientra tra le vaccinazioni raccomandate dal Piano nazionale per il periodo 2005/2007 e 2012/2014 ed inoltre, il vaccino in questione rientra nel Livelli essenziali di assistenza (L.E.A.).
Nonostante lo sforzo interpretativo deve rammentarsi che la disposizione di cui al comma 1 dell’art. 1 della L. 210/1992 riguarda le sole << vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di un Autorità sanitaria italiana>> e di per sé non appare utile a dirimere la questione sottoposta al vaglio della Suprema Corte, riguardando nello specifico, un trattamento non previsto e disciplinato dalla norma de quo.
La corte osserva, a mente della ratio che ha sorretto la stesura della sentenza della Corte cost. n. 27 del 1998, come la tutela indennitaria, riconosciuta, inizialmente alle sole vaccinazioni obbligatorie, è stata ampliata fino a ricomprendere le vaccinazioni imposte o raccomandate al fine di predisporre interventi a tutela della salute pubblica, nonché fino a tutelare le conseguenze dannose derivanti da vaccinazioni assunte nell’ambito dell’attività sanitaria anche solo promossa.
Questo ampliamento venne dettato dalla sentenza Cort. Cost. n. 268 del 22/11/2017 con la quale si è esteso, nei termini suindicati, la portata della tutela indennitaria, statuendo, ulteriormente che << non vi è differenza qualitativa tra obbligo e raccomandazione, essendo l’obbligatorietà vaccinale uno degli strumenti a disposizione dell’autorità sanitarie pubbliche, per il perseguimento della tutela della salute della collettività, al pari delle raccomandazioni[7]>>.
Il giudice delle leggi con detta sentenza, ha voluto, chiaramente rimarcare che la ragione determinante il diritto all’indennizzo << non deriva dall’essersi sottoposto ad un trattamento obbligatorio in quanto tale, ma piuttosto, nell’esigenza di solidarietà sociale imposta alla collettività, ove la persona vaccinata subisca conseguenze negative per l’integrità psico-fisica derivanti dal trattamento sanitario, obbligatorio o raccomandato, a tutela della collettività>>.
Ed inoltre, come rappresentato dalla pronuncia Cort. Cost. n. 5 del 2018 si riafferma che, <<la distanza tra raccomandazione ed obbligo e assai minore da quella che separa i due concetti nei rapporti giuridici>> quanto e vero che, << sul piano del diritto all’indennizzo le vaccinazioni raccomandate e quelle obbligatorie non subiscono differenze[8]>>.
3. Conclusioni
Per quanto sin ora argomentato, la Corte di cassazione dichiara non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale relativamente al comma 1 dell’art. 1 della L. 210/1992, in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost., nella parte in cui non si prevede il diritto all’indennizzo per i soggetti abbiano subito lesioni e/o infermità dalla quale siano derivati danni irreversibili all’integrità psico-fisica del soggetto destinatario, per essersi sottoposto a vaccinazione antimeningococcica, trattamento quest’ultimo raccomandato e non obbligatorio.
Difatti, il mancato riconoscimento della tesi del riconoscimento del diritto all’indennizzo contrasterebbe con la previsione costituzionale degli artt. 2 e 32 Cost., in quanto le esigenze di solidarietà, sancite in Costituzione, previste a presidio del diritto alla salute del singolo, richiedono che sia la collettività ad addossarsi l’onere del pregiudizio patito dal singolo medesimo.
In conclusione, la Corte, rammenta che, le tecniche vaccinali (riferibili sia all’imposizione che alla raccomandazione) perseguono uno scopo unitario, cioè, quello <<di garantire e tutelare la salute collettiva, attraverso il raggiungimento della copertura massima vaccinale e la protezione individuale>> con la doverosa previsione dell’indennizzo a completare il patto di solidarietà tra individuo e collettività[9].
Note
[1] Il concetto di «giusta indennità» per espropriazione dei beni di proprietà privata per motivi di pubblico interesse è stabilito, inoltre, dall’art. 834 c.c. in attuazione della previsione costituzionale di cui all’art.42 Costituzione.
[2] Ord. Cass. sez. lavoro, n. 17441 del 30/05/2022.
[3] Ord. Cass. sez. lav. n. 17411/2022.
[4] Cort. Cost. sent. n 307 del 1990
[5] Circ. Min. sanità n.2 del 11/01/1983.
[6] Cort. Cost. sent. n. 423 del 2000.
[7] Cort. Cost. sent. n. 107 del 2012.
[8] Cort. Cost. sent. n. 268 del 2017.
[9] Cort. Cost. sent. n. 118 del 2020.
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