Offesa a mezzo Facebook con vittima “assente” dai social

Daniela Sodo 11/07/22
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(Riferimento normativo: artt. 81 e 595 comma 3 c.p. – art. 51 c.p.)

      Indice

  1. La vicenda
  2. Diffamazione a mezzo Facebook: quando la critica politica diviene una scriminante consentita  
  3. La sottile differenza tra la diffamazione e l’ingiuria nell’uso dei social network 

1. La vicenda

A seguito di procedimento penale avviato nei confronti dell’imputato per i reati di cui all’art. 81 cpv. – 595 comma 3 e 612 bis c.p. per aver pubblicato, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, a mezzo Internet sul sito Facebook alcune espressioni offensive della reputazione della parte querelante sì da recare a quest’ultima anche molestie e cagionarle un grave e perdurante stato di ansia e di paura, a conclusione di un dibattimento quanto mai complesso ed articolato il Tribunale di Taranto ha dichiarato come le prove raccolte dimostrassero la penale responsabilità dello stesso imputato per il solo reato di cui all’art. 595 c.p., assolvendolo invece dalla fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p.

La Prima Sezione Penale del Tribunale pugliese, dunque, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, condannava l’imputato alla pena di Euro 600,00 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali, concedendogli nel contempo il beneficio della sospensione condizionale della pena, ma dichiarandolo altresì tenuto al risarcimento del danno patito dalla costituita parte civile da liquidarsi in separata sede ed al pagamento delle spese processuali dalla stessa sostenute.

2. Diffamazione a mezzo Facebook: quando la critica politica diviene una scriminante consentita  

Con questa interessante, e soprattutto molto esauriente e completa, sentenza il Giudice Penale del Tribunale di Taranto ci offre anzitutto una attenta disamina, sia giuridica che giurisprudenziale, di uno dei reati probabilmente più odiosi, ed al tempo stesso più complessi, attuabili mediante la nuova tecnologia sociale e cioè quello della diffamazione a mezzo social di cui all’art. 595 comma 3 c.p.

La tematica, del resto, è ormai abbondantemente nota, incentrandosi essa intorno al problema, possiamo dire atavico e per certi versi mai uniformemente risolto, del contrasto tra l’esercizio del diritto di cronaca ovvero, almeno nel caso specifico oggi in commento, di quello di critica politica rispetto alla tutela dell’onorabilità e della dignità della persona.

Naturalmente poi l’oggetto del contendere assume contorni e specificità ancora più rilevanti sotto il profilo penale quando il predetto diritto di critica politica, inteso come facoltà per i contendenti di un agone politico di lasciarsi andare anche a giudizi negativi sui propri avversari, venga esercitato con l’utilizzo dei moderni mezzi di divulgazione e comunicazione social per intuibili ragioni di immediata ed indifferenziata amplificazione delle notizie e dei dati dichiarati.

Per quanto detti mezzi informatici siano ormai capillari nel loro uso, nel leggere la sentenza oggi in commento non possiamo non rimanere meravigliati dal fatto, quasi inverosimile al mondo d’oggi, che la vittima della campagna ritenuta diffamatoria non fosse un utente Facebook e che ne avesse avuto notizia solo grazie alle segnalazioni di amici e conoscenti, con le intuibili distorsioni dei commenti provenienti da estranei e la mancata possibilità di una qualsivoglia replica e/o contestazione con i medesimi strumenti di diffusione telematica.

Al di là comunque di questa pur rilevante considerazione, come detto la sentenza in esame individua, ed analizza specificatamente, gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 595 c.p.[1]  nella “assenza dell’offeso” quale impossibilità per quest’ultimo di percepire la condotta diffamatoria, nella “comunicazione con più persone[2] e nella “offesa all’altrui reputazione”, intesa quale condotta lesiva compiuta indifferentemente mediante scritti, opere letterarie, mass media con parole attributive di qualità sfavorevoli alla persona offesa.

Ovviamente, e non sarebbe potuto essere diversamente dal momento che la vicenda processuale in esame si inseriva in un contesto di aspra discussione politica ed amministrativa locale, il Tribunale di Taranto nel valutare questi elementi a tutela della persona offesa non ha potuto fare a meno di considerare anche la necessità, altrettanto giusta e legittima, del libero esercizio del diritto di cronaca o, segnatamente, di critica politica, quale alta e significativa espressione della manifestazione del pensiero costituzionalmente garantita dall’art.21 della Costituzione[3].

Nel doveroso bilanciamento, infatti, tra le due contrapposte esigenze al Giudice di merito spetta sempre il delicato compito di accertare i fatti con una sensibilità anche umana e professionale non comune, poiché è in questo contrasto che opera la labile scriminante del diritto di critica quale causa di giustificazione stabilita e protetta dall’art. 51 c.p. (Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere).

Così opportunamente i giudici pugliesi, proprio sotto questo specifico profilo, chiariscono come il far valere il proprio diritto di critica non possa prescindere da tre fondamentali limitazioni: la verità del fatto, la pertinenza e la continenza quali requisiti di applicabilità della scriminante di cui sopra è cenno.

Il Tribunale, infatti, contrassegna anzitutto la c.d. “verità del fatto” non senza rilevare in proposito come l’esatta individuazione del suo significato, giuridico ed ontologico, sia stata di per sé già oggetto di un contrasto giurisprudenziale in seno alla stessa Corte Suprema, da sempre divisa tra la tesi di chi ritiene che essa vada determinata con riguardo al nucleo centrale ed essenziale del termine e, quindi, al netto di possibili errori ed imprecisioni marginali[4], e chi, invece, in maniera molto più formale e rigorosa pretende la perfetta corrispondenza tra i fatti accaduti e quelli narrati[5].

E’ stato, del resto, correttamente affermato da sempre come il diritto di critica, a maggior ragione quella politica, concretizzandosi nella manifestazione di un’opinione non possa essere mai rigorosamente obiettivo, sebbene esso debba presupporre comunque un contenuto di veridicità, limitato all’oggettiva esistenza del fatto assunto a base delle opinioni e delle valutazioni espresse[6].

Esiste infatti una chiara differenza tra l’argomentata manifestazione di un’opinione e l’affermazione di un fatto non corrispondente al vero ed è principio indiscusso che la libertà della stampa di esprimere giudizi critici, cioè “giudizi di valore” trovi il solo, ma invalicabile, limite nella esistenza di un “sufficiente riscontro fattuale”.

Allo stesso modo il Tribunale di Taranto sottolinea anche la pregnanza della c.d. “pertinenza”, da intendersi quale espressione fattuale dell’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti poiché è solo dalla divulgazione di questi che si viene a formare la pubblica opinione, e così esso distingue l’interesse “immediato“, che connota fatti di intrinseca rilevanza pubblica, da quello “mediato” che caratterizza, al contrario, quei fatti che pur riguardanti la vita personale dei soggetti narrati presentino attinenza con un interesse pubblico.

Giustamente, quindi, i Giudici pugliesi, in conformità ad un orientamento della Corte Suprema[7]  assolutamente condivisibile, escludono da questo concetto giuridico di “pertinenza” le vicende propriamente private la cui divulgazione mirerebbe solo a suscitare meri curiosità e/o pettegolezzi e per le quali l’integrazione del reato di diffamazione imporrebbe comunque la verifica della lesività della reputazione per il soggetto passivo dell’addebito.

Da ultimo, poi, il Tribunale tarantino individua il terzo limite alla liceità del diritto di critica nella c.d. “continenza”, intesa come correttezza formale nell’esposizione delle notizie, evidenziando la necessità che la cronaca del fatto sia sempre rigorosa e che nella stessa non vi siano espressioni “pretestuosamente” denigratorie e sovrabbondanti[8].

Si “impone”, pertanto, al giudice penale, al fine di verificare il contenuto diffamatorio di un’espressione o di un comportamento addebitato, l’onere processuale di una attenta analisi sul contesto storico o socio-politico di riferimento del fatto e di conseguenziale verificare del livello corrente delle espressioni usate in un dato periodo per attestarne, appunto, l’accettabilità o meno sotto un profilo penalmente rilevante, sul presupposto che il valore, o il disvalore, di una data definizione, in sé considerata, inevitabilmente muti a seconda dei luoghi e dei tempi.

Come è noto soprattutto a chi è maggiormente addentro alle tematiche in esame, significativamente occorre sottolineare come la labile discriminante del diritto di critica, a maggior ragione se fatto valere in un contesto politico, si accosti notevolmente a quella di cronaca, sebbene i limiti che ne condizionino l’esercizio siano da interpretare in maniera più elastica in ragione alla sua diversa natura, soprattutto con riguardo a quelli della continenza e della pertinenza.

Così, ad esempio, i giudici pugliesi hanno giustamente rilevato come per il diritto di critica politica la verità del fatto assuma necessariamente un rilievo più limitato ed affievolito rispetto allo stesso presupposto preteso nell’esercizio del diritto di cronaca e come l’elaborazione critica che è insita in questa scriminante non possa mai essere avulsa da un nucleo di verità né possa mai trascendere in attacchi personali finalizzati ad aggredire la sfera morale altrui[9].

Senza dubbio, però, e di tanto vi è contezza anche nelle motivazioni addotte dal Tribunale tarantino, la difficoltà riscontrabile nel delicato onere decisorio rimesso al Giudice diviene quella di riuscire a discernere, e quasi ad isolare, il requisito imprescindibile della verità rispetto alle componenti meramente valutative che caratterizzano sempre un giudizio critico espresso in un acceso clima politico.

Non è, del resto, un caso che i Giudici di legittimità abbiano imposto la necessità della verità rispetto al solo fatto storico posto a fondamento dell’elaborazione critica[10], e del resto non potrebbe mai essere diversamente stante l’impossibilità oggettiva per l’Autorità giudicante di sanzionare una qualsivoglia valutazione, etimologicamente intesa di per sé come espressione lecita di un giudizio.

Il Tribunale di Taranto, infatti, sempre in maniera condivisibile, rammenta come il canone della liceità del diritto di critica esiga che “le modalità espressive dispiegate siano proporzionate e funzionali alla comunicazione dell’informazione, senza trasmodare in un’aggressione verbale del soggetto criticato (Cass. V, n. 18170/2015)” e sottolinea come “Pertanto, i toni utilizzati dall’agente, pur se aspri, forti e sferzanti, non devono essere gratuiti, ma pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato ed al concetto da esprimere (Cass. V, n. 32027/2018, si v. pure Cass. V, n. 17243/2020). Nel caso di critica formulata con le modalità proprie della satira, il giudice sarà chiamato a tener conto del linguaggio essenzialmente simbolico e paradossale dello scritto satirico, rispetto al quale non si può applicare il metro consueto di correttezza dell’espressione (superati quando la persona pubblica, oltre che al ludibrio della sua immagine, sia esposta anche al disprezzo, Cass. V, n. 37706/2013; Cass. V, n. 13563/1998)

Giustamente, dunque, i giudici pugliesi concludono il loro articolato ragionamento affermando come siano sempre “punibili le espressioni c.d. gratuite, nel senso di non necessarie all’esercizio del diritto, in quanto inutilmente volgari o umilianti o dileggianti (Cass. V, n. 36695/2017)”.


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3. La sottile differenza tra la diffamazione e l’ingiuria nell’uso dei social network 

Come abbiamo detto, nel fatto di reato oggetto di esame ciò che rileva è certamente la modalità di trasmissione delle notizie e delle offese appositamente utilizzata ed, in particolare, proprio la sua potenzialmente enorme ed indistinta eco, poiché è indubbio che una piattaforma social quale Facebook faccia da cassa di risonanza esageratamente ampia per dati, informazioni, scritti di tal genere, talvolta ponendo addirittura nel nulla anche la consapevolezza dell’autore dei post di voler pronunciare o scrivere una frase lesiva dell’altrui reputazione.

Al contrario, chi ne fa uso per tali finalità è perfettamente consapevole del fatto che la frase denigratoria venga a conoscenza di più persone, non fosse altro perché i social di per sé stessi ormai sono da noi acquisiti come specchio e strumento del nostro bisogno di apparire e perché è modalità usuale di diffusione delle nostre parole quella di aggiungere reazioni o condivisioni alle pubblicazioni altrui che moltiplicano all’infinito  il novero dei soggetti destinatari e conoscitori di quelle parole.

Quello che piuttosto caratterizza il caso oggi considerato è lo stato di assoluta impotenza in cui si sia venuto a trovare il soggetto passivo dell’offesa altrui, data la sua non iscrizione alla predetta piattaforma e, quindi, la conseguente sua impossibilità di qualsivoglia risposta e/o replica alle dichiarazioni dal contenuto diffamatorio ovvero ai messaggi tesi volutamente a screditare la sua figura.

Intanto questa, per certi versi inusuale al mondo d’oggi, situazione di “debolezza” ha certamente inciso nella determinazione della fattispecie di reato e, quindi, nell’individuazione del reato di diffamazione piuttosto che del semplice illecito amministrativo dell’ingiuria, comportando altresì un più grave giudizio di condanna non fosse altro che per quell’auspicabile volontà di giustizia, anche sociale, che evidentemente i Giudici tarantini hanno inteso dimostrare a tutela di un soggetto palesemente inerme dinanzi all’offensivo attacco politico e personale altrui.

La circostanza, peraltro, non è di poco conto perché intorno ad essa si racchiude l’essenza vera e propria di questa tipologia di reato e la sua differenziazione ontologica rispetto all’ingiuria, dal momento che proprio la “presenza” o meno della persona offesa sulla piattaforma social al momento dell’offesa è il fattore discriminante fra la diffamazione e l’ingiuria commessa alla presenza di più persone (come è noto depenalizzata con l’abrogazione dell’articolo 593 c.p. ad opera del D. Lgs. n. 7 del 2016).

Proprio nel caso di Facebook, infatti, la Corte di Cassazione, con una recentissima interessante sentenza[11], ha stabilito la necessità che si verifichi sempre se la persona lesa sia online al momento in cui l’imputato scriva i propri messaggi incriminati, dando in tal modo rilevanza giuridica e sostanziale al predetto requisito della “presenza”, sia pure solo virtuale, per sostanziare l’uno o l’altro illecito.

E’ ormai notorio il fatto che l’offesa diretta ad una persona presente costituisca sempre ingiuria, anche se vi siano altri soggetti, mentre quella rivolta ad una persona “distante” o, come nel caso oggi in esame, “assente” perché appunto non iscritta al social network utilizzato, integri tale illecito solo quando la comunicazione offensiva sia avvenuta esclusivamente tra autore e destinatario, configurandosi al contrario il reato di diffamazione se la comunicazione “a distanza” sia indirizzata ad altre persone oltre all’offeso o quando l’offesa riguardante una persona assente risulti comunicata ad almeno due persone presenti o distanti.

In definitiva, quindi, l’utilizzo di un social network per ragioni ed intenti denigratori comporta sempre, di per sé, un rapporto virtualmente distanziato tra i soggetti interessati, ma ciò non rileva nel caso in cui entrambi siano fruitori della medesima piattaforma di comunicazione ed il messaggio offensivo sia diretto esclusivamente al suo destinatario, in quel dato momento collegato al social network in uso e perfettamente in grado di acquisire immediata contezza del fatto lesivo altrui e semmai anche di replicarvi a tutela della propria reputazione.

Da qui discende, dunque, addirittura la rilevanza processuale che assume la precisa verifica degli orari dei messaggi incriminati al fine appunto di stabilire se il dialogo fra le parti si sia svolto o meno in tempo reale sui social e quindi con la presenza virtuale della persona lesa, sia pure con le intuibili difficoltà tecniche che ne possono derivare per accertare che il soggetto leso abbia effettivamente utilizzato quel particolare canale social e non sia stato solo telematicamente “collegato”.

Quando, invece, la vittima dell’offesa è totalmente assente dai social, ed è questa la conclusione, a nostro modo di vedere corretta e condivisibile, cui perviene il Tribunale di Taranto, la condotta penalmente rilevante accertata integra sempre e soltanto gli estremi del reato di diffamazione, con conseguente maggiore sua rilevanza penale ed intuibile aumento di pena rispetto a quella, semplicemente amministrativa, prevista per l’ingiuria. Una bella lezione di civiltà giuridica, dunque, quella espressa oggi dal Tribunale pugliese, a testimonianza di una linea dello stesso favorevolmente orientata ad arginare l’uso sempre più spropositato ed insolente che troppo spesso ormai viene fatto di internet e dei suoi principali social network!


Note

[1] L’articolo, sotto la rubrica “Diffamazione”, punisce la condotta di chi, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione ed in particolare il suo comma terzo prevede poi un aumento di pena se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico.

[2] Il Tribunale in proposito richiama la sentenza della Sezione Quinta della Corte di Cassazione n. 13550 del 2008 con la quale è stato chiarito che le persone destinatarie dell’offesa altrui siano in grado di percepirne il contenuto e che il reato è sussistente anche se la condotta non sia stata contemporanea e finanche se la comunicazione ai soggetti diversi dal primo destinatario sia avvenuta da parte di questi su richiesta del soggetto attivo

[3] Si riprende al riguardo la sentenza della Corte Costituzionale n. 86 del 1974

[4] Vedi ad esempio Corte di Cassazione, Sezione Quinta, sentenza n. 28258/2009

[5] Il Tribunale ricorda in proposito la sentenza della Cassazione – Sezione Quinta – n. 12859/2005 con conseguente obbligo di verifica di attendibilità delle fonti (Cass. S.U. n. 8959/1984)

[6] Si vedano, tra le altre, Cass. Civ. – Quinta Sezione – sentenza n. 13264 del 2005, sentenza n. 221904 del 14 febbraio 2002 e sentenza n. 216534 del 14 aprile 2000

[7] La sentenza riporta la pronuncia di Corte di Cassazione – Sezione Sesta – n. 474/1971

[8] In questi concetti il Tribunale richiama espressamente principi dettati dalla Corte di Cassazione – Sezione Quinta – sentenza n. 19381/2005 e, conforme, vedi anche Cassazione Penale – Sezione Quinta – sentenza n. 5944 del 19 dicembre 2005

[9] In maniera condivisibile e pertinente al riguardo il Tribunale richiama la sentenza della Corte di Cassazione – Sezione Quinta – n. 31263/2020 con la quale è stata ritenuta corretta l’esclusione dell’esimente, sia pure nell’ampia visione convenzionale del diritto alla libertà di espressione in contesti di critica politica, nel caso di un articolo di stampa che attribuiva ad un sindaco, senza alcun appiglio oggettivo e mediante travisamento o manipolazione dei fatti storici, il sospetto di mafiosità, per la gestione familiaristica e clientelare dell’amministrazione comunale

[10] La sentenza in commento richiama espressamente Corte di Cassazione – Sezione Quinta – n. 7715/2014 – Sezione Prima – n. 40930/2013 – Sezione Quinta – n. 2088/2018

[11] Sentenza n. 44662 del 02 dicembre 2021

Sentenza collegata

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