Strage di Via D’Amelio, 30 anni senza Borsellino

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Era domenica, il 19 luglio 1992.

Era domenica e ce lo ricordiamo tutti, anche se sono passati 30 anni, perché quella domenica d’estate fu un altro giorno che si iscrisse di diritto nella storia del nostro Paese. La storia brutta, quella dolorosa, quella che poi ti ricordi con quel misto di sgomento e angoscia che anche a distanza di 30 anni resta uguale.

Solo 57 giorni dopo il suo collega e amico di una vita, alle 16.58 e venti secondi, all’altezza del numero 21 di via D’Amelio a Palermo, dove abitava la madre del giudice, saltarono in aria il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, ed Emanuela Loi, la prima donna della polizia di Stato a essere uccisa in servizio.

Anche questo attentato, come il suo precedente di Capaci, fu organizzato e perpetrato dall’organizzazione criminale denominata Cosa Nostra, di cui all’epoca si sapeva poco e quel poco si conosceva grazie alle persone che erano già morte o che morivano in questo stesso giorno, trent’anni fa.

Alle 16.52, un esponente della famiglia mafiosa del mandamento di San Lorenzo, Giovanni Battista Ferrante, aveva telefonato da una cabina telefonica delle vicinanze, avvertendo i complici appostati in via D’Amelio di tenersi pronti. Le auto blindate su cui viaggiavano il giudice e la sua scorta stavano arrivando. Sceso dalla propria, Paolo Borsellino si accese una sigaretta, suonò il citofono di sua madre e 90 kg di esplosivo fecero saltare in aria una Fiat 126 rossa parcheggiata lì davanti.

Nemmeno due mesi dopo il boato che aveva divelto un lungo tratto di autostrada allo svincolo di Capaci, le automobili erano ancora parcheggiate in quella via di Palermo, che il giudice Borsellino visitava tutte le settimane e che nessuno aveva pensato a sgomberare.

Perché gli esseri umani sono così: noi mettiamo in sicurezza le infrastrutture dopo che crollano i ponti sulle autostrade, incrementiamo la sicurezza negli stadi dopo che le persone restano intrappolate nelle transenne e istituiamo il regime carcerario “duro” dopo che tutti i componenti del cosiddetto pool antimafia sono stati uccisi (Rocco Chinnici, 29 luglio 1983, autobomba; Beppe Montana, 28 luglio 1985, 4 colpi di pistola; Ninni Cassarà, 6 agosto 1985, mitragliatore; Giovanni Falcone, 23 maggio 1992, mezza tonnellata di tritolo; Paolo Borsellino, 19 luglio 1992, autobomba).

Gli attentati della primavera-estate 1992 sono stati tra le peggiori stragi di mafia della storia, e la sera stessa della morte di Borsellino venne data applicazione all’art. 41 bis, ovvero quella disposizione dell’ordinamento carcerario che prevede un regime penitenziario con pesanti restrizioni e limitazioni. Oltre 300 detenuti quella sera furono trasferiti nelle carceri di massima sicurezza di Asinara e Pianosa, e molti boss, da quel momento in poi, fino ad arrivare ai super capi Riina e Provenzano furono messi nelle condizioni di non poter più comunicare con l’esterno.

Una svolta nella lotta alla mafia. Ma a che prezzo tutti noi oggi beneficiamo di quella svolta.

Come già scrissi in questo articolo quasi due mesi fa parlando di Giovanni Falcone, ci sono certi eventi che rimangono non solo nella memoria storica collettiva, ma anche in quella di ciascuno di noi.

Io ero al mare quel pomeriggio di luglio di trent’anni fa, in vacanza, senza pensieri, ma questa volta, a differenza di quanto successo il 23 maggio, quando sentii la notizia alla radio (in automobile, con gli amici, andavamo a prendere un gelato, ricordo) sapevo bene di chi si stava parlando.

Avevo letto “Cose di Cosa Nostra”, il libro-memoriale di Giovanni Falcone che raccontava la sua lotta alla mafia, mi ero informata, sapevo tutto di quel pool, di quei giudici, di quella lotta.

Forse è un po’ anche grazie a loro che avevo deciso di studiare legge. Forse.

Ma ora come allora, penso sia difficile, se non impossibile, ricordare episodi così dirompenti e personaggi così grandi, senza scadere nella retorica e a me la retorica fa orrore, non sono in grado di maneggiarla, la trovo banale. E di tante cose che si possono dire della vita e della morte di Paolo Borsellino, di certo non rientra il fatto di essere banale.

Quindi proviamo una cosa diversa. Non diciamo niente.

Stiamo zitti, elaboriamo senza clamore, senza frasi ad effetto, senza polemiche, senza proclami, senza accuse, senza pompa magna, senza voler apparire ad ogni costo. Prendiamo quello che questo anniversario ci ha lasciato, ogni anno, da trent’anni a questa parte, e gestiamolo in maniera personale.

Limitiamoci a ricordare e che i protagonisti, almeno per oggi, siano loro, quelle persone che trent’anni fa sono morte perché tentavano nel loro piccolo, o forse non tanto piccolo, di fare il loro lavoro, e di farlo bene.

Ecco, forse è questo l’insegnamento che oggi, da professionista e da giurista, vorrei provare a trarre da quelle vite, e da quelle morti.

Proviamo a fare il nostro lavoro.

E proviamo a farlo bene, come lo facevano loro.

Avv. Luisa Di Giacomo

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