- Il fatto
- I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
- Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
- Conclusioni
(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 666, co. 2)
1. Il fatto
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bologna, quale giudice dell’esecuzione, dichiarava inammissibile una istanza intesa alla declaratoria di nullità del provvedimento di esecuzione di pene concorrenti.
A tal fine, era reputata la manifesta infondatezza della richiesta, vertente sulla ritualità della notificazione di una sentenza emessa in sua contumacia, nonché sull’effettiva conoscenza, in capo alla condannata, del procedimento penale suggellato dalla condanna alla pena di nove mesi di reclusione e 300 euro di multa.
2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
La richiedente, con l’assistenza del suo legale, proponeva ricorso per Cassazione affidato ad un unico motivo con il quale si eccepiva la violazione di legge per avere il giudice dell’esecuzione dichiarato l’inammissibilità dell’istanza de plano, e quindi senza la preventiva instaurazione del contraddittorio, in difetto delle prescritte condizioni.
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3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il ricorso era ritenuto fondato e, quindi, in quanto tale, stimato meritevole di accoglimento.
Si osservava a tal proposito – dopo essere stato fatto presente che il procedimento di esecuzione è regolato dall’art. 666 cod. proc. pen. che prevede, in linea generale, l’introduzione ad iniziativa di parte e la conseguente fissazione di apposita udienza camerale, con adozione in contraddittorio della decisione sulla richiesta e che il comma 2 di questo articolo dispone, nondimeno, che, se la richiesta appare manifestamente infondata per difetto delle condizioni di legge ovvero costituisce mera riproposizione di una richiesta già rigettata, basata sui medesimi elementi, il giudice o il presidente del collegio, sentito il pubblico ministero, la dichiara inammissibile con decreto motivato, avverso il quale è possibile proporre ricorso per Cassazione – che la giurisprudenza di legittimità, chiamata ad enucleare i casi di «manifesta infondatezza» che consentono la definizione del procedimento con decreto emesso de plano, ha da tempo chiarito che ciò può avvenire nelle sole ipotesi di difetto delle condizioni di legge, intese, in senso restrittivo, come requisiti che, lungi dall’implicare una valutazione discrezionale, sono direttamente imposti dalla legge laddove, invece, ogni qualvolta siano necessari accertamenti di tipo cognitivo o si imponga, comunque, l’uso di criteri interpretativi in relazione al thema probandum, deve essere data all’istante la possibilità di instaurazione del contraddittorio con il procedimento camerale previsto, sul modello di quello tipico ex art. 127 cod. proc. pen., dall’art. 666, commi 3 e ss. (Sez. 1, n. 32279 del 29/03/2018; Sez. 1, n. 35045 del 18/04/2013; Sez. 2, n. 40750 del 02/10/2009).
Orbene, declinando tale criterio ermeneutico rispetto al caso di specie, i giudici di piazza Cavour notavano come il giudice dell’esecuzione avesse stimato l’infondatezza dell’istanza di declaratoria di nullità del provvedimento di esecuzione di pene concorrenti e dell’ordine di carcerazione sul rilievo, tra l’altro, che la ricorrente avesse avuto effettiva conoscenza della promozione, nei suoi confronti, del procedimento penale conclusosi con la condanna alla pena di nove mesi di reclusione e 300 euro di multa, per essere ella stata, per tale fatto, arrestata e sottoposta, sia pure per un solo giorno, alla misura della custodia cautelare, il che, sempre ad avviso del Supremo Consesso, costituiva una considerazione che, piuttosto che discendere, in via pressoché automatica, dall’esame degli atti disponibili, era stata il frutto di un apprezzamento connotato da un (auto-reputato) non minimale margine di discrezionalità, relativo, in specie, all’attitudine dell’arresto in flagranza e della transitoria compressione della libertà personale a rendere il soggetto, che ne era stato destinatario, sufficientemente edotto dell’instaurazione del procedimento penale a suo carico e delle contestazioni in quella sede elevate.
Coglieva, quindi, nel segno, per la Corte di legittimità, la ricorrente nel dedurre che il giudice dell’esecuzione avrebbe dovuto instaurare il contraddittorio e fissare apposita udienza camerale, sì da consentirle di interloquire sul profilo sopra menzionato, la cui delibazione presupponeva la verifica degli accadimenti processuali e della loro compatibilità con l’ignoranza da lei denunziata a supporto dell’istanza dichiarata tout court inammissibile, tenuto conto altresì del fatto, per quanto il dato formale non assuma, in sé, rilevanza decisiva, che lo stesso giudice dell’esecuzione, nel confezionare il provvedimento impugnato in forma di ordinanza, anziché, secondo quanto previsto dall’art. 666, comma 2, cod. proc. pen., di decreto motivato, sembrava essersi reso conto della necessità di profondere un impegno argomentativo più intenso di quanto non sarebbe accaduto laddove l’infondatezza fosse stata conseguenza dell’assenza, rilevabile ictu oculi, delle condizioni richieste dalla legge per l’emissione del provvedimento invocato dall’istante e, quindi, «manifesta».
Le precedenti considerazioni imponevano, in conclusione, per gli Ermellini, l’annullamento del provvedimento impugnato con rinvio (in proposito, cfr. Sez. 1, n. 6117 del 01/12/2020; Sez. 1, n. 21826 del 17/07/2020) per nuovo giudizio, in forma partecipata, al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bologna.
4. Conclusioni
La decisione desta un certo interesse nella parte in cui è ivi chiarito quando la richiesta è manifestamente infondata ai sensi dell’art. 666, co. 2, c.p.p..
Difatti, fermo restando che, come è noto, questa disposizione legislativa stabilisce al primo capoverso che, se “la richiesta appare manifestamente infondata per difetto delle condizioni di legge ovvero costituisce mera riproposizione di una richiesta già rigettata, basata sui medesimi elementi, il giudice o il presidente del collegio, sentito il pubblico ministero, la dichiara inammissibile con decreto motivato, che è notificato entro cinque giorni all’interessato”, in tale pronuncia si afferma, lungo il solco di un pregresso orientamento nomofilattico, che i casi di «manifesta infondatezza», che consentono la definizione del procedimento con decreto emesso de plano, vanno ricondotti alle sole ipotesi di difetto delle condizioni di legge, intese, in senso restrittivo, come requisiti che, lungi dall’implicare una valutazione discrezionale, sono direttamente imposti dalla legge laddove, invece, ogni qualvolta siano necessari accertamenti di tipo cognitivo o si imponga, comunque, l’uso di criteri interpretativi in relazione al thema probandum, deve essere data all’istante la possibilità di instaurazione del contraddittorio con il procedimento camerale previsto, sul modello di quello tipico ex art. 127 cod. proc. pen., dall’art. 666, commi 3 e ss..
Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione ogni volta si debba appurare se sia applicabile (o meno) l’art. 622, co. 2, primo capoverso, c.p.p..
Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su siffatta tematica procedurale sotto il profilo giurisprudenziale, dunque, non può che essere positivo.
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