Indice
- La tutela dei diritti fondamentali del ricercato, come centro di interesse dal punto di vista internazionale, sovranazionale e nazionale.
- I casi riuniti Aranyosi e Căldăraru e il dialogo tra la Corte di Lussemburgo e la Corte di Strasburgo.
- L’intervento della Corte di cassazione nel caso Barbu.
- Considerazioni conclusive
1. La tutela dei diritti fondamentali del ricercato, come centro di interesse dal punto di vista internazionale, sovranazionale e nazionale
Le istituzioni comunitarie hanno avuto diverse preoccupazioni rispetto alla salvaguardia dei diritti fondamentali, in relazione ai loro rispettivi poteri e alla definizione della modalità di collegamento formale tra il sistema europeo e quello convenzionale. E questo poiché l’art. 6, paragrafo (d’ora in avanti par.) 1 e 2 del Trattato sull’Unione europea (d’ora in avanti TUE) prevede sia il riconoscimento dei diritti, delle libertà, e dei principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sia l’adesione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti CEDU). Di conseguenza, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha previsto un’incorporazione di tali diritti nel sistema delle fonti comunitarie, come “principi generali” da utilizzare in senso integrativo, correttivo ed esplicativo [1].
Per quanto riguarda il concetto di mandato di arresto europeo [2] (d’ora in avanti m.a.e. o mae), inteso come strumento da utilizzare principalmente in caso di crimini commessi sul territorio degli Stati membri, in sostituzione alla lenta e prolissa procedura estradizionale e a garanzia di un diretto collegamento tra autorità giudiziaria emittente ed esecutrice, si è ritenuto che, tranne in circostanze eccezionali, tutti gli Stati membri devono rispettare il diritto dell’Unione e, più in particolare, i diritti fondamentali riconosciuti da quest’ultimo.
Conseguentemente, deve sempre essere previsto un rispetto integrale dei diritti fondamentali da parte dei Paesi membri, in quanto altrimenti non ci sarebbe una cooperazione giuridica in senso pieno, nonostante che, nella decisione quadro 2002/584/GAI, non vi sia alcun riferimento ad un motivo ostativo alla consegna del ricercato quando vi sono importanti ragioni per ritenere che l’esecuzione della misura sia incompatibile con gli obblighi dello Stato membro di esecuzione, conformemente all’art. 6 del TUE e alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (d’ora in avanti adesso Carta), giacché una risoluzione del Parlamento Europeo [3] esprimeva preoccupazioni per la sua assenza, sollecitando alla Commissione ad introdurlo in tempi brevi ma, come spesso accade, il legislatore ha taciuto su tale questione. Diversamente, la Corte di Giustizia, nel caso Aranyosi e Căldăraru, ha accolto la non esecuzione del m.a.e., quando il soggetto destinatario del provvedimento de libertate sarebbe stato vittima di tortura e trattamenti degradanti nelle carceri di destinazione. Tuttavia, dove non arriva la normativa comunitaria può intervenire il legislatore nazionale, come è accaduto in Italia prima delle modifiche normative attraverso il d. Lgs. n. 10 del 2021, in cui attraverso la legge di recepimento del m.a.e. si era previsto, nell’art. 18, ben venti motivi di rifiuto del mandato d’arresto tra cui, alla lettera h), se sussiste un serio pericolo che la persona ricercata venga sottoposta alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti [4].
Le violazioni dei diritti umani non vengono individuate soltanto a livello europeo ed internazionale, sulla base delle sentenze della Corte europea per i diritti dell’uomo (d’ora in avanti Corte EDU) e sui dati del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, dei trattamenti e delle punizioni inumane o degradanti (d’ora in avanti CPT [5]), ma anche a livello nazionale, come il tragico episodio verificatosi, il 6 aprile 2020, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove 144 agenti della polizia penitenziaria, sono stati i diretti interessati e destinatari di arresti e misure cautelari emesse dal GIP, per le brutali violenze messe in atto contro i detenuti. In relazione al nostro Paese, sono stati diversi gli interventi del Comitato Europeo per la prevenzione della tortura nei nostri istituti penitenziari e in particolare, il CPT menziona alcuni casi di violenza e maltrattamenti avvenuti nel carcere di Viterbo, sulla base delle denunce poste dai detenuti, riportando espressamente due casi: nel primo, un detenuto denuncia di essere stata colpito alla schiena da otto agenti, che, una volta a terra, lo avrebbero ripetutamente colpito con calci e pugni per poi, ricondotto nella sua cella, intimargli di “comportarsi come un uomo”; nella seconda circostanza, un agente avrebbe bruciato le dita di un detenuto con un accendino, al fine di verificare che la vittima non fosse in stato catatonico. Sulla base di questi episodi, il Comitato raccomanda all’amministrazione penitenziaria di addestrare gli agenti, facendo in modo che questi ultimi risolvano situazioni, anche complesse, senza l’uso necessario della forza [6].
Fatte queste considerazioni, nei paragrafi successivi, si analizzeranno: la sentenza Aranyosi e Căldăraru e l’applicazione di quest’ultima nella giurisprudenza nazionale nel caso Barbu.
2. I casi riuniti Aranyosi e Căldăraru e il dialogo tra la Corte di Lussemburgo e di Strasburgo
La Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione europea, con la sentenza del 5 aprile 2016, ponendo in risalto il dialogo tra le Corti internazionali, sovranazionali e le rispettive conseguenze nel diritto interno, ritorna a pronunciarsi sull’interpretazione delle procedure di esecuzione dell’euro-mandato, concentrandosi sui profili di conformità della decisione quadro in relazione alla tutela dei diritti fondamentali [7].
Prima di questa sentenza, la giurisprudenza della Corte, per preservare sia il primato del diritto dell’Unione, sia l’uniformità nella sua applicazione, riconosceva soltanto i motivi di non esecuzione del m.a.e. tassativamente previsti dalla decisione quadro [8], escludendo di conseguenza il caso in cui sussistevano motivi seri e comprovati che la persona destinataria del mandato avesse rischiato concretamente di subire trattamenti inumani e degradanti, a causa delle condizioni detentive dello Stato membro di emissione. Sono molte le questioni pregiudiziali che sono state sollevate alla Corte di Giustizia, ma prima di analizzarle, insieme alle rispettive conclusioni, occorre soffermarsi brevemente sul procedimento principale e sugli elementi che hanno portato la Corte di Appello tedesca a sottoporre all’attenzione del giudice di Lussemburgo [9] le richieste interconnesse di consegna dei sigg. Aranyosi e Căldăraru.
Per quanto riguarda il primo caso, in data 4 novembre e 21 dicembre 2014, il Tribunale distrettuale di Miskolc, ha emesso due MAE nei confronti del sig. Aranyosi per il delitto di furto commesso in una casa di Sajohidveg (Ungheria), dove avrebbe sottratto circa 313 euro in contanti e diversi oggetti di valore, e in una scuola di Sajohidveg, dove si sarebbe appropriato di dispositivi tecnologici e contanti, il cui valore si aggirava intorno ai 760 euro. Successivamente, il 14 gennaio 2015 il ricercato è stato arrestato dall’autorità tedesca, grazie all’avviso di ricerca che le autorità giudiziarie ungheresi avevano emesso nel sistema di informazioni Schengen, e consegnato al Tribunale tedesco di Brema.
Nel secondo caso il Tribunale di primo grado di Fagaras, con sentenza del 16 aprile 2015, condanna il sig. Căldăraru, cittadino rumeno, ad una pena detentiva di un anno e otto mesi per guida senza patente, emettendo, successivamente, un mandato di arresto europeo nei confronti del condannato, e pochi mesi dopo, il cittadino rumeno è stato arrestato a Brema dove, dinanzi al Tribunale tedesco, si è opposto alla procedura semplificata di consegna.
In entrambi i casi la Procura di Brema, sebbene avesse domandato alle autorità di emissione in quale istituto penitenziario sarebbe stato trasferito in caso di consegna, poiché alcuni istituti di detenzione non rispettano gli standard detentivi minimi europei, sulla base sia della sentenza Varga [10] della Corte di Strasburgo e sia sui dati del CPT, le autorità nazionali di emissione non hanno indicato l’istituto detentivo in cui sarebbero stati trasferiti i ricercati e, per questo motivo, la Corte di Appello tedesca, non reputando di essere in condizioni di pronunciarsi sulla legittimità della consegna del condannato, in quanto poteva essere sottoposto a condizioni detentive che violavano l’art. 3 della CEDU [11], nonché i principi sanciti nell’art. 6 TUE, solleva all’attenzione della Corte di giustizia dell’Unione europea due questioni pregiudiziali: nella prima questione viene domandato se l’articolo 1, par. 3 [12], della decisione quadro debba essere interpretato nel senso che una domanda di consegna, ai fini dell’esercizio di un’azione penale, è illegittima se sussistono gravi indizi che le condizioni di detenzione nello Stato membro emittente violino i diritti fondamentali dell’interessato e i principi giuridici generali sanciti dall’articolo 6 TUE, o se detto articolo debba essere interpretato nel senso che, in questi casi, lo Stato di esecuzione può o deve subordinare la sua decisione sulla ricevibilità della domanda di consegna a garanzie sul rispetto delle condizioni di detenzione e se lo Stato di esecuzione possa o debba formulare al riguardo concreti requisiti minimi per quanto riguarda le condizioni di detenzione da garantire; nella seconda questione, viene chiesto al giudice europeo se gli articoli 5 [13] e 6, par. 1 [14], della decisione quadro debbano essere interpretati nel senso che l’autorità giudiziaria emittente è anche autorizzata a fornire garanzie sul rispetto delle condizioni di detenzione, o se, a tal riguardo, rimanga fermo quanto previsto dal sistema interno di attribuzione delle competenze dello Stato membro emittente.
La Grande Sezione della Corte di Lussemburgo ritiene che gli articoli 1, par. 1, 3, 5 e 6, della decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, come modificata dalla decisione quadro 2009/299/GAI del Consiglio, del 26 febbraio 2009, devono essere interpretati nel senso che, in presenza di elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati comprovanti la presenza di carenze vuoi sistemiche o generalizzate, vuoi che colpiscono determinati gruppi di persone, vuoi ancora che colpiscono determinati centri di detenzione per quanto riguarda le condizioni di detenzione nello Stato membro emittente, l’autorità giudiziaria di esecuzione deve verificare, in modo concreto e preciso, se sussistono motivi seri e comprovati da ritenere che la persona destinataria di un m.a.e., emesso ai fini dell’esercizio dell’azione penale o dell’esecuzione di una pena privativa della libertà, a causa delle condizioni di detenzione in tale Stato membro, corra un rischio concreto di trattamento inumano o degradante, ai sensi dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in caso di consegna al suddetto Stato membro. A tal fine, essa deve chiedere la trasmissione di informazioni complementari all’autorità giudiziaria emittente, e deve rinviare la propria decisione sulla consegna dell’interessato fino all’ottenimento di queste che le consentano di escludere la sussistenza di siffatto rischio. Qualora non possa essere esclusa entro un termine ragionevole, tale autorità deve decidere se occorre porre fine alla procedura di consegna [15].
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3. L’intervento della Corte di cassazione nel caso Barbu
Per quanto riguarda l’applicazione della sentenza Aranyosi e Căldăraru nel nostro ordinamento, bisogna analizzare il caso Barbu, dove, il 1° giugno 2016, la Sesta sezione penale della Corte di cassazione si pronuncia sul ricorso proposto dal sig. Barbu, cittadino rumeno, avverso la sentenza della Corte di Appello di Catanzaro, che acconsentiva la sua consegna alle autorità rumene, poiché era stato condannato nel 2012, dal Tribunale di Mehedinti a una pena di un anno ed otto mesi di reclusione per aver commesso il delitto di traffico di sostanze stupefacente ed inoltre, come evidenziato dagli atti della sentenza di primo grado, il condannato aveva deciso di rimanere in contumacia, non presentandosi in giudizio ma rimanendone a conoscenza.
Successivamente, il difensore del cittadino rumeno ha proposto l’annullamento del provvedimento emesso dalla Corte di Appello di Catanzaro, fondando la sua opposizione, alle richieste di consegna delle autorità rumene, sulle seguenti questioni di fatto: ai sensi artt. 6, commi 3, 5 e 6, 1, comma 3, e 17, comma 4, Iegge n. 69 del 2005, non risulterebbe alcuna attestazione di irrevocabilità delle sentenze e provvedimenti oggetto del mandato di arresto europeo, poiché agli atti emerge esclusivamente la sentenza di primo grado; per la violazione delle garanzie processuali previste al cittadino rumeno dagli artt. 2 e 19, comma 1, lett. a), l. n. 69 del 2005, poiché la sentenza di condanna è stata pronunciata in sua assenza; ai sensi dell’art. 18, comma 1, lett. h), della legge di attuazione, il sig. Barbu potrebbe essere in pericolo nel subire trattamenti inumani e degradanti, sulla base dei rapporti stilati dal CPT del Consiglio d’Europa sulla situazione carceraria in Romania; per la violazione dell’art. 1, paragrafi 3, 5 e 6 della decisione quadro 2002/584/JAI, dell’art. 3 CEDU, dell’art. 2, comma 1, I. n. 69 del 2005, poiché la Corte di Catanzaro ha omesso di sospendere la decisione sulla consegna dell’interessato, subordinandola alle informazioni che avrebbe dovuto acquisire in relazione all’istituto penitenziario in cui sarebbe trasferito il condannato; per la violazione dell’art. 16, comma 2, I. n. 69 del 2005, per non aver dato risposta alla richiesta di acquisizione della copia conforme delle sentenza di condanna, emessa in Romania; ed infine, la violazione dell’art. 19, comma 1, lett. a), per non aver richiesto allo Stato romeno garanzie sulla possibilità del Barbu di avere un nuovo processo.
La Suprema Corte, prendendo atto dei motivi su cui si fonda il ricorso proposto dal cittadino rumeno, compie diverse considerazioni. In primo luogo, sia il primo che il quinto motivo non hanno fondamento poiché, l’art. 8 par. 1 lett. c) della decisione quadro 2002/584/GAI, ai fini della consegna del condannato, si riferisce espressamente alla sola “esecutività” e non alla “irrevocabilità” della sentenza di condanna, conseguentemente, non è necessario effettuare ulteriori accertamenti relativi alla possibile irrevocabilità del provvedimento giurisdizionale ed inoltre è irrilevante per il giudizio l’acquisizione delle sentenze emesse nei successivi gradi di giudizio dal giudice straniero, poiché queste ultime avrebbero soltanto riconfermato quando dispone il provvedimento di condanna del giudice di primo grado. In secondo luogo, ritiene che non debbano essere accolti neppure i motivi due e sei perché, in base all’art. 19 comma, 1 lett. a), modificato dal decreto legislativo 15 febbraio 2016, n. 31, che ha dato attuazione alla decisione quadro 2009/299/GAI del Consiglio, per far luogo alla consegna di un mandato di arresto europeo, emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza, inflitte mediante decisione pronunciata in absentia, ovvero emessa all’esito di un processo nel quale l’interessato non è comparso personalmente, è necessario che l’autorità giudiziaria emittente certifichi che il condannato sia stato informato e siano stati garantiti i suoi diritti di difesa, anche con la nomina di un difensore, come avvenuto nel caso in questione dove l’ordinamento rumeno sancisce molteplici garanzie a tutela del diritto di difesa dell’imputato prevedendo anche un ulteriore giudizio. In terzo luogo, risultano fondati i motivi tre e quattro dell’impugnazione proposti dal difensore del sig. Barbu poiché, analizzando il caso storico Aranyosi e Căldăraru, la Corte di Giustizia menziona la relativa procedura che l’autorità di esecuzione deve attuare nel verificare la sussistenza di elementi che attestino un rischio concreto di trattamento inumano o degradante dei detenuti nello Stato membro di emissione, e di conseguenza la Corte di cassazione menziona sia i dati raccolti dal CPT, sia il rapporto del Consiglio d’Europa sulle carceri rumene con le relative problematiche riguardanti le pessime condizioni in cui vivono i detenuti a causa del sovraffollamento, della mancanza di igiene nelle carceri, dei riscaldamenti, nonché la mancanza di acqua calda per la doccia.
Alla luce delle osservazioni poste dalla Corte di Giustizia nella sentenza che è stata esaminata nel precedente paragrafo, la Sesta sezione della Suprema Corte ha annullato la sentenza favorevole all’esecuzione del MAE della Corte di Appello di Catanzaro, rinviando la decisione della questione ad altra sezione della medesima Corte di Appello [16].
4. Considerazioni conclusive
In conclusione, confrontando quanto dispone la Corte di Lussemburgo, rispetto a quanto prevede la Corte di cassazione nel caso caso Barbu, possiamo constatare che quest’ultima abbia deciso di annullare la sentenza della Corte di Catanzaro, non a causa della sua violazione in relazione alle ipotesi di non esecuzione previste nella normativa dell’euro-mandato, piuttosto, per non aver accertato l’esistenza di elementi relativi al motivo di non esecuzione, dedotti dalla Corte di Giustizia, confermando in questo modo che le giurisdizioni di merito hanno l’obbligo di verificare, nell’eseguire una procedura di consegna relativa ad un condannato o imputato, l’esistenza, sulla base di documenti e rapporti compiuti dalle varie organizzazioni internazionali e dei loro comitati, nelle carceri dello Stato di emissioni di situazioni che “condannino” i detenuti, oltre all’espiazione della loro condanna, a subire trattamenti disumani e degradanti.
Inoltre, in base a quanto appena affermato, possiamo affermare che il giudice italiano abbia recepito adeguatamente il contenuto della sentenza Aranyosi e Căldăraru, in quanto non solo non esclude la possibilità che la generica facoltà di rifiuto, riconosciuta in capo all’autorità giudiziaria di esecuzione, possa condurre ad una procedura di rinvio “infinita” della decisione di trasferimento, ma converte anche tale facoltà in obbligo, nel caso in cui non possa escludersi il suddetto rischio[17] rafforzando pienamente la tutela dei diritti fondamentali del condannato o ricercato, rispetto alle traumatiche situazioni di cui potrebbe essere vittima, nel caso in cui venga trasferito nelle carceri dello Stato di emissione. Infine, dal punto di vista de jure, non ci si potrà opporre all’esecuzione dell’euro-mandato, fino a quando il legislatore europeo non introdurrà un’ulteriore modifica, sulla decisione quadro del 2002, prevedendo, come nuovo motivo di rifiuto, il rischio che il ricercato subisca dopo la sua consegna trattamenti inumani e degradanti nelle carceri, sebbene de facto, è stato dimostrato che una sospensione dell’esecuzione, in base ad un atteso miglioramento delle condizioni degli istituti penitenziari che l’hanno provocata, raramente può garantire, in tempi brevi, la sua effettiva consegna e che l’orientamento giurisprudenziale non acconsente all’esecuzione del mandato di arresto europeo, nel caso in cui vi sia il mancato rispetto dei diritti dell’interessato [18].
Note
[1] DI STASI, A., Libertà e sicurezza nello spazio giudiziario europeo: mandato di arresto e “statuto” dei diritti fondamentali nell’Unione Europea, in Dir. comunitario e scambi internaz., vol.4, pp. 657-667, http://www.dirittiuomo.it/sites/default/files/DCSI%204-2007_Di%20Stasi.pdf.
[2] Ai sensi dell’art. 1, par. 1 della decisione quadro, si intende una decisione giudiziaria emessa dall’autorità giudiziaria di uno Stato membro, affinché l’autorità giudiziaria di un altro Paese consenta di esercitare l’azione penale, sulla base di un provvedimento che abbia inflitto una pena detentiva, o l’esecuzione di una pena o misura privativa della libertà personale nei confronti del ricercato, con la sua consegna, allo Stato membro di emissione, UNIONE EUROPEA. Decisione quadro 2002/584/GAI: Decisione quadro del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, in Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, L. 190/1, 18 luglio 2002, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ALL/?uri=CELEX%3A32002F0584.
[3] Vedi Risoluzione del Parlamento europeo del 27 febbraio 2014, recante raccomandazioni alla Commissione sul riesame del mandato di arresto europeo, (2013/2109[INL]), https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A52014IP0174.
[4] LOMBARDI, G. A., Il rifiuto del MAE per il rischio di violazione dei diritti umani, tra sentenze interpretative e mancate previsioni legislative, in Arch. pen., fasc. n. 1 – Gennaio-Aprile 2021, pp. 3-9, https://archiviopenale.it/File/DownloadArticolo?codice=1e34c13b-2dbd-423a-88d8-dc397f84fec0&idarticolo=27053.
[5] Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT) è stato istituito dal’omonima Convenzione adottata nel 1987 dal Consiglio d’Europa in base all’art. 3 della CEDU, il quale stabilisce inderogabilmente che nessuno può essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani e degradanti. La sua funzione consiste nel prevenire trattamenti inumani e torture negli istituti penitenziari, attraverso sopralluoghi negli istituti penitenziari, MORGANTE, A., Analisi dell’esperienza europea del C.P.T. e sguardo negli ordinamenti in cui l’Ombudsman è già operante, in L’altro diritto, Rivista annuale edita da Pacini Giuridica Editore, Pisa, 2007, pp. 38-45.
[6] PAGELLA, C., Le carceri italiane sotto la lente del Consiglio d’Europa: il report del CPT sulle visite alle carceri di Biella, Milano Opera, Salluzzo e Viterbo e la replica del governo italiano, in Sistema penale, documenti 11 febbraio 2020, p. 1, https://www.sistemapenale.it/it/documenti/report-del-cpt-sulle-carceri-italiane-2019.
[7] MERCEDES PISANI, M., La sentenza della CGUE Aranyosi e Caldararu apre nuovi orizzonti nella valutazione del MAE che comporti il rischio di trattamento inumano e degradante, in Camere Penali Italiane, Documento 4 maggio 2016, p. 1, https://www.camerepenali.it/cat/7664/la_sentenza_della_cgue_aranyosi_e_caldararu_apre_nuovi_orizzonti_nella_valutazione_del_mae_che_comporti_il_rischio_di_trattamento_inumano_e_degradante.html.
[8] Ai sensi dell’art. 3 della decisione quadro, l’autorità giudiziaria dello Stato membro di esecuzione deve rifiutare l’esecuzione del mandato d’arresto europeo nei casi seguenti: «se il reato alla base del mandato d’arresto è coperto da amnistia nello Stato membro di esecuzione, se quest’ultimo era competente a perseguire il reato secondo la propria legge penale; se in base ad informazioni in possesso dell’autorità giudiziaria dell’esecuzione risulta che la persona ricercata è stata giudicata con sentenza definitiva per gli stessi fatti da uno Stato membro a condizione che, in caso di condanna, la sanzione sia stata applicata o sia in fase di esecuzione o non possa più essere eseguita in forza delle leggi dello Stato membro della condanna; se la persona oggetto del mandato d’arresto europeo non può ancora essere considerata, a causa dell’età, penalmente responsabile dei fatti all’origine del mandato d’arresto europeo in base alla legge dello Stato membro di esecuzione». Inoltre, le circostanze ulteriori in cui l’autorità giudiziaria ha la facoltà di rifiutarsi ad eseguire il m.a.e., sancite nell’art. 4 della decisione quadro, consistono: «se, in uno dei casi di cui all’articolo 2, paragrafo 4, il fatto che è alla base del mandato d’arresto europeo non costituisce reato ai sensi della legge dello Stato membro di esecuzione; tuttavia in materia di tasse e di imposte, di dogana e di cambio, l’esecuzione del mandato di arresto europeo non può essere rifiutata in base al fatto che la legislazione dello Stato membro di esecuzione non impone lo stesso tipo di tasse o di imposte o non contiene lo stesso tipo di normativa in materia di tasse, di imposte, di dogana e di cambio della legislazione dello Stato membro emittente; se contro la persona oggetto del mandato d’arresto europeo è in corso un’azione nello Stato membro di esecuzione per il medesimo fatto che è alla base del mandato d’arresto europeo; se le autorità giudiziarie dello Stato membro dell’esecuzione hanno deciso di non esercitare l’azione penale per il reato oggetto del mandato d’arresto europeo oppure di porvi fine, o se la persona ricercata ha formato oggetto in uno Stato membro di una sentenza definitiva per gli stessi fatti che osta all’esercizio di ulteriori azioni; se l’azione penale o la pena è caduta in prescrizione secondo la legislazione dello Stato membro di esecuzione e i fatti rientrano nella competenza di tale Stato membro in virtù del proprio diritto penale; se in base ad informazioni in possesso dell’autorità giudiziaria dell’esecuzione risulta che la persona ricercata è stata giudicata con sentenza definitiva per gli stessi fatti da un paese terzo a condizione che, in caso di condanna, la sanzione sia stata applicata o sia in fase di esecuzione o non possa più essere eseguita in forza delle leggi del paese della condanna; se il mandato d’arresto europeo è stato rilasciato ai fini del- l’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà, qualora la persona ricercata dimori nello Stato membro di esecuzione, ne sia cittadino o vi risieda, se tale Stato si impegni a eseguire esso stesso tale pena o misura di sicurezza conformemente al suo diritto interno; Se il mandato d’arresto europeo riguarda reati che dalla legge dello Stato membro di esecuzione sono considerati commessi in tutto o in parte nel suo territorio, o in un luogo assimilato al suo territorio; oppure che sono stati commessi al di fuori del territorio dello Stato membro emittente, se la legge dello Stato membro di esecuzione non consente l’azione penale per gli stessi reati commessi al di fuori del suo territorio», UNIONE EUROPEA. Decisione quadro 2002/584/GAI: Decisione quadro del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, ivi., pp. 3-4.
[9] ASTA, G., La sentenza della Corte di Lussemburgo sul caso Aranyosi e Căldăraru: una (difficile) coesistenza tra tutela dei diritti fondamentali e mandato di arresto europeo, in Osservatorio Costituzionale, fasc. 2/2016, 19 luglio 2016, pp. 2-3, https://www.osservatorioaic.it/images/rivista/pdf/sentenza_corte_di_lussemburgo.pdf.
[10] CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, Varga and Others v. Hungary, nn. 14097/12, 45135/12, 73712/12, 34001/13, 44055/13 e 64586/13, 10 marzo 2015.
[11] L’articolo in questione prevede che «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti», CONSIGLIO D’EUROPA, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Roma 4 novembre 1950, entrato in vigore 3 settembre 1953, p. 7, https://echr.coe.int/Documents/Convention_ITA.pdf.
[12] L’articolo in esame sancisce «l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali e i fondamentali principi giuridici sanciti dall’articolo 6 del trattato sull’Unione europea non può essere modificata per effetto della presente decisione quadro», UNIONE EUROPEA. Decisione quadro 2002/584/GAI: Decisione quadro del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, ivi., p. 2.
[13] Ai sensi dell’art. 5 della decisione quadro «l’esecuzione del mandato d’arresto europeo da parte dell’autorità giudiziaria dell’esecuzione può essere subordinata dalla legge dello Stato membro di esecuzione ad una delle seguenti condizioni: se il mandato di arresto europeo è stato emesso ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza comminate mediante decisione pronunciata «in absentia», e se l’interessato non è stato citato personalmente né altrimenti informato della data e del luogo dell’udienza che ha portato alla decisione pronunciata in absentia, la consegna può essere subordinata alla condizione che l’autorità giudiziaria emittente fornisca assicurazioni considerate sufficienti a garantire alle persone oggetto del mandato d’arre- sto europeo la possibilità di richiedere un nuovo processo nello Stato membro emittente e di essere presenti al giudizio; se il reato in base al quale il mandato d’arresto europeo è stato emesso è punibile con una pena o una misura di sicurezza privative della libertà a vita, l’esecuzione di tale man- dato può essere subordinata alla condizione che lo Stato membro emittente preveda nel suo ordinamento giuridico una revisione della pena comminata su richiesta o al più tardi dopo 20 anni, oppure l’applicazione di misure di clemenza alle quali la persona ha diritto in virtù della legge o della prassi dello Stato membro di emissione, affinché la pena o la misura in questione non siano eseguite; se la persona oggetto del mandato d’arresto europeo ai fini di un’azione penale è cittadino o residente dello Stato membro di esecuzione, la consegna può essere subordinata alla condizione che la persona, dopo essere stata ascoltata, sia rinviata nello Stato membro di esecuzione per scontarvi la pena o la misura di sicurezza privative della libertà eventualmente pronunciate nei suoi confronti nello Stato membro emittente, UNIONE EUROPEA. Decisione quadro 2002/584/GAI: Decisione quadro del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, ivi., p. 4.
[14] L’articolo in questione sancisce che «per autorità giudiziaria emittente si intende l’autorità giudiziaria dello Stato membro emittente che, in base alla legge di detto Stato, è competente a emettere un mandato d’arresto europeo», UNIONE EUROPEA. Ibid.
[15] CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, cause riunite C-404/15 e C-659/15 PPU, caso Aranyosi e Căldăraru, Pál Aranyosi e Robert Căldăraru e Hanseatisches Oberlandesgericht in Bremen, 5 aprile 2016, in Digital Reports ECLI:EU:C:2016:198, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ALL/?uri=CELEX%3A62015CJ0404.
[16] REPUBBLICA ITALIANA. CORTE DI CASSAZIONE. SEZIONE SESTA, 1° giugno del 2016 n. 23277, in Cass. Pen., 2016.
[17] ASTA, G., La sentenza della Corte di Lussemburgo sul caso Aranyosi e Căldăraru, ivi., pp. 14-15.
[18] LOMBARDI, G. A., Il rifiuto del MAE per il rischio di violazione dei diritti umani, ivi., p. 27.
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