Verifica dell’uso ragionevole del potere discrezionale affidato alla polizia

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Nel caso di arresto facoltativo, in che modo il giudice deve verificare l’uso ragionevole del potere discrezionale affidato alla polizia

     Indice

  1. Il fatto
  2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
  3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
  4. Conclusioni

(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 381)

1. Il fatto

Il Tribunale di Vicenza non convalidava un arresto, così come non disponeva alcuna misura cautelare sul presupposto dell’insussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 585 cod. pen. in relazione all’art. 576, comma primo, n. 5-bis. cod. pen., dovendosi escludere, secondo questo Tribunale, che il fatto fosse stato commesso nei confronti di un agente della Polizia locale “nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio“.

2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento summenzionato proponeva ricorso per Cassazione la pubblica accusa, la quale affidava le proprie censure ad un unico ed articolato motivo con cui si deduceva violazione di legge e correlato vizio di motivazione in riferimento alla qualificazione giuridica del fatto in quanto, a suo avviso, il giudice della convalida avrebbe errato nel non ritenere la contestata aggravante in relazione ad un fatto di lesioni causate ad un agente di polizia municipale proprio a causa del servizio da questo espletato in occasione di un controllo stradale, effettuato circa due anni prima, a cui era seguito, a norma dell’art. 183 c.d.s., il sequestro dell’autovettura dell’indagato.


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3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso era ritenuto fondato.

Si osservava a tal proposito che, in sede di convalida dell’arresto, il giudice è chiamato a valutare la sussistenza, con giudizio ex ante, degli elementi che legittimavano l’adozione del provvedimento, cioè, deve verificare l’esistenza degli estremi della flagranza e della configurabilità di un reato e le altre condizioni elencate nell’art. 381, comma 4, cod. proc. pen.; in caso di arresto facoltativo, deve, pure, verificare l’uso ragionevole del potere discrezionale affidato alla polizia e, per espletare tale verifica, il giudice deve prendere in considerazione tutti gli elementi fattuali, desumibili dal verbale di arresto, che erano noti alla polizia giudiziaria ed anche le circostanze che la stessa avrebbe potuto agevolmente apprendere usando l’ordinaria diligenza; deve tenere presenti elementi pertinenti forniti dall’arrestato e dal suo difensore per verificare la legittima privazione della libertà fermo restando che tale controllo deve avere riguardo alla situazione in cui ha operato la polizia giudiziaria senza tenere conto degli elementi, non conosciuti o non conoscibili dalla stessa, successivamente emersi (ex multis, Sez. 1, n. 15296 del 4/4/2006, omissis, Rv. 234211; Sez. 5, n. 49340 del 16/9/2019, P, R. 278382).

La polizia giudiziaria è tenuta quindi a indicare le ragioni che l’hanno indotta a esercitare il proprio potere di privare della libertà – in relazione alla gravità del fatto e alla pericolosità dell’arrestato – ma non occorre un’apposita motivazione, essendo sufficiente che tali ragioni emergano dal contesto descrittivo del verbale d’arresto o dagli atti complementari, in modo da consentire al giudice della convalida di prenderne conoscenza e di sindacarle (Sez. 6, n. 31281 del 6/5/2009; Sez. 3, n. 35304 dell’11/5/2016).

Orbene, a fronte del fatto che il Giudice non aveva convalidato l’arresto poiché la persona offesa non rivestiva, né la qualifica di agente di polizia di stato, né quella di agente di pubblica sicurezza e, a fondamento della propria decisione, aveva evidenziato, inoltre, come non solo l’agente al momento dell’aggressione fosse libero dal servizio, ma veniva richiamato quanto affermato dalla Corte di legittimità nella sentenza Sez. 6, n. 31231 del 25/09/2020, secondo cui «La circostanza aggravante di cui all’art. 576, comma primo, n. 5-bis, cod. pen. non risulta sempre configurabile nel caso di reato commesso ai danni di appartenenti alla polizia municipale, in quanto questi ultimi rivestono la qualifica di ufficiale o agente di polizia giudiziaria solo se risulti in concreto lo svolgimento delle attività previste dall’art. 57 cod. proc. pen., ovvero quella di agente di pubblica sicurezza a condizione che vi sia un formale provvedimento prefettizio adottato ai sensi dell’art. 5 della legge 7 marzo 1986, n. 65».

Oltre a ciò, era altresì fatto presente come il giudice avesse poi rilevato che, pur trattandosi di un reato per il quale, ove non ritenuto nella forma circostanziata, a norma dell’art. 381, comma 2, lett. f), cod. proc. pen., é comunque consentito l’arresto in flagranza facoltativo, nella specie tale possibilità doveva ritenersi esclusa, a norma dell’art. 2, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 274 del 2000, in quanto, trattandosi di lesioni personali dolose perseguibili a querela di parte, esse erano di competenza del giudice di pace.

Ebbene, ad avviso del Supremo Consesso, il provvedimento impugnato, nel suo complesso, non era da condividersi.

Si evidenziava a tal riguardo, stante il fatto che, ai sensi dell’art. 5 co.1 l. 65/86, il personale della Polizia Municipale svolge anche funzioni di polizia giudiziaria, polizia stradale e pubblica sicurezza e che, come correttamente messo in rilievo dal ricorrente, non occorre, perché sia configurabile l’aggravante in questione, che l’agente di polizia municipale ponga in essere una specifica funzione di polizia giudiziaria predefinita in un ordine di servizio essendo sufficiente, argomentando dal combinato disposto di cui agli artt. 55 e 57 cod. proc. pen., che al momento del fatto sussista la qualifica di agente di polizia giudiziaria, come fosse pacifico che, durante l’aggressione, la persona offesa non era in servizio, così come fosse parimenti pacifico, per quanto emerge dal verbale di arresto, che l’aggressione era avvenuta a causa del forte risentimento nutrito dall’aggressore nei confronti dell’aggredito per un suo precedente atto di servizio.

Di conseguenza, visto che, ai sensi dell’art. 576, comma primo, n. 5-bis cod. pen. l’aggravante è configurabile, non solo quando il fatto venga commesso nei confronti di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di un ufficiale o agente di pubblica sicurezza nel momento in cui sta esplicando le proprie funzioni o il proprio servizio, ma anche quando il fatto sia stato commesso a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio ossia trovi la sua ragion d’essere proprio per il compimento di tale atto dato che la lettera della norma induce a ritenere che il legislatore abbia inteso apprestare una tutela rafforzata a determinati soggetti in considerazione dello specifico ruolo svolto, non solo quando il fatto sia stato commesso contro uno di loro mentre compivano un atto della propria funzione o del proprio ufficio, ma anche quando sia posto in essere a causa di tale atto.

Sicché tale aggravante è configurabile anche quando il fatto venga compiuto, facendo riferimento agli elementi tratti dalla valutazione della condotta tenuta nei confronti di uno di tali soggetti, mentre sono nella veste di privati cittadini, per vendicarsi di un atto di ufficio da costoro compiuto, a nulla rilevando l’arco di tempo intercorso tra il reato e l’atto d’ufficio che lo abbia determinato.

Da ciò discendeva, per gli Ermellini, come, in tale situazione, la polizia, al momento in cui aveva proceduto all’arresto, avesse fatto un uso (reputato) corretto dei doveri-poteri che le competevano e conseguentemente l’ordinanza impugnata doveva essere annullata senza rinvio perché l’arresto era stato legittimamente eseguito.

4. Conclusioni

La decisione in esame desta un certo interesse essendo ivi chiarito in che modo il giudice deve verificare l’uso ragionevole del potere discrezionale affidato alla polizia nel caso di arresto facoltativo.

Difatti, in tale pronuncia, è affermato, sulla scorta di un pregresso orientamento nomofilattico, che il giudice, in caso di arresto facoltativo, deve verificare l’uso ragionevole del potere discrezionale affidato alla polizia e, per espletare tale verifica, il giudice deve prendere in considerazione tutti gli elementi fattuali, desumibili dal verbale di arresto, che erano noti alla polizia giudiziaria ed anche le circostanze che la stessa avrebbe potuto agevolmente apprendere usando l’ordinaria diligenza, nonché tenere presenti elementi pertinenti forniti dall’arrestato e dal suo difensore per verificare la legittima privazione della libertà fermo restando che tale controllo deve avere riguardo alla situazione in cui ha operato la polizia giudiziaria senza tenere conto degli elementi, non conosciuti o non conoscibili dalla stessa, successivamente emersi.

La polizia giudiziaria è tenuta quindi a indicare le ragioni che l’hanno indotta a esercitare il proprio potere di privare della libertà – in relazione alla gravità del fatto e alla pericolosità dell’arrestato – ma non occorre un’apposita motivazione, essendo sufficiente che tali ragioni emergano dal contesto descrittivo del verbale d’arresto o dagli atti complementari, in modo da consentire al giudice della convalida di prenderne conoscenza e di sindacarle.

Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione ogni volta si debba appurare se questa verifica sia stata correttamente svolta, o meno.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su siffatta tematica procedurale sotto il profilo giurisprudenziale, dunque, non può che essere positivo.

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