- Il fatto
- I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
- Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
- Conclusioni
1. Il fatto
Il Tribunale di Catania, in funzione di giudice dell’esecuzione, respingeva una istanza di applicazione della disciplina della continuazione tra delle sentenze di condanna emesse dalla Corte d’appello di Catania.
In particolare, nel respingere l’istanza, il giudice dell’esecuzione evidenziava come i reati oggetto delle sentenze in questione fossero stati commessi a distanza di quasi due anni l’uno dall’altro e che, per il contesto di criminalità organizzata in cui si inserivano, essi fossero indice, non di programmazione unitaria, ma di pieno inserimento del reo nel tessuto della microcriminalità operante nel territorio.
2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il provvedimento summenzionato proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’istante, il quale deduceva i seguenti motivi: violazione di legge e vizio di motivazione sul mancato riconoscimento della continuazione che, a giudizio del ricorrente, non sarebbe stato precluso dalla distanza temporale tra i fatti oggetto dell’istanza che sarebbe stati di soli pochi mesi, il che, anzi, avrebbe confermato l’identità di tipologia dei due reati commessi.
Potrebbero interessarti anche:
- La particolare tenuità del fatto può essere riconosciuta anche in caso di continuazione: vediamo come
- In materia di continuazione, nel caso di annullamento con rinvio vige il divieto della reformatio in peius
- Continuazione tra reati, ai sensi dell’art. 81 c.p., come il giudice deve determinare la pena complessiva
3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il ricorso era dichiarato inammissibile.
In particolare, dopo essersi fatto presente che la norma di cui era stata chiesta applicazione al giudice dell’esecuzione è l’art. 671, comma 1, primo periodo, cod. proc. pen., che dispone che “nel caso di più sentenze o decreti penali irrevocabili pronunciati in procedimenti distinti contro la stessa persona, il condannato o il pubblico ministero possono chiedere al giudice dell’esecuzione l’applicazione della disciplina del concorso formale o del reato continuato, sempre che la stessa non sia stata esclusa dal giudice della cognizione”, e che i presupposti sostanziali per l’applicazione di ciò che l’art. 671, comma 1, definisce “disciplina del reato continuato” si rinvengono nell’art. 81, comma 2, cod. pen., che la ammette per “chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge”, gli Ermellini osservavano che la norma de qua non detta una definizione di “medesimo disegno criminoso“ e, per riempire di contenuto la previsione, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che alla individuazione del “medesimo disegno criminoso” si debba arrivare attraverso criteri indicatori, quali l’omogeneità delle violazioni e del bene protetto, la contiguità spazio-temporale, le singole causali, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita (cfr. Sez. U, Sentenza n. 28659 del 18/05/2017) fermo restando che, all’esito della ricognizione di questi criteri indicatori, si riconosce la continuazione se si perviene alla conclusione che “al momento della commissione del primo reato, i successivi fossero stati programmati almeno nelle loro linee essenziali” (sempre Sez. U, n. 28659/2017).
Oltre a ciò, i giudici di piazza Cavour facevano altresì presente che l’onere di allegazione dell’esistenza del “medesimo disegno criminoso“, in conformità alle regole generali, grava su chi la afferma, e quindi, in definitiva, sull’imputato, se questi, come nel caso in esame, è l’istante che ha chiesto l’applicazione della continuazione nell’incidente di esecuzione (cfr. Sez. 1, Sentenza n. 35806 del 20/04/2016: in tema di esecuzione, grava sul condannato che invochi l’applicazione della disciplina del reato continuato l’onere di allegare elementi specifici e concreti a sostegno, non essendo sufficiente il mero riferimento alla contiguità cronologica degli addebiti ovvero all’identità dei titoli di reato, in quanto indici sintomatici non di attuazione di un progetto criminoso unitario quanto di un’abitualità criminosa e di scelte di vita ispirate alla sistematica e contingente consumazione degli illeciti).
Orbene, declinando tali criteri ermeneutici rispetto al caso di specie, la Suprema Corte notava come il ricorrente avesse ricavato la prova dell’unicità del disegno criminoso dalla circostanza che i reati, per cui era chiesta l’applicazione della continuazione, fossero della stessa tipologia, trattandosi in entrambi i casi di rapina in concorso.
In realtà, però, per il Supremo Consesso, la mera identità del titolo di reato non è sufficiente per consentire di riconoscere l’unicità del disegno criminoso che è soltanto uno dei diversi criteri indicatori.
Nel caso in esame, pertanto, come (ritenuto) correttamente rilevato dal giudice dell’esecuzione nella ordinanza, gli elementi di giudizio a disposizione deponevano nel senso della esistenza non di un disegno criminoso unico, ma soltanto di un’abitualità criminosa e di scelte di vita ispirate alla sistematica e contingente consumazione di illeciti (cfr. Sez. 1, n. 35806 del 20/04/2016).
4. Conclusioni
La decisione in esame desta un certo interesse, essendo ivi chiarito, in materia di continuazione, in cosa consiste il medesimo disegno criminoso.
Difatti, in tale pronuncia, è affermato, sulla scorta di un pregresso orientamento nomofilattico, una volta fatto presente che l’art. 81, co. 2, cod. pen. non detta una definizione di “medesimo disegno criminoso“, che, per verificare la sussistenza di tale medesimo disegno criminoso, bisogna avvalersi di taluni criteri indicatori, quali l’omogeneità delle violazioni e del bene protetto, la contiguità spazio-temporale, le singole causali, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita, fermo restando che: 1) all’esito della ricognizione di questi criteri indicatori, si riconosce la continuazione se si perviene alla conclusione che, al momento della commissione del primo reato, i successivi fossero stati programmati almeno nelle loro linee essenziali; 2) l’onere di allegazione grava su chi la afferma e, quindi, in definitiva, sull’imputato, se questi è l’istante che ha chiesto l’applicazione della continuazione nell’incidente di esecuzione; 3) la mera identità del titolo di reato non è sufficiente per consentire di riconoscere l’unicità del disegno criminoso che è soltanto uno dei diversi criteri indicatori.
Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione ogni volta si debba appurare se siffatto medesimo disegno criminoso sussista (o meno).
Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su cotale tematica giuridica sotto il profilo giurisprudenziale, dunque, non può che essere positivo.
Volume consigliato:
Compendio di Diritto Penale – Parte speciale
Il testo è aggiornato a: D.Lgs. 75/2020 (lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione); D.L. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni); L. 113/2020 (Disposizioni in materia di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni) e D.L. 130/2020 (c.d. decreto immigrazione). Fabio PiccioniAvvocato del Foro di Firenze, patrocinante in Cassazione; LL.B., presso University College of London; docente di diritto penale alla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali; coordinatore e docente di master universitari; autore di pubblicazioni e monografie in materia di diritto penale e amministrativo sanzionatorio; giornalista pubblicista.
Fabio Piccioni | 2021 Maggioli Editore
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento