Quando è configurabile il tentativo di violenza privata

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     Indice

  1. Il fatto
  2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
  3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
  4. Conclusioni

(Riferimento normativo: Cod. pen., artt. 56, 610)

1. Il fatto

La Corte di Appello di Trieste riformava parzialmente una decisione adottata dal Gup del Tribunale di Udine che, in esito a giudizio abbreviato, aveva riconosciuto gli imputati colpevoli del delitto di tentata estorsione aggravata ascritto al capo a) e uno solo di essi. anche del delitto di violenza privata sub b), condannandoli alla pena ritenuta di giustizia.

La Corte territoriale triestina, inoltre, qualificato il fatto sub b) quale tentativo di violenza privata, riduceva la pena inflitta ad uno degli imputati, confermando nel resto.

2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento summenzionato proponevano ricorso per Cassazione ambedue gli imputati.

In particolare, uno di essi, per mezzo del suo difensore, deduceva i seguenti motivi: 1) violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza del dolo estorsivo; 2) violazione di legge e correlato vizio di motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza della recidiva ex art. 99, comma 4, cod. pen.; 3) violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo al diniego delle attenuanti generiche e alla dosimetria della pena; 4) omessa motivazione con riguardo alla doglianza difensiva concernente la determinazione della pena base in misura superiore al minimo edittale.

Ciò posto, l’altro imputato, per il tramite del suo legale, dal canto suo, prospettava le seguenti doglianze: I) violazione dell’art. 629 cod. pen. e mancanza di motivazione in ordine all’uso di violenza o minaccia da parte della ricorrente; II) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento psicologico della fattispecie ex art. 629 cod. pen.; III) mancanza di motivazione in ordine agli elementi costitutivi del reato di violenza privata; IV) omessa motivazione con riguardo al mancato riconoscimento della desistenza volontaria. 


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3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Per quanto riguarda la prima doglianza del primo ricorso summenzionato, esso era reputato manifestamente infondato posto che, ad avviso del Supremo Consesso, l’azione nei confronti della vittima era ritenuta sinergica e temporalmente concentrata, chiaramente dotata di attitudine intimidatrice e idonea alla coercizione nonché alla realizzazione del profitto ingiusto perseguito.

Per quanto invece inerisce la prima doglianza del secondo ricorso suesposto e della seconda doglianza del primo ricorso, gli Ermellini addivenivano alla loro reiezione posto che se è vero, come rilevato in sede nomofilattica, che il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie e che il concorso del terzo nel reato ex art. 393 cod. pen. è configurabile nei soli casi in cui questi si limiti ad offrire un contributo alla pretesa del creditore, senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità, è altrettanto vero però che si tratta di principi destinati ad operare esclusivamente in presenza di una pretesa giudiziariamente tutelabile mentre, sempre ad avviso della Suprema Corte, mancava nella specie una pretesa creditoria suscettibile di tutela in sede giudiziaria per la cui soddisfazione gli imputati avrebbero agito nomine alieno, con conseguente impossibilità di ricondurre il fatto nell’alveo dell’art. 393 cod. pen..

Precisato ciò, quanto alla tesi dell’errore scriminante ex art. 47 cod. pen. (seconda doglianza del secondo ricorso summenzionato), i giudici di piazza Cavour lo ritenevano manifestatamente infondato, non solo perché proposto per la prima volta in sede di legittimità, ma anche alla luce di quell’orientamento ermeneutico secondo cui l’errore dell’agente sulla azionabilità della pretesa non costituisce errore su norma extrapenale ma su norma che integra la fattispecie astratta, e quindi non vale ad escludere la responsabilità, risolvendosi in un errore di diritto penalmente irrilevante (in tema di errore inescusabile, tra molte, Sez. 6, n. 25941 del 31/03/2015; n. 27941 del 31/05/2016; in fattispecie analoga a quella a giudizio, Sez. 2, n. 3651 del 14/01/1986).

Ciò posto, erano parimenti stimati destituiti di giuridico fondamento i motivi terzo e quarto del secondo ricorso summenzionato.

In particolare, per il terzo motivo, gli Ermellini ritenevano come la difesa non avesse chiarito quali elementi di dubbio di valenza antagonista sarebbero stati pretermessi dalla Corte territoriale, spiegandone l’attitudine a smentire la ricostruzione fattuale accreditata dai giudici di merito tanto più se si considera che, non essendo stata messo in discussione il fatto che l’imputata, con una mossa violenta e repentina, aveva colpito la p.o. alle mani, provocando la caduta e il conseguente danneggiamento del telefono cellulare con il quale si apprestava a segnalare l’accaduto alle forze di polizia,  la Cassazione ha, in più occasioni, precisato che, ai fini della configurabilità del tentativo di violenza privata, non è necessario che la minaccia abbia effettivamente intimorito il soggetto passivo determinando una costrizione, ancorché improduttiva del risultato perseguito, ma è sufficiente che essa sia idonea ad incutere timore e sia diretta a costringere il destinatario a tenere, contro la propria volontà, la condotta pretesa dall’agente (Sez. 5, n. 34124 del 06/05/2019; n. 40782 del 11/07/2013).

Invece, per il quarto motivo, si addiveniva al medesimo giudizio formulato per il terzo in ragione del fatto che l’istituto della desistenza volontaria non era giuridicamente configurabile nella fattispecie in esame dato che, costituendo il delitto di violenza privata un reato a forma libera, la desistenza volontaria, che presuppone un tentativo incompiuto, non è ravvisabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l’evento, rispetto ai quali può invece operare, se il soggetto agente tiene una condotta attiva che valga a scongiurare l’evento, la diminuente per il cosiddetto recesso attivo (Sez. 5, n. 17241 del 20/01/2020).

Infine, per la Corte di legittimità, manifestamente infondati si appalesavano le censure del difensore prospettate nel primo ricorso succitato, in ordine ai motivi nn. 2, 3 e 4, vale a dire le doglianze aventi ad oggetto l’apparato circostanziale e il trattamento sanzionatorio.

Difatti, ad avviso dei giudici di legittimità ordinaria, la Corte di merito aveva congruamente argomentato la sussistenza della recidiva, richiamando l’ingravescente percorso criminale del prevenuto, attinto da plurimi precedenti e già assoggettato alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, reiteratamente violata, trattandosi di elementi che disegnavano una biografia segnata da una persistente proclività a delinquere in cui la ricaduta nel reato era indice univoco di accresciuta pericolosità.

Allo stesso modo, parimenti destituiti di fondamento erano reputati i rilievi in punto di diniego delle attenuanti generiche avendo la Corte di merito espressamente confutato tutti gli elementi addotti a corredo dell’invocata mitigazione sanzionatoria, evidenziando l’assenza di allegazioni a sostegno dello stato di disagio sociale del prevenuto, rimpossibilità di valorizzare a tal fine l’opzione per il rito abbreviato e rimarcando la spiccata intensità del dolo, desumibile dalla natura delle minacce formulate.

Chiarito ciò, quanto infine all’omessa motivazione circa il censurato discostamento dal minimo edittale, si notava come il primo giudice, partendo dal minimo edittale della fattispecie consumata semplice in esito al giudizio di comparazione, avesse operato la riduzione per il tentativo in misura assai prossima al massimo dei due terzi e siffatta quantificazione era stata ritenuta congrua dal giudice d’appello con valutazione (considerata) non censurabile in sede di legittimità.

4. Conclusioni

La decisione in esame desta un certo interesse essendo chiarito quando è configurabile il tentativo di violenza privata.

Difatti, in tale pronuncia, si afferma, lungo il solco di un pregresso orientamento nomofilattico, che, ai fini della configurabilità del tentativo di violenza privata, non è necessario che la minaccia abbia effettivamente intimorito il soggetto passivo determinando una costrizione, ancorché improduttiva del risultato perseguito, ma è sufficiente che essa sia idonea ad incutere timore e sia diretta a costringere il destinatario a tenere, contro la propria volontà, la condotta pretesa dall’agente.

Tale provvedimento, quindi, può essere preso nella dovuta considerazione ogni volta si debba appurare la sussistenza di tale illecito penale nella forma tentata.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su siffatta tematica giuridica sotto il profilo giurisprudenziale, dunque, non può che essere positivo.

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