Indice
- Il fatto
- I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
- Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
- La posizione assunta dalla Procura generale presso la Corte di Cassazione
- Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite
- Conclusioni
1. Il fatto
Il Tribunale di Napoli, in funzione di giudice distrettuale del riesame, aveva dichiarato inammissibile un appello proposto, ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen., avverso una ordinanza della Corte di assise di Appello di Napoli che, a sua volta, aveva rigettato la sua richiesta, del pari personale, di sostituzione, con altra meno afflittiva, della misura cautelare della custodia in carcere, allo stesso applicata per essere gravemente indiziato della commissione, nel 2007, dei delitti di duplice omicidio pluriaggravato, detenzione e porto di armi comuni da sparo e occultamento di cadavere.
Per tali reati, successivamente, l’imputato era stato condannato, all’esito del giudizio svoltosi con rito abbreviato, con sentenza del 27 ottobre 2017 del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli, alla pena di venti anni di reclusione, confermata dalla stessa Corte territoriale partenopea.
In particolare, il Tribunale aveva richiamato preliminarmente le prescrizioni dettate dai commi 3 e 4-bis dell’art. 299 cod. proc. pen., aggiunti dall’art. 2 d.l. 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, alla cui stregua la parte che richiede la modifica dello stato cautelare è onerata, anche nella fase successiva alla chiusura delle indagini preliminari e a pena di inammissibilità dell’istanza, di notificare contestualmente la richiesta al difensore della persona offesa e, in mancanza di questo, alla persona offesa, al fine di consentire alla vittima della violenza la presentazione di memorie ex art. 121 cod. proc. pen., nonché aveva illustrato la ratio della Direttiva 2012/29/UE e dell’indicata norma, che l’ha attuata, individuata, in linea con la Convenzione di Istanbul, nell’esigenza di assicurare, mediante la preventiva informazione, una maggiore protezione e assistenza delle persone offese, garantendone l’interlocuzione con l’autorità giudiziaria, attraverso un contraddittorio cartolare, sull’oggetto della richiesta.
Oltre a ciò, erano state altresì ricostruite le problematiche indotte dalla prescrizione normativa (in ordine al concetto di violenza, all’individuazione dei reati cui è pertinente e dei destinatari della tutela, all’interpretazione del testo normativo, alla natura della patologia afferente all’atto processuale, alla sua rilevabilità di ufficio), argomentando in ordine alle ragioni della condivisione di illustrate opzioni interpretative, rilevando al contempo che l’appellante, che rispondeva di delitto commesso con violenza alla persona, non aveva notificato l’istanza ai prossimi congiunti della vittima che, considerati «persone offese/vittime del plurimo omicidio ed occultamento dei cadaveri», non avevano nominato un difensore né eletto o dichiarato domicilio, ma i cui dati erano evincibili dagli atti del fascicolo processuale.
Orbene, a ragione della decisione, il Tribunale aveva ritenuto rilevabile di ufficio nel giudizio cautelare l’omessa comunicazione inducente alla nullità del provvedimento adottato e non pregiudicato il rilievo dell’inammissibilità originaria dell’istanza e di quella derivata dell’impugnazione dall’intervenuta pronuncia nel merito sulla richiesta da parte della Corte di Assise di Appello di Napoli, rappresentando, in particolare, di aderire all’indirizzo interpretativo – recepito da alcune pronunce di legittimità e ritenuto più rispettoso dei canoni di un’interpretazione sistematica e della voluntas legis, confortata dalla lettera della disposizione normativa – secondo il quale, mentre non ricorrerebbe per legge alcun obbligo della persona offesa di eleggere domicilio, sarebbe sufficiente ad attivare il contraddittorio anche una semplice dichiarazione di domicilio.
Quest’ultima, per la sua natura meramente dichiarativa e per il rapporto implicato tra la persona e il luogo di notificazione degli atti, invero, sarebbe parificabile, non richiedendosi formule sacramentali, all’indicazione della residenza, comunque ricavabile dagli atti del procedimento e generalmente contenuta nelle denunce o nei verbali di sommarie informazioni e, quindi, la notificazione sarebbe sempre dovuta, anche quando la richiesta fosse formulata direttamente e personalmente dalla parte interessata, salva l’ipotesi dell’omessa indicazione in alcun modo, da parte della persona offesa, dei propri dati anagrafici e della non emergenza dagli atti del luogo dove eseguirla.
Alla luce di tale ricostruzione ermeneutica, di conseguenza, non sarebbe in tal modo aggravata la posizione dell’indagato/imputato né sarebbe pregiudicata la celerità del subprocedimento cautelare, in presenza di un invariato termine di cinque giorni per la decisione.
Alla stregua di quanto sin qui esposto, il Tribunale aveva di conseguenza, rilevato, conclusivamente, che, a suo avviso, non era stata rispettata, nella specie, la condizione imposta relativa all’attivazione del contraddittorio, da parte dell’imputato detenuto istante, nei confronti dei prossimi congiunti delle vittime del plurimo omicidio e occultamento dei cadaveri, oggetto di contestazione, rimarcando contestualmente che, mentre i loro dati erano evincibili dagli atti del fascicolo processuale, nel caso di morte della vittima i diritti della persona offesa andavano esercitati dai prossimi congiunti e si richiamava, in tal senso, la definizione di vittima contenuta nell’art. 2, §1, della Direttiva 2012/29/UE, che, innovativa rispetto alla Decisione quadro (2001/220/GAI), ha compreso nel concetto di vittima, oltre alla persona che avesse subito un pregiudizio fisico, mentale, emotivo o economico a causa di un reato, anche i familiari della persona la cui morte fosse stata causata direttamente da un reato e che avessero subito conseguente pregiudizio.
2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso detta ordinanza proponeva ricorso per Cassazione l’imputato, per mezzo dei suoi difensori, deducendo, con unico motivo ex art. 606„ comma 1, lett. c) ed e), cod. proc. pen., inosservanza di norme processuali previste a pena di inammissibilità con particolare riguardo all’art. 299, commi 2-bis, 3 e 4-bis, cod. proc. pen., e mancanza di motivazione con riferimento all’omesso esame degli atti processuali allegati all’appello proposto ai sensi dell’art. 310 cod. proc. per.
Il ricorrente premetteva a tal riguardo che il richiamo al contenuto dell’art. 299, comma 3, cod. proc. pen. (relativo all’ipotesi in cui, nei procedimenti di cui al precedente comma 2-bis, ovvero «aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona», la richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare sia proposta, al di fuori dell’interrogatorio di garanzia, prima della chiusura delle indagini preliminari), esteso dall’art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen., all’ipotesi in cui, nei medesimi procedimenti, l’indicata richiesta sia proposta dopo la chiusura delle indagini preliminari, rendeva evidente che i prossimi congiunti delle persone offese dell’agguato omicidiario ascritto, benché informati della pendenza del procedimento, non avevano mai esercitato il diritto di nomina di un difensore di fiducia ai sensi dell’art. 101 cod. proc. pen., né eletto domicilio, sollecitandosi, in conseguenza di ciò – evocando l’interpretazione letterale dell’indicata disposizione e il rilevante intervento operato dal legislatore in sede di conversione del d. l. n. 93 del 2013, rappresentato come chiaramente funzionale a escludere l’onere della notificazione della richiesta de libertate in assenza della nomina di un difensore o di elezione di domicilio – l’applicazione dell’orientamento interpretativo opposto a quello seguito dal Tribunale che esonera l’istante, in una situazione del genere, dall’obbligo informativo in favore della persona offesa.
Detto questo, sotto concorrenti profili il ricorrente aveva anche contestato la decisione che aveva riferito la qualità di persona offesa dal reato ai prossimi congiunti delle vittime dell’omicidio, abilitati eventualmente a promuovere, in sede civile e secondo i canoni del diritto civile, azioni risarcitorie o riparatorie nei confronti del responsabile del reato, e privi comunque di relazione stretta o personale con l’autore del fatto e, pertanto, non attinti da concreta possibilità di vittimizzazione secondaria e ripetuta, dolendosi tra l’altro – anche segnalando che l’evocata Direttiva (2012/29/UE) ha affermato solo in termini possibilistici che un danno potrebbe derivare anche ai familiari della vittima – l’eccessiva gravosità dell’onere di notificazione nei termini indicati dal Tribunale per l’imputato detenuto che avesse presentato “personalmente” l’istanza di revoca o di sostituzione della misura cautelare e che fosse comunque tenuto a individuare la dimora delle persone offese.
3. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
La Sezione Prima penale rimetteva la decisione del ricorso alle Sezioni Unite a norma dell’art. 618 cod. proc. pen..
La Sezione rimettente, in particolare, individuava le ragioni della rimessione nel contrasto di orientamenti insorto e radicatosi nella giurisprudenza di legittimità con riguardo all’estensione e alle modalità di adempimento dell’obbligo di notificazione, alla persona offesa da delitto commesso “con violenza alla persona“, dell’istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare applicata all’indagato o all’imputato.
Più nel dettaglio, si evidenziava la peculiarità del caso concreto in cui sono morte le persone offese e, pertanto, la notificazione avrebbe dovuto essere effettuata ai loro prossimi congiunti ovvero alle persone a esse legate da relazione affettiva e con esse stabilmente conviventi.
Ebbene, nel percorso argomentativo seguito, l’ordinanza aveva anzitutto rappresentato le coordinate fattuali pacifiche e univoche della vicenda: sottoposizione del ricorrente alla misura cautelare della custodia in carcere per delitti commessi con violenza alla persona; omessa notificazione dell’istanza di sostituzione di detta misura con altra misura meno afflittiva ai prossimi congiunti delle vittime del duplice omicidio; omessa nomina del difensore di fiducia e omessa elezione o dichiarazione di domicilio da parte dei prossimi congiunti; presenza nel fascicolo di causa delle informazioni necessarie per eseguire l’adempimento, affermando, inoltre, richiamato la ratio dell’intervento normativo che ha modificato, tra l’altro, il comma 4-bis dell’articolo 299 cod. proc. pen. e la genesi della sua attuale formulazione, come la stessa derivi da una modifica, intervenuta in sede di conversione del decreto-legge n. 93 del 2013 (e segnatamente dell’art. 2, comma 1, lett. b, n. 3) con la legge n. 119 del 2013, nonché rimarcando che il punto interpretativo controverso è rappresentato dall’inciso finale della disposizione richiamata che prevede l’obbligo della notificazione dell’istanza di revoca o di sostituzione della misura cautelare, a cura della parte richiedente e a pena di inammissibilità, «presso il difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa, salvo che in quest’ultimo caso essa non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio».
A fronte di ciò, la Sezione rimettente aveva, quindi, rappresentato come la questione ermeneutica controversa fosse stata affrontata dalla prassi giudiziaria secondo direttrici diversificate che si esprimono, salvo le opportune specificazioni, in due orientamenti contrapposti.
In particolare, secondo un primo indirizzo, che si pone in una prospettiva di ampia ed estesa tutela delle facoltà della vittima del reato, alla stessa deve essere riservata piena e costante partecipazione a ogni fase del processo, in linea con le previsioni della Direttiva 2012/29/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 e con i principi della sottesa Convenzione del Consiglio di Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (c.d. Convenzione di Istanbul) e, in detta ottica, l’istanza di revoca o di modifica della misura cautelare coercitiva – ex art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen., ovvero del precedente comma 3 – deve essere sempre notificata alla persona offesa, spettando all’indagato/imputato instaurare, a pena di inammissibilità dell’istanza, il contraddittorio con essa, a prescindere dalla sua attiva partecipazione al processo e, in particolare, dall’intervenuta nomina di un difensore ovvero dall’elezione o dichiarazione di domicilio, non potendo da ciò desumersi un suo disinteresse all’evoluzione del procedimento e alla conoscenza della vicenda cautelare dell’istante (Sez. 2, n. 12377 del 10/02/2021; Sez. 5, n. 4485 del 08/01/2020; Sez. 3, n. 31191 del 21/07/2020; Sez. 2, n. 4877 del 28/10/2020; Sez. 6, n. 8691 del 14/11/2017; Sez. 6, n. 18565 del 08/01/2016; Sez. 2, n. 19704 del 01/04/2016).
A sostegno della soluzione indicata, inoltre, si evocavano gli esiti dell’interpretazione letterale dell’art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen. e di quella sistematica degli altri commi dell’art. 299 cod. proc. pen., anche specificandosi (Sez. 6, n. 8691 del 14/11/2017; Sez. 2, n. 25135 del 25/05/2016) che l’obbligo posto a carico dell’istante trova limite nella “inesigibilità” del suo adempimento, correlata alla materiale indisponibilità, negli atti di causa, delle generalità e dell’indirizzo del destinatario della notifica.
Oltre a tale approdo ermeneutico, si evidenziava la sussistenza di un secondo e opposto orientamento che si colloca in una prospettiva restrittiva, ritenendo che, nel caso in cui la persona offesa non abbia nominato un difensore, né abbia eletto o dichiarato domicilio, la notificazione nei suoi confronti dell’istanza ex art. 299 cod. proc. pen. non sia necessaria e la sua omissione non determini l’inammissibilità dell’istanza (Sez. 1, n. 1460 del 24/11/2020; Sez. 1, n. 5552 del 17/01/2020), rilevando in tal senso: il tenore letterale della pertinente previsione normativa; concorrenti ragioni fondate sul dato esegetico dell’evoluzione del procedimento legislativo che ha portato alla formulazione finale della norma, tenuto conto del disposto dell’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale e dell’intenzione del legislatore espressa con i lavori parlamentari, durante l’iter di conversione del decreto, e con la modifica introdotta con il provvedimento legislativo; ragioni di ordine logico e sistematico, fondate sul ravvisato necessario contemperamento di due diversi ordini di beni tutelati e costituzionalmente rilevanti (libertà e diritto di difesa delle persone indagate o imputate; vita privata e incolumità personale delle persone offese), anche al fine di valorizzare il diritto dell’indagato/imputato e il suo interesse a non dover adempiere all’incombente della notificazione, che, nella ricerca del domicilio della persona offesa, potrebbe essere eccessivamente oneroso e determinare sospensioni o ritardi nell’esame della richiesta cautelare (Sez. 5, n. 14028 del 12/02/2021; Sez. 2, n. 26506 del 22/07/2020; Sez. 2, n. 12325 del 03/02/2016).
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4. La posizione assunta dalla Procura generale presso la Corte di Cassazione
Il Sostituto Procuratore generale depositava una memoria scritta nella quale osservava che, nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, per assolvere alla condizione posta a pena di inammissibilità dall’art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen., «non è necessario che la parte offesa abbia nominato un difensore di fiducia o abbia, in alternativa, eletto e/o dichiarato domicilio (sia presso il suo difensore che in altri luoghi)», ma «è sufficiente che la parte offesa abbia indicato un domicilio presso il quale notificare l’istanza, fermo l’onere di avvisare le parti in ipotesi di cambio di domicilio, non sussistendo, di conseguenza, alcun onere di ricerca a carico dell’indagato/imputato».
Ad avviso del Sostituto Procuratore generale, inoltre, «devono intendersi “persona offesa” anche gli eredi della vittima deceduta».
5. Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite, prima di entrare nel merito della questione, procedevano a delimitarla nei seguenti termini.
«Se, nei procedimenti aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona, la richiesta di revoca o sostituzione delle misure caute/ari di cui all’art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen. debba essere notificata, a cura della parte richiedente, alla persona offesa anche in mancanza di dichiarazione ed elezione di domicilio».
«Se, ai fini dell’obbligo della notificazione suddetta, sia richiesta o meno l’esistenza di un pregresso rapporto tra autore del reato e vittima o la sussistenza di un concreto pericolo di recidiva specificamente riferita a quest’ultima e se, quindi, in caso di reato di omicidio, per persone offese, cui deve essere effettuata la notifica, possano intendersi anche gli eredi della vittima».
Premesso ciò, gli Ermellini osservavano prima di tutto come l’esame dei motivi del ricorso fosse precluso dal rilievo preliminare e assorbente della sopravvenuta carenza di interesse del ricorrente a una decisione che valuti l’ammissibilità e la fondatezza della richiesta di modifica della sua posizione cautelare.
Il processo di merito, nel quale era stata pronunciata l’ordinanza impugnata, si era, infatti, definito con una sentenza della Corte di Cassazione, che, decidendo, tra gli altri, nei confronti del ricorrente, aveva rigettato il ricorso da lui proposto (come da comunicazione della Sezione Prima penale e da informativa del Dipartimento Amministrazione penitenziaria), rendendo esecutiva la sentenza di condanna deliberata dalla Corte di Assise di Appello di Catanzaro cui facevano riferimento il provvedimento impugnato e il ricorso.
Oltre a ciò, si faceva tra l’altro presente come, in quella occasione, le Sezioni Unite avessero enunciato al riguardo principi condivisi nel caso di specie che, in quanto tali, erano ribaditi pure nella sentenza qui in commento.
In particolare, si notava come in quell’arresto giurisprudenziale sia stato affermato che, nel sistema processuale penale, la nozione di interesse a impugnare, richiesto dall’art. 568, comma 4, cod. proc. pen. quale condizione dell’impugnazione e requisito soggettivo del relativo diritto, non può essere basata sul concetto di soccombenza – a differenza delle impugnazioni civili che presuppongono un processo di tipo contenzioso e, quindi, una lite intesa come conflitto di interessi contrapposti – ma va piuttosto individuata in una prospettiva utilitaristica, ossia nella finalità negativa, perseguita dal soggetto legittimato, di rimuovere una situazione di svantaggio processuale derivante da una decisione giudiziale, e in quella, positiva, del conseguimento di un’utilità, ossia di una decisione più vantaggiosa rispetto a quella della quale si è sollecitato il riesame e che risulti logicamente coerente con il sistema normativo (Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011, dep. 2012) e, pertanto, il criterio di misurazione dell’interesse a impugnare «è un criterio comparativo tra dati processuali concretamente individuabili: il provvedimento impugnato e quello che il giudice ad quem potrebbe emanare in accoglimento dell’impugnazione».
L’interesse deve essere, più nel dettaglio, connotato dai requisiti della concretezza e dell’attualità e sussistere, oltre che al momento della proposizione dell’impugnazione, anche in quello della sua decisione, perché questa possa potenzialmente avere un’effettiva incidenza di vantaggio sulla situazione giuridica devoluta alla verifica del giudice dell’impugnazione (Sez. U, n. 7 del 25/06/1997; Sez. U, n. 20 del 09/10/1996; Sez. U, n. 42 del 13/12/1995; Sez. U, n. 10782 del 27/09/1995) fermo restando che, sotto tale profilo, era stata presa in considerazione la categoria della “carenza di interesse sopraggiunta” individuandosi il suo fondamento giustificativo nella valutazione negativa della persistenza, al momento della decisione, di un interesse all’impugnazione, la cui attualità sia venuta meno a causa della mutata situazione di fatto o di diritto intervenuta medio tempore, assorbendo la finalità perseguita dall’impugnante, o perché la stessa abbia già trovato concreta attuazione, ovvero in quanto abbia perso ogni rilevanza per il superamento del punto controverso (Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011).
Detto questo, con specifico riferimento alle impugnazioni contro i provvedimenti de libertate, cui è ritenuta pacificamente applicabile la norma di carattere generale di cui all’art. 568, comma 4, cod. proc. pen., si evidenziava, oltre tutto, come sempre le Sezioni Unite avessero chiarito che, con il passaggio in giudicato della sentenza di merito che afferma la colpevolezza dell’imputato con condanna a pena detentiva suscettibile di esecuzione, viene meno ogni aspetto riguardante la custodia “cautelare“, con la conseguente strutturale impossibilità di provvedere ulteriormente su aspetti pertinenti alla “cautela personale“, dovendo l’interesse alla definizione dell’impugnazione cautelare persistere fino al momento della decisione (Sez. U, n. 31524 del 14/07/2004), restando però ferma la disciplina di raccordo, prevista, dall’art. 656 cod. proc. pen., per le sole misure coercitive custodiali – operandosi di diritto la caducazione immediata delle misure coercitive non custodiali (Sez. U, n. 18353 del 31/03/2011) – al fine di non creare soluzioni di continuità tra l’applicazione delle stesse e l’esecuzione della condanna e di rendere la restrizione insensibile alla dinamica ordinaria delle esigenze di cautela, a prescindere dall’emissione dell’ordine di carcerazione, e, comunque, riservata alla competenza del giudice dell’esecuzione o della sorveglianza, secondo i casi.
In altri termini, con il passaggio in giudicato della sentenza di merito, non vi è più spazio logico e sistematico per discutere della concreta applicazione ovvero della modifica delle misure cautelari, secondo le problematiche proprie di queste (gravità indiziaria, esigenze cautelari in concreto, adeguatezza e proporzionalità, legittimità) in quanto – aprendosi la fase esecutiva del processo – allo stato di custodia cautelare subentra l’espiazione della pena in forza del titolo detentivo definitivo, che assorbe la misura cautelare dato che «la complessiva disciplina delle misure cautelari personali appare indiscutibilmente improntata ad una funzione strumentale rispetto al processo di cognizione» (Sez. U, n. 18353 del 31/03/2011, e in motivazione; Sez. U, n. 20 del 09/10/1996).
Alla luce degli indicati principi, costituenti ius receptum nella giurisprudenza delle Sezioni semplici (tra le altre, Sez. 15, n. 10786 del 09/02/2018; Sez. 1, n. 33913 del 23/06/2015; Sez. 1, n. 42525 del 03/10/2014; Sez. 3, n. 46795 del 20/11/2008), trovandosi il ricorrente, a seguito dell’intervenuto passaggio in giudicato della sentenza di condanna, detenuto in espiazione della pena definitiva e non in stato di custodia cautelare suscettibile di autonoma valutazione, e difettando, per l’effetto, il suo interesse (attuale) – peraltro neppure specificamente e motivatamente rappresentato – a coltivare l’impugnazione cautelare proposta per sopravvenuta ragione in rito, il ricorso era pertanto dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 591, comma 1, lett. a), cod. proc. pen..
Pur tuttavia, ad avviso delle Sezioni Unite, la conclusione cui costoro erano pervenuti, pur di carattere decisivo per il ricorrente, non precludeva, a loro avviso, l’esame delle questioni di diritto rimesse, per il rilevato contrasto interpretativo, alla loro stessa valutazione.
Difatti, si faceva presente come già nel passato le Sezioni Unite avessero espressamente escluso che, nelle ipotesi in cui il ricorso sia dichiarato inammissibile, la Corte di Cassazione possa, nell’ambito del processo penale, enunciare il principio di diritto nell’interesse della legge (Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011), rilevando al contempo come tale affermazione muovesse dal rilievo che nel sistema processuale penale non fosse presente una disposizione simile a quella di cui all’art. 363, comma 3, cod. proc. civ., che, valorizzando la funzione nomofilattica del giudice di legittimità, «consente alla Corte di cassazione, pur quando dichiara inammissibile il ricorso, di enunciare il principio di diritto nell’interesse della legge, anche se tale pronuncia non è destinata a spiegare alcun effetto sul provvedimento del giudice di merito».
Si riteneva, quindi, che non fosse «concretamente praticabile l’estensione analogica di tale disciplina nell’ambito del sistema processuale penale, attraverso l’auto-attribuzione del relativo potere» e, in tal senso si erano espresse, sia pure implicitamente, anche altre decisioni che, a fronte della sopravvenuta inammissibilità del ricorso, si sono limitate al relativo rilievo, giudicato impeditivo ovvero assorbente rispetto all’esame della questione che aveva indotto alla rimessione del ricorso alle Sezioni Unite (tra le altre, Sez. U, n. 19046 del 29/03/2012, omissis; Sez. U, n. 31524 del 14/07/2004; Sez. U, n. 42 del 13/12/1995).
Al contrario, la dottrina, valorizzando il ‘carattere unitario della funzione di nomofilachia svolta dalla Corte di Cassazione e le comuni esigenze di regolazione e stabilizzazione dell’interpretazione giurisprudenziale, ha rimarcato la prospettabilità dell’estensione per via analogica dell’intervento di ufficio del giudice di legittimità nell’enunciazione del principio di diritto con il superamento delle differenziazioni tra modello civile e modello penale, non giustificabile con l’evocazione della portata maggiormente garantista che connota in materia penale l’obbligo di motivazione delle sentenze ovvero la stessa struttura del sistema delle impugnazioni.
Ad ogni modo, per le Sezioni Unite, l’ampiezza della loro sfera cognitiva, esercitabile anche di ufficio, prescindendo dall’iniziativa di parte, trova ora espresso riconoscimento nel nuovo disposto dell’art. 618, comma 1-ter, cod. proc. pen., introdotto dall’art. 1, comma 66, legge 23 giugno 2017, n. 103, secondo cui «il principio di diritto può essere enunciato dalle Sezioni Unite, anche di ufficio, quando il ricorso è dichiarato inammissibile per una causa sopravvenuta».
Invero, la collocazione della previsione nell’articolo 618 cod. proc pen., riferito per espressa indicazione nella rubrica alle «decisioni delle Sezioni Unite», mentre conferma che nel processo penale l’inammissibilità per causa sopravvenuta non è in sé preclusiva dell’enunciazione del principio di diritto, che in sede civile richiede l’apprezzamento della particolare importanza della questione (vedi rubrica), si connota per la volontà del legislatore, che esprime, di rafforzare, ricorrendone i presupposti, il ruolo delle Sezioni Unite.
Tale opzione, che si traduce nella facoltatività dell’enunciazione del principio di diritto attestata dalla locuzione impiegata («il principio di diritto può essere enunciato»), del resto, per la Corte di legittimità, è coerente con quanto previsto anche dall’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen., pure introdotto – in conformità a quanto dettato per il processo civile dall’art. 374, comma 3, cod. proc. civ. e in termini di obbligatorietà della rimessione (Sez. U, n. 36072 del 19/04/2018, omissis, Rv. 273549) – dall’indicato art. 1, comma 66, secondo cui «se una sezione della Corte ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, rimette a queste ultime, con ordinanza, la decisione del ricorso›>.
Ebbene, da tale premessa se ne faceva discendere la conclusione secondo cui l’inammissibilità del ricorso per causa sopravvenuta costituisce il presupposto, espresso nel vigente art. 618, comma 1 ter, cod. proc. pen. – a differenza del testo previgente dell’art. 618 cod. proc. pen. che non lo prevedeva -, dell’esercizio di ufficio da parte delle Sezioni Unite, come espressione del loro controllo nomofilattico, del potere discrezionale di enunciare il principio di diritto, che, restando indifferente rispetto al ricorso sub iudice, sia volto a superare il contrasto insorto nella giurisprudenza e a chiarire la corretta portata e lettura della normativa di riferimento rispetto a casi analoghi o simili e, in tale prospettiva, per il Supremo Consesso, si ravvisa come necessaria la soluzione dei quesiti giuridici ora sottoposti al vaglio delle Sezioni Unite, avuto riguardo ai diritti fondamentali implicati dalle vicende cautelari cui essi sono pertinenti, alle ragioni sottese ai segnalati orientamenti interpretativi contrapposti, e non componibili autonomamente, e alle congiunte esigenze di certezza del diritto e di regolazione e stabilizzazione della giurisprudenza su problematiche che involgono principi costituzionali e convenzionali e fonti normative interne e sovrarazionali.
Chiarito ciò, si evidenziava come le questioni devolute attenessero sostanzialmente all’ambito applicativo del vigente art. 299, comma 4-bis, secondo periodo, cod. proc. pen., aggiunto, unitamente al secondo periodo del precedente comma 3, dall’art. 2 d.l. 14 agosto 2013, n. 93, recante «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province», convertito (con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 199, sotto correlati profili inerenti alla delimitazione dell’obbligo di notifica alla persona offesa della richiesta di revoca ovvero di modifica in melius del regime cautelare avanzata dopo la chiusura delle indagini preliminari e, in particolare, alle caratteristiche della notifica, alle sue possibili modalità attuative, ai limiti e ai destinatari della previsione fermo restando che la loro disamina, per la Suprema Corte, richiede, presupponendola, una sintetica ricognizione del quadro normativo che veniva in rilievo nel caso di specie il quale era compiuto nel seguente modo: “Si deve, in primo luogo, annotare che l’art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen. (aggiunto dall’art. 14 d.lgs. 14 gennaio 1991, n. 12, recante «Disposizioni integrative e correttive della disciplina processuale penale e delle norme ad essa collegate») – norma secondo cui, se la richiesta di revoca o di sostituzione della misura con altra meno afflittiva o di sua applicazione con modalità meno gravose, avanzata dopo la chiusura delle indagini preliminari, non è presentata in udienza il giudice «ne dà comunicazione al pubblico ministero, il quale, nei due giorni successivi, formula le proprie richieste» – è stato oggetto di modifica legislativa attuatasi, con il suddetto decreto-legge, con l’aggiunta di un secondo periodo che ha introdotto il nuovo istituto della notifica obbligatoria dell’indicata richiesta, ove pertinente alle «misure previste dagli articoli 282-bis e 282-ter […] a cura della parte richiedente, al difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa a pena di inammissibilità». L’aggiunta di un secondo periodo di analogo contenuto ha riguardato anche il terzo comma dello stesso art. 299, che prevede la notifica della richiesta di revoca o di sostituzione delle indicate misure, non proposta in sede di interrogatorio di garanzia e presentata, a differenza di quella di cui al comma 4-bis, prima della chiusura delle indagini preliminari. Dette modifiche, previste dal comma 1, lett. b), punti 2 e 3, dell’art. 2, d.l. n. 93 del 2013, rubricato «Modifiche al codice di procedura penale e disposizioni concernenti i procedimenti penali per i delitti di cui all’articolo 572 del codice penale», seguivano nel testo normativo il punto 1, relativo all’inserimento, nell’art. 299 cod. proc. pen. e dopo il comma 2, del comma 2-bis, secondo cui «I provvedimenti di cui ai commi 1 e 2 relativi alle misure previste dagli articoli 282-bis e 282-ter devono essere immediatamente comunicati al difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa e ai servizi socioassistenziali del territorio». (…) Gli indicati incombenti, pertanto, nella prospettiva della decretazione di urgenza, si imponevano con specifico riferimento, nelle fasi procedimentale e processuale, alle misure cautelari dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis cod. proc. pen.) e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282-ter cod. proc. pen.), che trovano elettiva applicazione nei procedimenti per reati commessi nell’ambito dì relazioni familiari e affettive, in linea con le leggi che le hanno previste (rispettivamente, legge 5 aprile 2001, n. 154, recante «Misure contro la violenza nelle relazioni familiari», e d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, recante «Misure urgenti in tema di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché di atti persecutori», convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38). In sede di conversione è stato modificato il testo del decreto-legge, che, nell’intento di incrementare la repressione e la prevenzione dei reati commessi in danno di donne o con violenza di genere e di garantire maggiore ed effettiva tutela alle persone offese, ha apportato anche ulteriori modifiche di natura sostanziale e processuale a istituti codicistici. (…) Le modifiche rilevanti, per quanto attiene al predetto art. 299 cod. proc. pen., hanno riguardato, sostanzialmente, la notificazione dei provvedimenti di revoca o di sostituzione (e delle relative richieste) delle misure cautelari personali, ampliate rispetto all’iniziale circoscritta previsione, e i procedimenti nel cui ambito si richiedono, a pena di inammissibilità, gli innovativi adempimenti in dipendenza di emendamenti introdotti durante i lavori parlamentari sul disegno di legge n. 1540/C di conversione del decreto-legge. La prospettiva applicativa delle nuove previsioni, invero, era stata ritenuta, nella Commissione giustizia della Camera dei deputati, di ridotta portata in rapporto alle indicazioni della Direttiva 2012/29/UE recante «Norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato», che imponevano un più ampio riconoscimento del diritto della persona offesa alla comunicazione dei dati procedimentali rilevanti per i suoi interessi, sì da rendere necessario l’ampliamento delle misure cautelari di riferimento da estendere alle «misure previste dagli articoli […] 283, 284, 285 e 286», applicate nei «procedimenti di cui al comma 2-bis del presente articolo», ovvero ai «procedimenti aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona». Inoltre, a seguito di proposta emendativa„ approvata in data 1 ottobre 2013 e trasfusa poi nel testo definitivo (dopo il ritiro di precedenti proposte emendative volte a porre a carico della cancelleria l’obbligo della notificazione dell’istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare), si è modificata la previsione che detta notificazione dovesse essere effettuata a pena di inammissibilità, a cura della parte richiedente, «al difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa». Si è, infatti, previsto che la stessa debba essere effettuata «”presso” il difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa», e, in chiusura dell’ultimo periodo, «salvo che in quest’ultimo caso essa non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio»”.
Ebbene, concluso questo excursus normativo, i giudici di piazza Cavour ritenevano necessario, a questo punto della disamina, procedere alla ricostruzione del contesto in cui si colloca l’indicata previsione e che, a loro avviso, attingeva il tema più generale della posizione della persona offesa (ovvero vittima, secondo le ricorrenti indicazioni dei testi internazionali) all’interno del processo penale in rapporto alla normativa sovranazionale e a quella interna, che era svolto nella susseguente maniera: “Quanto alla prima, si deve procedere dal richiamo alla, già indicata, Direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, che, rivedendo e integrando i principi enunciati nella Decisione-quadro 2002/220GAI, ha impegnato, con maggiore efficacia operativa, gli Stati membri dell’Unione a realizzare «significativi progressi nel livello di tutela delie vittime in tutta l’Unione, in particolare nei procedimenti penali», assicurando alle stesse il diritto a ricevere informazioni dettagliate anche in relazione allo stato del procedimento, oltre a dettare, in genere, in loro favore «norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione». La Direttiva è stata attuata in Italia con il d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212. Essa si è posta quale strumento di unificazione legislativa per tutte le vittime, attribuendo solo posizione di particolare rilievo, ma non di esclusività, alle vittime di violenza di genere, sì da essere considerata come vero e proprio statuto delle vittime del reato e snodo per le politiche criminali, di natura sostanziale e processuale, delle legislazioni nazionali. Hanno avuto, invece, elettivo riferimento a specifiche categorie di vittime vulnerabili due rilevanti strumenti internazionali, e segnatamente la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuali, firmata a Lanzarote il 25 ottobre 2007, entrata in vigore il 1 luglio 2010 e ratificata in Italia con legge 1 ottobre 2012, n. 172, e la Convenzione del Consiglio di Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, sottoscritta a Istanbul 1’11 maggio 2011, entrata in vigore il 1 agosto 2014 e ratificata dall’Italia con legge 27 giugno 2013, n. 77. (…). Quanto alla normativa nazionale, il d.l. n. 93 del 2013 ha dettato disposizioni urgenti in materia di sicurezza e di contrasto della violenza di genere, sull’affermato presupposto che «il susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in danno di donne e il conseguente allarme sociale» rendevano necessarie – oltre a interventi urgenti volti a inasprire, per finalità dissuasive, il trattamento punitivo degli autori di tali fatti – «misure di prevenzione finalizzate alla anticipata tutela delle donne e di ogni vittima di violenza domestica», anche mediante la predisposizione di un piano di azione straordinario con interventi strutturati e condivisi, in ambito sociale, educativo, formativo e informativo. Il citato decreto-legge ha modificato il già indicato art. 299 cod. proc. pen., quanto alla revoca o sostituzione delle sole misure cautelari di cui agli artt. 282-bis e 282-ter, cod. proc. pen., e ha apportato, pure al fine del contrasto ai reati di violenza di genere e della protezione della persona da essi offesa, novità processuali riferite, tra l’altro, alle misure pre-cautelari e cautelari, agli avvisi della richiesta di archiviazione e di chiusura delle indagini preliminari, all’esame testimoniale, alla priorità di trattazione dei fascicoli e al patrocinio a spese dello Stato. Nel corso dell’iter parlamentare, invero, l’evocata eccessiva limitatezza dell’intervento riformatore in rapporto ai profili informativi dei dati procedimentali rilevanti per la persona offesa è sembrata incoerente rispetto alle indicazioni della suindicata Direttiva 2012/29/UE, pur non ancora entrata in vigore a livello comunitario né attuata con legge nell’ordinamento interno.
Nella prospettiva di riservare maggiore attenzione alle persone offese, nell’ambito della più ampia categoria dei reati commessi con violenza alla persona, si sono introdotte le già segnalate modifiche nel testo riformato dell’art. 299 cod. proc. pen. Tra le ulteriori modifiche, si è inserito analogo riferimento ai «delitti commessi con violenza alla persona» anche nel nuovo comma 3-bis dell’art. 408 cod. proc. pen., quanto all’avviso della richiesta di archiviazione, e si è integrato l’art. 101, comma 1, cod. proc. pen., aggiungendo, alla generale possibilità della persona offesa dal reato di nominare un difensore «per l’esercizio dei diritti e delle facoltà ad essa attribuiti», l’obbligo di informazione della persona offesa, gravante sul pubblico ministero e sulla polizia giudiziaria, di tale possibilità e di quella di accedere al patrocinio a spese dello Stato. Va, inoltre, richiamato, per la valenza dei suoi contenuti in relazione alle questioni rimesse, il d.lgs. n. 212 del 2015, che, come rilevato, ha attuato la Direttiva 2012/29/UE. In particolare, esso ha rafforzato gli strumenti informativi in favore, tra l’altro, delle persone offese dai delitti commessi con violenza alla persona. Dopo l’art. 90 è stato inserito l’art. 90-bis, che elenca [dalla lettera a) alla lettera p)] le informazioni da fornirsi alla persona offesa, in lingua a essa comprensibile, sin dal primo contatto con l’autorità procedente. È stato anche introdotto l’art. 90-ter, che prevede, nei procedimenti per delitti commessi con violenza alla persona, l’immediata comunicazione alla persona offesa, che ne faccia richiesta, dei provvedimenti di scarcerazione e di cessazione della misura di sicurezza detentiva, dell’evasione dell’imputato in stato di custodia cautelare o del condannato e della volontaria sottrazione dell’internato all’esecuzione della misura di sicurezza detentiva. Con l’art. 90-quater è stata pure definita la condizione di particolare vulnerabilità della persona offesa e sono stati enunciati gli indici da cui è desumibile, in vista dell’adozione delle pertinenti disposizioni processuali di protezione. Da ultimo, la legge 19 luglio 2019, n. 69, introducendo ulteriori modifiche al codice penale e al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, ha aggiunto nell’art. 90-ter cod. proc. pen. il comma 1-bis. Questa disposizione stabilisce che le comunicazioni previste al primo comma (da farsi alla persona offesa su richiesta per delitti commessi con violenza alla persona) «sono sempre effettuate alla persona offesa e al suo difensore, ove nominato», se si procede per specificati delitti a sfondo sessuale o riconducibili al genus della violenza domestica e di genere. La medesima legge – nella ribadita ottica di rendere effettiva, sotto il profilo informativo, la tutela della persona offesa nei procedimenti aventi a oggetto delitti commessi con violenza alla persona – ha anche novellato il comma 2-bis dell’art. 299 cod. proc. pen., prevedendo, in aggiunta ai servizi socio-assistenziali, quali destinatari dell’immediata necessaria comunicazione dei provvedimenti di revoca o di modifica delle misure cautelari, in via prioritaria la persona offesa e, solo ove nominato, il suo difensore, laddove il testo originario prevedeva la loro comunicazione «al difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa»”.
Ciò posto, conclusa anche questa analisi normativa, le Sezioni Unite iniziavano ad affrontare i quesiti proposti, incominciando dal primo.
Si notava a tal proposito innanzitutto che sulla prima questione si contrapponevano, come segnalato con l’ordinanza di rimessione, distinti orientamenti della giurisprudenza di legittimità.
In particolare, un primo orientamento “estensivo” procede da una prospettiva di ampia tutela delle facoltà della vittima del reato in rimarcata coerenza con la Direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, che persegue la finalità di «garantire che le vittime di reato ricevano informazione, assistenza e protezione adeguate e possano partecipare ai procedimenti penali» e prevede che «Gli Stati membri assicurano che le vittime siano riconosciute e trattate in maniera rispettosa, sensibile, personalizzata, professionale e non discriminatoria, in tutti i contatti con servizi di assistenza alle vittime o di giustizia riparativa o con un’autorità competente operante nell’ambito di un procedimento penale […]» (art. 1).
Inoltre, l’orientamento in esame valorizza i principi sottesi alla Convenzione di Istanbul (sulla prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e domestica), giudicando le modifiche normative, intervenute per effetto del d.l. n. 93 del 2013 e della relativa legge di conversione n. 119 del 2013, specificamente innovative in punto di partecipazione della persona offesa al procedimento
incidentale, alla stessa riconoscendo il diritto a una interlocuzione cartolare sulla permanenza o meno dei presupposti della misura cautelare, prima della decisione del giudice sull’istanza volta alla sua modifica.
Secondo questo orientamento, inoltre, l’art. 299, comma 3, cod. proc. pen. (al pari del successivo comma 4-bis), individua nella sua prima parte l’obbligo, a pena di inammissibilità, della notificazione presso il difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa della richiesta de libertate a cura della parte richiedente fermo restando che esso, contestualmente, disciplina, senza mettere in discussione il previsto obbligo, «modalità alternative della notifica», a seconda che la persona offesa abbia nominato un difensore di fiducia (nel qual caso si considera domiciliata presso di lui ex art. 33 disp. att. cod. proc. pen.), o non lo abbia nominato (nel qual caso la notifica deve essere eseguita personalmente nel domicilio evincibile ex actis ai sensi dell’art. 154, comma 1, cod. proc. pen.) mentre, nella diversa ipotesi in cui la persona offesa abbia eletto o dichiarato domicilio, la notifica, invece, deve sempre essere eseguita nel domicilio dichiarato o eletto, anche se sia già intervenuta la nomina di un difensore (Sez. 2, n. 12377 del 10/02/2021; Sez. 3, n. 31191 del 21/07/2020; Sez. 2, n. 4877 del 28/10/2020; Sez. 6, n. 8691 del 14/11/2017; Sez. 2, n. 19704 del 01/04/2016).
Orbene, in relazione a tale approdo ermeneutico, gli Ermellini rilevavano altresì come le citate decisioni argomentino nel senso che tale esito è imposto da convergenti ragioni di natura letterale e sistematica, coerenti con i parametri convenzionali, e tali da rendere soccombenti soluzioni interpretative diverse.
Sul piano letterale – si osserva – l’inciso, contenuto nell’ultima parte della norma («salvo che in quest’ultimo caso essa non abbia provveduto ad eleggere o dichiarare un domicilio»), si pone «quale eccezione alla regola secondo cui la persona offesa che ha nominato il difensore è domiciliata presso di lui, ritenendosi in tale caso prevalente la notifica presso il domicilio eletto o dichiarato, senza che
possa ricavarsi, dall’omessa indicazione del domicilio o dalla mancata nomina del difensore, la decadenza della parte offesa dal diritto di ricevere la notifica dell’istanza e a prendere parte alla vicenda cautelare» (Sez. 2, n. 19704 del 01/04/2016) atteso che esso si riferisce, solo al luogo, e non già all’obbligo, della notifica, cui corrisponde il «diritto dell’offeso alla informazione sulla possibile modifica dello status libertatis del suo offensore», deponendo in questa direzione in modo inequivoco anche l’esegesi sistematica, ovvero l’interesse specifico tutelato dalla norma incriminatrice (Sez. 2, n. 12377 del 10/02/2021).
Secondo questo orientamento, per di più, sul piano sistematico rileva anche l’esame dell’intero art. 299 cod. proc. pen., dovendo leggersi i suoi commi 3 e 4-bis in relazione al precedente comma 2-bis, che prevede la comunicazione immediata dei provvedimenti relativi alle misure previste dagli artt. 282-bis, 282-ter, 283, 284, 285 e 286 cod. proc. pen., a cura della polizia giudiziaria, «ai servizi socio-assistenziali e alla persona offesa e, ove nominato, al suo difensore», senza indicare modalità di comunicazioni.
«Risulterebbe dunque affetta da strabismo divergente e, persino, “canzonatoria”» – si aggiunge – «una immediata comunicazione alla persona offesa o al suo difensore del provvedimento di revoca o modifica della misura cautelare in corso nei confronti del suo offensore, senza la previa e più efficace notifica dell’istanza volta alla revoca o alla sostituzione», laddove è solo la notifica dell’istanza volta alla modifica o alla revoca della misura cautelare che allerta la vittima e la rende “soggetto partecipato” del procedimento cautelare (Sez. 2, n. 12377 del 10/02/2021).
La considerazione congiunta del criterio letterale e del criterio sistematico – che supporta l’affermazione sostanziale che l’istante non è esonerato dall’obbligo di informazione in caso di mancata elezione o dichiarazione di domicilio della persona offesa, non espressiva di per sé di disinteresse della stessa alle vicende pertinenti al suo regime cautelare – si connota, inoltre, per la coerenza della disposizione di cui all’art. 299, commi 3 e 4-bis, cod. proc. pen. con le «sollecitazioni provenienti dall’Unione europea volte alla creazione di un vero e proprio statuto della vittima del reato» e, in particolare, con le «norme minime», contenute nella Direttiva 2012/29/UE, volte ad «assicurare alla vittima del reato adeguati livelli di tutela e assistenza, sia nella fase di accesso e di partecipazione al processo, sia al di fuori di esso» (Sez. 2, n. 19704 del 01/04/2016) fermo restando che, a conforto ulteriore dell’analisi, la Sez. 3, nella pronuncia n. 31191 del 21/07/2020, ha annotato che l’indicata Direttiva neppure prevede alcun onere per la vittima di nominare un difensore o di dichiarare o eleggere, domicilio per le notifiche, riconoscendo alla stessa semplicemente un diritto a essere informata, sì che «le prerogative di informazione riconosciute a coloro che hanno subito reati connotati da violenza personale, allo scopo di assicurarne una tutela ed assistenza effettiva, devono avere caratteristiche di completezza ed estendersi fino ai dettagli, come espressamente desumibile dalla normativa UE di riferimento e dalle norme interne che ne hanno dato concreta attuazione». Pretendere, invece, dalla vittima «un comportamento positivo (quale la nomina del difensore, sin dalle indagini, o la dichiarazione o l’elezione di domicilio) per i diritti d’informazione è fuori dal sistema. Completamente fuori ratio, e per di più si potrebbe sottoporre la vittima ad un concreto pericolo altrimenti evitabile (con l’opportuna notifica dell’istanza)».
Nell’ambito di questo orientamento si sostiene oltre tutto che anche l’opzione ermeneutica la quale, procedendo dal criterio della “esigibilità” dell’adempimento dell’obbligo a carico dell’istante, ritiene necessaria la compiuta ed effettiva identificabilità della persona offesa sulla base dei dati ricavabili dagli atti presenti nel fascicolo processuale, a prescindere dalla nomina di un difensore di fiducia ovvero dalla dichiarazione o elezione di domicilio, e in tal senso si è espressa la Sez. 2, nella decisione n. 19704 la quale ha puntualizzato che la rappresentata individuazione dei destinatari della notifica mentre consente di superare le opposte preoccupazioni circa l’eccessiva onerosità dell’incombente rispetto ai diritti di libertà e di difesa dell’indagato/imputato, in relazione soprattutto a procedimenti caratterizzati da una pluralità di persone offese, garantisce il positivo soddisfacimento di detti diritti e delle contrapposte esigenze di tutela della vittima di reato commesso con violenza alla persona.
Infine, veniva fatto presente come abbiano concordato su detta analisi anche Sez. 2, n. 25135 del 25/05/2016, e Sez. 2, n. 36167 del 03/05/2017, le quali hanno correlato l’incolpevolezza, ovvero la scusabilità, dell’omessa notifica alla persona offesa all’impossibilità di adempimento dell’obbligo informativo per non essere la stessa né identificata né identificabile, in esito alla verifica demandata al giudicante, che dovrà, in dette ipotesi, valutare l’istanza (senza avviso alla persona offesa) nel merito, e non dichiararla inammissibile, così come, nello stesso senso, e con riferimento a fattispecie specifiche, si sono espresse Sez. 2, n. 7186 del 28/01/2021; Sez. 5, n. 4485 del 08/01/2020; Sez. 6, n. 27601 del 22/03/2019; Sez. 5, n. 43103 del 12/06/2017, e più recentemente Sez. 2, n. 12377 del 10/02/2021, che, riaffermato il richiamo al criterio della diligenza esigibile quale limite ai fini della notifica, ha sottolineato che tale limite è segnato dalla «pratica notiziabilità della persona offesa», ovvero, laddove essa non abbia nominato un difensore oppure dichiarato o eletto domicilio, dalla «evidenza dei dati identificativi del domicilio […] dagli atti del fascicolo».
L’opposto orientamento, che esclude – nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona – l’inammissibilità dell’istanza di revoca o di modifica della misura cautelare non notificata alla persona offesa che non abbia provveduto a nominare un difensore o ad effettuare dichiarazione o elezione di domicilio, risulta consapevolmente espresso da Sez. 1, n. 5552 del 17/01/2020.
In particolare, secondo siffatto approdo ermeneutico, muovendo dall’interpretazione letterale della norma di riferimento, si evidenzia l’assoluta chiarezza dell’inciso «salvo che […]», che precede il riferimento all’ipotesi in cui la persona offesa, in mancanza d difensore, «non abbia provveduto a dichiarare o a eleggere domicilio», annotando che esso «non può essere inteso, a meno di non stravolgere la lingua italiana, nel senso che serve a distinguere le modalità di notifica dell’istanza», rilevando al riguardo, nell’analisi svolta, il disposto dell’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, alla cui stregua, «nell’applicare la legge, non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore», e il significato e il valore attribuiti a detta norma dalla concorde dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, «quando la lettera della legge è esplicita e quando la intenzione del legislatore è fatta palese e inequivocabile attraverso i lavori parlamentari durante i quali il testo della legge sia stato ampiamente discusso, ogni diversa interpretazione, se può servire a rilevare inconvenienti o lacune, non vale certamente ad immutare il senso della legge stessa in guisa da farle dire cosa profondamente diversa da quanto ha voluto dettare (art. 12 disposizioni sulla legge in generale), sovrapponendosi alla volontà del costituente e del legislatore ordinario, con grave pregiudizio della certezza del diritto e delle prerogative parlamentari» (Sez. 6, n. 126 del 26/01/1967), tenuto conto altresì del fatto che il dato testuale trova coerente riscontro nelle significative indicazioni traibili dall’evoluzione dell’intervento riformatore, esplicitate nel procedimento legislativo che ha portato all’introduzione, in sede di conversione del decreto legge, dell’indicato inciso «salvo che in quest’ultimo caso essa non abbia provveduto a dichiarare o a eleggere domicilio» fermo restando che tale aggiunta non può essere intesa come volta solo a prescrivere la prevalenza della notificazione nel luogo eventualmente eletto sulla notifica diretta, poiché l’eventuale elezione di domicilio da parte della persona offesa sarebbe stata destinata, comunque, anche nell’ipotesi prevista nella versione originaria del decreto-legge, a prevalere sulle altre forme di notificazione.
La tesi affermata era poi riscontrata da ragioni di ordine logico e sistematico.
Si evidenzia, in particolare, che l’onere dell’avviso condiziona l’istanza de libertate e quindi – in concreto – l’esercizio del diritto di difesa da parte dell’indagato o dell’imputato, oltre al loro interesse a non vedere ingiustificatamente negato o sospeso l’esame delle richieste in una materia così delicata quale quella della libertà personale, con la conseguente necessità di un «contemperamento di due diversi ordini di beni tutelati e costituzionalmente rilevanti», e specificamente dei diritti di libertà e difesa delle persone indagate o imputate e dei diritti di tutela della vita privata, dell’incolumità personale e dell’esercizio delle proprie facoltà da parte delle persone offese mentre il punto di equilibrio è ravvisato, nella ripercorsa decisione, nel compimento, da parte della persona offesa dal reato, degli adempimenti previsti dall’art. 299 cod. proc. pen., attraverso i quali (nomina di un difensore ovvero dichiarazione o elezione di domicilio) la stessa mostra «interesse a conoscere le vicende processuali di colui che ha esercitato, e può continuare a esercitare, violenza nei suoi confronti e, al contempo, mette l’indagato o l’imputato nelle condizioni di effettuare celermente le notifiche necessarie a consentire la definizione del procedimento incidentale de libertate che lo riguarda».
In tal senso l’aggiunta dell’inciso [«salvo che in quest’ultimo caso essa (la parte offesa) non abbia provveduto a dichiarare o a eleggere domicilio»] sarebbe conseguita alle perplessità, rappresentate da parte della dottrina, in ordine all’eccessiva onerosità dell’adempimento rispetto ai diritti dell’imputato, onerato della necessità di reperire il domicilio della persona offesa che non lo avesse eletto o dichiarato.
Detto percorso interpretativo, inoltre, veniva ripreso da Sez. 1, n. 1460 del 24/11/2020, che, nel dar conto delle soluzioni non univoche date dalla giurisprudenza di legittimità alla questione di diritto, lo ribadiva in fattispecie analoga, evocando a sua volta la confluenza nella medesima direzione ermeneutica della lettera della legge, della volontà del legislatore espressa dai lavori preparatori e di ragioni di ordine logico e sistematico, rilevandosi al contempo che in questo orientamento si collocano anche più recenti pronunce, e, in particolare, due conformi sentenze della Sezione Quinta penale (Sez. 5, n. 14028 del 12/02/2021, e n. 14029 del 12/02/2021), che hanno affermato, previa ampia analisi della locuzione «delitti commessi con violenza alla persona», che onere informativo posto a carico dell’indagato deve essere ritenuto operante solo laddove la persona offesa abbia nominato un difensore di fiducia o abbia dichiarato o eletto domicilio nell’ambito del procedimento.
Si sottolinea, inoltre, che, in tale prospettiva, assume rilievo la manifestazione, sottesa agli indicati adempimenti, da parte della persona offesa del «suo concreto interesse per le sorti del procedimento che giustifichi l’imposizione degli oneri stessi» e che, sotto concorrente profilo, l’indicata limitazione dell’onere informativo, correlato al ridetto interesse, consente di escludere che la condivisa «indiscriminata subordinazione della ammissibilità dell’istanza cautelare al previo adempimento dell’onere informativo in favore della persona offesa in relazione a tutti i reati caratterizzati da violenza alla persona possa tradursi in una irrazionale ed ingiustificata compressione del diritto di difesa anche in quei casi in cui, come nella resistenza a pubblico ufficiale, non vi è alcun pericolo che l’autore del reato torni ad aggredire, fisicamente o moralmente, la persona».
Si annota, infine, che, già prima che il descritto contrasto interpretativo si delineasse espressamente, Sez. 2, n. 12325 del 03/02/2016, ha osservato, in linea con la rilevata necessaria manifestazione da parte dell’offeso del suo interesse all’esercizio del diritto alla «partecipazione al procedimento incidentale cautelare (attraverso l’intervento nel contraddittorio che precede l’emissione del provvedimento sulla cautela)», che tale interesse si esprime attraverso la nomina di un difensore o l’elezione di domicilio, «incombenti entrambi che assicurano la speditezza delle notifiche ed il contenimento dei tempi di emissione del provvedimento sulla cautela».
Essendo, invero, l’offeso «soggetto processuale la cui partecipazione non condiziona la progressione processuale», il suo diritto di partecipazione – si puntualizza – dipende dalla volontaria attivazione da parte sua delle condizioni del suo esercizio, consistenti, segnatamente, nella fase procedimentale, nella nomina del difensore o nell’elezione di domicilio e, nella fase processuale, nella partecipazione alle udienze, anche senza la costituzione di parte civile, con la conseguenza che, in assenza di una manifestazione di volontà partecipativa, «l’offeso decade dal diritto alla notifica dell’istanza di revoca, fermo il suo diritto a conoscere l’esito della eventuale revoca o sostituzione della misura previsto dall’art. 299, comma 2-bis, cod. proc. pen., ed ora anche dall’art. 90-ter cod. proc. pen., introdotto dal d.lgs. 212 del 2016».
Ebbene, le Sezioni Unite ritenevano di dovere aderire a questo secondo orientamento nomofilattico, pur con alcune integrazioni e precisazioni.
In particolare, si faceva prima di tutto presente che il punto di partenza dell’analisi consisteva nell’apprezzamento della formulazione testuale dell’art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen. – nel testo vigente a seguito della legge n. 199 del 2013, che ha convertito, con modificazioni, il d.l. n. 93 del 2013 – e segnatamente dell’inciso («salvo che in quest’ultimo caso essa non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio») contenuto nell’ultima parte del secondo periodo della norma, così, per l’intero, formulato: «La richiesta di revoca o di sostituzione delle misure previste dagli articoli 282-bis, 282-ter, 283, 284, 285 e 286, applicate nei procedimenti di cui al comma 2-bis del presente articolo, deve essere contestualmente notificata, a cura della parte richiedente, ed a pena di inammissibilità, presso il difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa, salvo che in quest’ultimo caso essa non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio».
Il dibattito interpretativo, conseguito alla presenza dell’indicato inciso, si è poi sviluppato, oltre che nella giurisprudenza di legittimità (e prima ancora in quella di merito), anche nella dottrina.
Si è, in particolare, segnalato – evocando studi linguistici anche dedicati alla traduzione dei contratti internazionali e dei testi normativi dell’Unione europea e procedendo dalla valenza del significato linguistico e dall’importanza nella linguistica testuale della classe dei “connettivi” (comprensiva delle congiunzioni coordinanti e subordinanti e delle espressioni avverbiali o congiuntive) – che la costruzione semantica fondata sull’espressione “salvo che” potrebbe ricondursi alla tradizione di tecnica legislativa, che, sulla base di regole riconducenti all’ablativo assoluto latino, le riconosce un valore eccettuativo o limitativo corrispondente a “tranne, eccetto che“, e quindi una funzione delimitativa /condizionante, rispetto a individuate situazioni, della portata della previsione principale, così come si è, allo stesso tempo, anche rappresentato che l’indicata espressione potrebbe essere intesa con valore condizionale, corrispondente all’espressione “a condizione che“, e con funzione incidente, rispetto all’avvenimento in essa introdotto, sulla produzione degli effetti tipici della disposizione normativa.
Ebbene, trasponendo tali rilievi nella fattispecie, si rileva come la detta ambiguità del connettivo “salvo che“, per il suo possibile diverso valore eccettuativo ovvero condizionale, sia suscettibile di dar luogo a una lettura discordante, se non opposta, dell’analogo termine utilizzato nella predetta norma, rendendo ragione della variabilità delle ipotesi interpretative formulabili e dell’insufficienza del testo della norma per fondare la condivisione di opzioni interpretative, come quelle espresse dagli orientamenti in contrasto, che valorizzino l’uno o l’altro significato.
A loro volta le Sezioni Unite, che sotto diversi aspetti si sono occupate del tema dell’interpretazione della legge, hanno sottolineato che l’interpretazione letterale rappresenta «il canone ermeneutico prioritario per l’interprete» e hanno puntualizzato che «l’ulteriore canone dato dall’interpretazione logica e sistematica soccorre e integra il significato proprio delle parole, arricchendole della ratio della norma e del suo coordinamento nel sistema nel quale va ad inserirsi», senza potere, tuttavia, servire per «andare oltre quello letterale quando la disposizione idonea a decidere la controversia è chiara e precisa» (Sez. U, n. 46688 del 29/09/2016) così come, anche la Corte costituzionale, investita di questioni di legittimità costituzionale coinvolgenti profili interpretativi delle norme denunciate, ha affermato che «la lettera della norma impugnata, il cui significato non può essere valicato neppure per mezzo dell’interpretazione costituzionalmente conforme (Corte cost., sent. n. 219 del 2008), non consente in via interpretativa di conseguire l’effetto che solo una pronuncia di illegittimità costituzionale può produrre» (Corte cost., sent. n. 110 del 2012) mentre in un’altra pronuncia ha ribadito la rilevanza centrale, rispetto alla materia penale incidente sui diritti fondamentali dell’individuo, e segnatamente sulla libertà personale, della riserva di legge nell’accezione recepita dall’art. 25, secondo comma, Cost. (Corte cost., sent. n. 230 del 2012).
L’esame delle connotazioni testuali della norma» (Sez. U, n. 3464 del 30/11/2017), che, quindi, rappresentano l’oggetto prioritario dell’attività interpretativa e ne segnano il limite “esterno“, indicato, in ambito civile, come il limite di «tolleranza ed elasticità del significante testuale» (Sez. U civ., n. 15144 del 11/07/2011; Sez. U civ., n. 27341 del 23/12/2014), da individuarsi in termini rigorosi nella materia penale, per la Cassazione, non esonera, tuttavia, il giudice dalla ricerca dei possibili e coerenti significati attribuibili al testo della disposizione, la cui possibile pluralità è «desumibile, ad esempio, dall’intrinseca polisemia dello stesso dato testuale, così come dalla sua lettura nel contesto delineato dal sistema normativo in cui si colloca e, prima di tutto, dalla disciplina legale dell’istituto di cui la norma è parte» (Sez. U, n. 409E6 del 19/07/2018).
Del resto, anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha rimarcato, in recenti pronunce concernenti l’ordinamento italiano, che, in ragione del carattere generale delle leggi, il loro testo non può presentare una precisione assoluta e deve servirsi di formule più o meno vaghe, la cui applicazione dipende dalla pratica, con la conseguenza che «in qualsiasi ordinamento giuridico, per quanto chiaro possa essere il testo di una disposizione di legge, anche in materia penale, esiste inevitabilmente un elemento di interpretazione giudiziaria», essendo, del resto, «solidamente stabilito nella tradizione giuridica degli Stati parte della Convenzione che la giurisprudenza […] contribuisce necessariamente all’evoluzione progressiva del diritto penale» (Corte EDU 08/12/2009, Previti c. Italia; Corte EDU 17/09/2009, Scoppola c. Italia).
Né all’interpretazione della legge è estraneo l’esame delle connotazioni testuali della norma alla luce dell’intento del legislatore quale emerge dai lavori preparatori (Sez. U, n. 3464 del 30/11/2017).
In tal senso le Sezioni Unite sono intervenute da tempo affermando che «il pensiero espresso dagli artefici della legge nella fase del travaglio legislativo può e deve essere tenuto presente dall’interprete, purché, peraltro, sussista un duplice presupposto: 1) – che la dizione della norma non implichi un significato già di per sé chiaro ed univoco, nel quale caso ogni eventuale diversità cli intenzione deve
cedere di fronte alla manifestazione di volontà risultante dalla formula concretata; 2) – che il pensiero espresso dai parlamentari si riferisca proprio al contenuto del disposto che richieda più penetranti mezzi interpretativi a causa del suo oscuro dettato» (Sez. U, n. 16 del 10/12/1957).
In questa prospettiva assume, quindi, peculiare rilievo, ai fini della ricostruzione dei contenuti dell’art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen., l’esame delle connotazioni testuali della sua ultima parte avendo riguardo alle indicazioni emergenti dai lavori che hanno connotato il percorso parlamentare di conversione del d.l. n. 93 del 2013, definito, per quanto qui rileva, con l’innovativa introduzione, rispetto al testo del decreto, di detta parte dal momento che l’indicata conversione ha inciso sul testo del d.l. n. 93 del 2013 e, segnatamente, sulle modifiche che detto decreto ha apportato all’art. 299, comma 4-bis (e analogamente al precedente comma 3), cod. proc. pen., consistite, tra l’altro, nell’aggiunta di un secondo periodo, attinente all’adempimento – del quale è onerata, a pena di inammissibilità, la parte che richiede la revoca o la sostituzione della misura cautelare – rappresentato dalla notifica della stessa richiesta «[…] presso il difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa a pena di inammissibilità» fermo restando che a detta previsione «si è ulteriormente aggiunto, a chiusura del periodo, l’inciso, oggetto di disamina, «salvo che in quest’ultimo caso essa non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio».
Nel dar conto della proposta emendativa 2.33, fatta, nella pendenza dell’esame del disegno di legge presentato il 16 agosto 2013, in Commissione giustizia della Camera dei deputati (pubblicata nel Bollettino delle Giunte e Commissioni del 25 settembre 2013), riformulata con la sostituzione delle parole «al difensore» di quelle «presso il difensore» e approvata in data 1 ottobre 2013, il relatore ha sottolineato che, attraverso i previsti obblighi di comunicazione alla persona offesa (o al difensore) della richiesta di modifica o di sostituzione delle misure cautelari e coercitive, riguardanti tutti i delitti commessi con violenza alla persona, «che sono un novum sistematico all’interno del nostro codice di
procedura penale», e in attesa di una riforma più organica che valorizzi l’offeso in fase investigativa, in linea con la Direttiva 2012 /29 / UE, si è «cercato di realizzare […] l’inizio del riconoscimento di un diritto di partecipazione consapevole al procedimento penale dell’offeso», consentendo allo stesso «non solo di essere a conoscenza delle vicende cautelari che attengono all’autore delle violenze, ma di poter interloquire mediante memorie», tenuto conto altresì del fatto che, nel Dossier di documentazione della Camera dei deputati XVII Legislatura, predisposto dal Servizio Studi della Camera (D13093A – 2 ottobre 2013), è descritto l’intervento delle Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia, nel corso dell’esame in sede referente del progetto della legge di conversione, anche sui profili del convertendo decreto-legge pertinenti alla disposta integrazione dei commi 3 e 4-bis dell’art. 299 cod. proc. pen. in punto di obbligo di notifica a pena di inammissibilità, per il richiedente, della domanda all’autorità giudiziaria di revoca o sostituzione delle misure coercitive avanzata sia nel corso delle indagini preliminari (comma 3) che dopo la loro chiusura (comma 4-bis) fermo restando che, sempre nello stesso Dossier, è, altresì, rappresentato il contenuto dei disposti emendamenti secondo cui la notifica deve essere effettuata alla persona offesa, eventualmente presso il suo difensore, e non direttamente al difensore stesso, come previsto dal decreto-legge, e la notificazione alla persona offesa, quando la stessa non abbia indicato il difensore, non è dovuta, se la stessa non ha neanche provveduto a dichiarare o eleggere domicilio.
Ebbene, se l’indicato emendamento, unitamente agli altri approvati, risulta trasfuso nel testo definitivo della, già citata, legge 15 ottobre 2013, n. 119, pubblicata sulla G.U. in pari data ed entrata in vigore il 30 ottobre 2013, gli univoci dati, traibili da specifici passaggi dei lavori preparatori della legge di conversione e dal confronto tra le previsioni normative di detta legge e quelle del decreto-legge che la stessa ha convertito con modificazioni, esprimono in termini netti l’intenzione del legislatore e la specifica portata dell’intervento riformatore.
La legge n. 119 del 2013, invero, ha proceduto alla conversione del decreto-legge, seguendo più ampi parametri di riferimento nell’affermata e ribadita prospettiva di conferire coerenza all’intervento riformatore, attuato in sede di decretazione di urgenza, con le indicazioni della Direttiva 2012/29/UE, che ha istituito norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e stabilito, tra l’altro, che «gli Stati membri garantiscono» alla vittima (di reati commessi con violenza alla persona) specifiche informazioni circa le vicende cautelari attinenti all’autore del reato.
In tal senso, nella relazione in Commissione giustizia della Camera dei deputati, è stato evidenziato che il previsto ampliamento degli obblighi di comunicazione, «alla persona offesa, alla vittima, al suo difensore e ai servizi sociali nel caso di adozione, della richiesta di modifica e sostituzione delle misure cautelari e coercitive, che riguardano […] tutti i delitti commessi con violenza alla persona», consente alla persona offesa non solo la conoscenza delle vicende cautelari che attengono all’autore delle violenze, ma anche le interlocuzioni mediante memorie, e instaura, quale unicum sistematico nel sistema codicistico, l’inizio del riconoscimento di «un diritto di partecipazione consapevole della vittima al procedimento penale» riguardante l’autore del reato.
Il richiamato Dossier di documentazione, riportando le precisazioni date dalle Commissioni riunite su profili pertinenti alle modifiche proposte in sede di conversione del decreto-legge, dal canto suo, sottolinea che l’alternativa della notifica alla persona offesa della richiesta di revoca o modifica delle misure cautelari considerate presso il difensore è solo quella presso il domicilio da essa dichiarato ed eletto.
La correlazione a dette affermazioni dell’emendamento 2.33, poi approvato, attinente al tema in esame, a sua volta, assume rilievo sotto concordanti profili visto che la riforma de qua si è mossa secondo una linea direttiva volta a un rafforzamento del ruolo della persona offesa nel processo penale, sì da essere ritenuta in dottrina espressione di un «nuovo umanesimo del diritto penale» la riconosciuta valenza, accanto al perseguimento dell’interesse collettivo alla punizione dell’autore del reato con l’esercizio dell’azione punitiva, della tutela multilivello degli interessi personali della persona offesa, non più limitati all’individuazione e alla condanna del proprio offensore, ma estesi anche alla garanzia della protezione dei suoi diritti nel processo ovvero nel subprocedimento cautelare e, in questo contesto, e considerando il particolare meccanismo previsto – per la revoca o la modifica, nei procedimenti relativi a reati commessi con violenza alla persona, delle misure cautelari in esecuzione – a carico del richiedente, tenuto in via preventiva alla “informazione” della persona offesa, pena l’inammissibilità dell’istanza, emerge chiaramente, per il Supremo Consesso, sotto un primo profilo, la delineazione di un ruolo attivo, e non più solo passivo, della persona offesa, titolare del detto diritto di informazione, funzionale all’esercizio del diritto partecipativo per offrire, mediante eventuale interlocuzione, nella procedura de libertate, elementi utili e pertinenti al profilo delle esigenze cautelari.
Il rinnovato ruolo delle persone offese e il loro «diritto di partecipazione consapevole al procedimento penale» si pongono, inoltre, sotto un secondo profilo, quale premessa dell’approvato emendamento che attribuisce il diritto a ricevere, nella fase cautelare, la notifica dell’istanza alla persona offesa che abbia nominato un difensore ovvero, in caso negativo, abbia eletto o dichiarato domicilio, compiendo, per l’effetto, adempimenti positivamente rappresentativi della volontà ovvero dell’interesse di essere parte consapevole del procedimento penale e delle sue parentesi cautelari.
L’emendata limitazione dei destinatari della notifica, rispetto alle originarie indicazioni del decreto-legge (il difensore della persona offesa o, in sua mancanza, la persona offesa), traduce, infine, all’evidenza, un’esigenza, segnalata anche in dottrina, di limitazione, nella peculiare fase cautelare, dell’ampiezza dei destinatari della prescritta notifica dell’istanza, che, correlata agli adempimenti demandati alla persona offesa, esprime, sotto ulteriore profilo, la coerenza dell’emendato intervento alle finalità perseguite dal legislatore della riforma.
La disamina delle emergenze dei lavori parlamentari, che hanno consegnato il testo definitivo della legge n. 119 del 2013 e, con esso, dell’art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen., consente, quindi, per il Supremo Consesso, una lettura delle connotazioni testuali dell’ultima parte di detto comma che, non prescindendo dal dato testuale che limita l’attività interpretativa, conduce all’attribuzione di un significato al testo della disposizione coerente con «la intenzione del legislatore» nei termini delineati, come statuito dall’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale poiché l’inciso «salvo che in quest’ultimo caso essa non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio», contenuto nell’ultima parte del secondo periodo dell’art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen., si correla all’ipotesi in cui la persona offesa, già indicata nella stessa disposizione come destinataria della notifica presso il difensore, non abbia provveduto a tale nomina, fermo restando che, alla stessa, titolare di diritti informativi, partecipativi e interlocutori, si demanda, come precisato dai lavori preparatori, un atto formale e specifico alternativo, ugualmente atto a tradurne la volontà di essere parte del procedimento, rappresentato dalla dichiarazione o dall’elezione di domicilio, la cui natura di atto personale a forma vincolata, da compiersi esclusivamente secondo le modalità indicate nell’art. 162 cod. proc. pen., è stata affermata da Sez. U, n. 41280 del 17/10/2006, C., Rv. 234905, e successivamente ribadita (da ultimo, Sez. 2, n. 7834 del 28/01/2020).
Tali adempimenti, pertanto, nel quadro della riforma, per la Corte di legittimità, condizionano l’esercizio, da parte della persona offesa, del suo diritto all’informazione e alla partecipazione al sub-procedimento cautelare introdotto dalla richiesta di revoca o di modifica in melius della misura cautelare, poiché alla mancanza della specifica manifestazione della volontà in tal senso segue la decadenza dal diritto alla notifica della richiesta e alla conseguente interlocuzione sui profili cautelari, con essa devoluti, ad opera della persona offesa, che, pur nello spazio riconosciutole nel processo penale, rimane, come è stato annotato in dottrina, un soggetto processuale la cui partecipazione non condiziona la progressione processuale.
Ciò posto, era altresì osservato, su un piano di logica argomentativa, che presenta profili di incoerenza sistematica l’interpretazione che fonda sull’inciso, «salvo che in quest’ultimo caso [la persona offesa] non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio», la previsione di modalità alternativa della notifica rispetto a quelle «presso il difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa», in cui si afferma la prevalenza della dichiarazione o elezione di domicilio, ove intervenute, anche ove vi sia già stata la nomina di un difensore visto che essa prospetta nella sostanza un’equiparazione – quanto agli effetti – tra la notifica presso il difensore e quella personale e la loro subvalenza rispetto alla notifica nel domicilio eventualmente dichiarato o eletto, che, oltre a non emergere dal testo normativo e a creare non definiti rapporti di valenza tra atti processuali tipici, è contraria alla finalità dell’intervento riformatore volto a riconoscere alla persona offesa una posizione partecipativa consapevole nel contesto del processo, che passa attraverso il compimento di atti funzionali alla sua identificazione e all’esplicitazione della sua volontà partecipativa.
Non deve, poi, per la Cassazione, trascurarsi che la ritenuta previsione della necessità della notifica dell’istanza alla persona offesa, indipendentemente da un suo comportamento positivo, pone problemi – non risolti con il richiamo all’opzione, pure sostenuta, della necessaria desumibilità dal fascicolo processuale dei suoi dati identificativi – di effettiva reperibilità e tempestiva conoscibilità da parte dell’istante delle notizie necessarie per adempiere all’obbligo assistito da sanzione.
Né può prescindersi dal rilevare che rispondono alla stessa ottica di riconosciuta centralità e maggiore tutela dei diritti della persona offesa nel processo la sua individuabilità con atti specifici, volti a creare il suo collegamento con un luogo o con una persona, e controllabilli e certamente ostensibili, e la non
sovrapponibilità della scelta – ove possibile negli atti processuali – del luogo di notificazione da parte dell’istante alla volontà della persona offesa, non tradottasi o non ancora tradottasi, per ragioni alla stessa riferibili, in atti di positivo intento partecipativo, anche alla luce dell’ampia categoria dei «delitti commessi con violenza alla persona», cui la norma si riferisce.
La soluzione interpretativa, fondata sulla formulazione della norma e sull’intenzione del legislatore, peraltro, si salda coerentemente al dato evidente che l’adempimento di cui si tratta, correlato al diritto informativo/partecipativo della persona offesa, cade in una parentesi cautelare del processo penale, che coinvolge diritti di difesa e della libertà personale dell’indagato/imputato, e risponde, nella rigorosa individuazione della posizione della persona offesa nei procedimenti per delitti commessi con violenza alla persona, alla necessità di bilanciamento di tutela degli opposti diritti di matrice costituzionale e convenzionale.
Per la Corte, d’altronde, sorreggono le considerazioni esposte anche concordanti e decisive ragioni di natura sistematica calate nel contesto normativo nel quale l’art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen. si colloca e al quale contribuisce a dare organicità e completezza.
La legge n. 119 del 2013, in sede di conversione del d.l. n. 93 del 2013, ha, tra l’altro, integrato l’art. 101, comma 1„ cod. proc. pen. aggiungendo all’unico periodo, che prevede la generale possibilità della persona offesa dal reato di nominare un difensore «per l’esercizio dei diritti e delle facoltà ad essa attribuiti», di due periodi, alla cui stregua grava sul pubblico ministero e sulla polizia giudiziaria, al momento dell’acquisizione della notizia di reato, l’obbligo di informarla dei diritti a essa spettanti.
Con detta integrazione del testo normativo (in espressa intrapresa attuazione della Direttiva 2012/29/UE), costituente, secondo le risultanze dei lavori parlamentari, «un innesto L.] sistematico», è reso evidente il fine di consentire alla persona offesa una conoscenza effettiva e concreta del suo diritto alla partecipazione al procedimento, con i correlativi obblighi di comunicazione da parte del pubblico ministero e della polizia giudiziaria («informano»), cui corrisponde un diritto informativo della destinataria persona offesa (a prescindere dalla natura del reato), funzionale all’esercizio dei diritti e delle facoltà a essa attribuiti dall’ordinamento giuridico.
Il d.lgs. n. 212 del 2015, che ha attuato la Direttiva 2012/29/UE a seguito della legge-delega 6 agosto 2013, n. 96, ha, poi, introdotto nel codice di procedura penale ulteriori modifiche per rafforzare, nel rispetto dello spirito e dei principi della Direttiva e in termini di effettività, il diritto costante all’informazione delle persone offese in generale e di quelle offese da delitti commessi con violenza alla persona in particolare, oltre a individuare, nella più ampia prospettiva di protezione attraverso strumenti di natura processuale, i parametri della particolare vulnerabilità della persona offesa legittimanti la loro applicazione.
Le innovazioni attengono specificamente, per quanto qui rileva, all’inserimento – dopo l’art. 90 cod. proc. pen., rubricato «diritti e facoltà della persona offesa dal reato», che prevede al suo primo comma non solo l’esercizio dei diritti e delle facoltà espressamente riconosciuti dalla legge, ma anche la facoltà di presentare memorie in ogni stato e grado del procedimento e di indicare elementi di prova – dell’art. 90-bis contenente la specifica indicazione, del pari riferita alla persona offesa, delle informazioni che devono essere fornite alla stessa, in lingua a essa comprensibile, sin dal primo contatto con l’autorità procedente.
Chiarito ciò, le Sezioni ritenevano quindi che, ferma restando la norma generale in tema di facoltà della persona offesa di nominare un difensore e di diritto della stessa alla informazione in ordine ai propri diritti, l’art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen. debba essere letto in relazione con l’art. 90-bis cod. proc. pen., del quale condivide l’omologa ratio atteso che quest’ultima norma enuncia plurimi obblighi informativi “preventivi” ovvero “preliminari“, da adempiersi, nell’ambito del procedimento penale, nei confronti della persona offesa «sin dal [suo] primo contatto con l’autorità procedente», cui possono conseguire determinate iniziative partecipative processuali della stessa, mentre l’art. 299, comma 4-bis, prevede, a sua volta, un obbligo informativo “preventivo” ovvero “preliminare” verso la persona offesa, gravante sulla parte richiedente la revoca o la sostituzione di una delle misure cautelari elencate, applicate in procedimenti aventi a oggetto delitti commessi con violenza alla persona, in vista dell’esercizio da parte della persona offesa del suo diritto alla partecipazione alla vicenda cautelare e all’interlocuzione, anche con la presentazione di memorie (in ogni caso, sempre possibile in ogni stato e grado del procedimento ex art. 90, comma 1, cod. proc. pen.), nel sub procedimento cautelare.
Nel ragionevole coordinamento delle norme, demandato all’interprete, emerge che la seconda previsione si pone come integrativa della prima in quanto introduce, in attinenza a una fase incidentale ed eventuale, une regola informativa specifica e aggiuntiva rispetto a quella generale contenuta nell’art. 90-bis cod. proc. pen., la cui applicazione rimane, pertanto, presupposta.
D’altra parte, la parentesi cautelare è parte del procedimento penale e i principi specializzanti che la governano non escludono, assorbendoli, quelli generali che regolano la posizione delle parti processuali e i loro diritti, facoltà, obblighi nel procedimento principale.
Alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, le Sezioni Unite affermavano che: 1) l’art. 90-bis cod. proc. pen., in sede di rituale attuazione – con il d.lgs. n. 212 del 2015 – della Direttiva 2012/29/UE, ha specificamente elencato, ripetendone le diffuse indicazioni, le informazioni immediate da fornirsi («sin dal primo contatto con l’autorità procedente») alla persona offesa; 2) l’art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen., nel testo definitivo introdotto con la legge n. 199 del 2013, che ha convertito con modificazioni il d.l. n. 83 del 2013 successivo alla ratifica (con legge n. 77 del 2013) della Convenzione di Istanbul, ha previsto, nel più limitato ambito cautelare riferito ai procedimenti per «delitti commessi con violenza alla persona», un’informazione, innovativa nel sistema processuale, da fornirsi alla persona offesa, alla quale ha nel contempo rappresentato le condizioni – correlate all’esercizio di specifiche facoltà a essa riconosciute quali la nomina del difensore ovvero la dichiarazione o l’elezione di domicilio – cui ha subordinato la stessa ricevibilità dell’informazione giacché si deve rilevare che, con il contestuale intervento, operato in sede di conversione del d.l. n. 93 del 2013, sull’art. 101, comma 1, cod. proc. pen., si è prevista l’informazione alla persona offesa, da fornirsi dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, al momento dell’acquisizione della notizia di reato, della facoltà di avvalersi dell’assistenza legale anche eventualmente accedendo al patrocinio a spese dello Stato, tenuto conto altresì del fatto che fanno parte del sistema processuale penale, e sono oggetto di puntuale disciplina e ripetuta lettura per la posizione dell’indagato e dell’imputato, l’istituto della dichiarazione e quello dell’elezione di domicilio, la cui assimilazione quanto agli effetti è costantemente operata dalla legge processuale e la cui equipollenza funzionale è fissata dall’art. 164 cod. proc. pen., a norma del quale il domicilio dichiarato e quello eletto sono il “domicilio legale” per tutto il corso del procedimento.
Orbene, il riferimento a tali istituti, che – quanto alla loro specifica struttura ed efficacia – sono stati anche assimilati a «dichiarazioni di volontà aventi valore negozialprocessuale», risponde, quindi, per la Corte di legittimità, a una precisa scelta del legislatore nazionale che, nel prevedere un’apertura di tutela informativa della persona offesa, alla stessa richiede di esprimere la volontà di essere parte della vicenda cautelare attraverso il ricorso agli indicati istituti, in alternativa al facoltativo ricorso alla tutela legale.
Peraltro, anche la Direttiva 2012/29/UE, che è alla base degli interventi riformatori, valorizza, all’art. 6, la richiesta della vittima, che precede il suo diritto a ricevere notizie sul procedimento avente ad oggetto un reato da essa subito, e puntualizza che la volontà della vittima di ottenere o meno informazioni, modificabile in qualunque momento, vincola l’autorità competente, «a meno che tali informazioni non debbano essere comunicate a motivo del diritto della vittima a partecipare attivamente al procedimento penale».
A tanto si aggiunge che la notificazione dell’istanza ex art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen. è prevista in una fase processuale successiva alla chiusura delle indagini preliminari e comunque quando la persona offesa, destinataria tra l’altro delle informazioni di cui agli artt. 90 e 90-bis cod. proc. pen. e, in ogni caso, a processo già avviato e proseguito nei suoi gradi, ha avuto la possibilità di
confrontarsi con lo stesso e apprezzare la sua volontà di farne parte.
Discende da quanto detto che il raccordo negli indicati termini tra gli artt. 299, comma 4-bis, e 90-bis cod. proc. pen., nei testi consegnati dalle successive novelle normative e ora contestualmente vigenti, risponde a criteri di organica rappresentazione della coerenza interna del sistema.
In relazione a quanto appena enunciato, per gli Ermellini, milita in tal senso pure un’ulteriore annotazione di chiusura di ordine sistematico.
Invero, la Corte costituzionale ha precisato in più occasioni che, «in linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali” (Corte cost., sent. n. 356 del 1966), specificando che i giudici non possono abdicare all’interpretazione adeguatrice (Corte cost., ord. n. 451 del 1994) e che, nell’adempimento del compito di interpretare le norme di cui devono fare applicazione, «di fronte a più possibili interpretazioni di un sistema normativo, essi sono tenuti a scegliere quella che risulti conforme a Costituzione» (Corte cost., ord. n. 121 del 1994).
Le Sezioni Unite, pronunciandosi incidentalmente sul tema dell’interpretazione della legge da applicare in concreto, dal canto loro, hanno già affermato che «l’interpretazione adeguatrice dei giudici ha possibilità di esplicazione soltanto quando una disposizione abbia carattere “polisenso” e da essa sia enucleabile, senza manipolare il contenuto della disposizione, una norma compatibile con la Costituzione attraverso l’impiego dei canoni ermeneutici prescritti dagli artt. 12 e 14 delle disposizioni sulla legge in generale: di talché, nell’impossibilità di conformare la norma in termini non incostituzionali, il giudice non può disapplicarla, ma deve rimettere la questione di legittimità costituzionale al vaglio del Giudice delle leggi» (Sez. U, n. 23016, del 31/03/2004, sul punto; più recentemente Sez. U, n. 40986 del 19/07/2018).
Ebbene, le Sezioni Unite prendevano atto come tali principi siano condivisi, e il riferimento a essi assuma pieno rilievo nella definizione del percorso interpretativo svolto con la necessaria verifica della conformità costituzionale della soluzione interpretativa rappresentata.
Come già rappresentato su un piano logico, in effetti, l’apprezzamento del diritto informatívo/partecipativo della persona offesa non può essere scisso da quello contrapposto dell’imputato, anche assistito da presunzione di innocenza, che è di difesa e in fatto volto a vedere risolta in senso migliorativo e in durata ragionevole la sua posizione cautelare, che riflette la sua libertà personale, oltre al fatto che la stessa Direttiva prevede nel “considerando (12)” che i diritti previsti a favore della vittima fanno salvi i diritti dell’autore del reato, tale inteso la persona condannata per un reato, ma anche la «persona indagata o imputata prima della eventuale dichiarazione di responsabilità o della condanna», fatta salva la presunzione di innocenza.
L’opzione interpretativa che, nel contemperamento degli interessi opposti, correla – secondo criteri di proporzionalità ed equo bilanciamento in contesto cautelare connotato da esigenze di tutela della libertà personale e dei diritti di informazione, di celerità della decisione, di chiarezza, di certezza e di esigibilità degli adempimenti – il diritto informativo della persona offesa, funzionale a quello partecipativo, alla manifestazione di un effettivo interesse, esplicato con gli adempimenti detti, alla partecipazione anche al subprocedimento cautelare, per la Cassazione, appare, di certo, compatibile con i precetti costituzionali, oltre che conforme ai canoni interpretativi emergenti dalla Direttiva.
Da quanto sin qui esposto, si giungeva a formulare, in ordine alla prima questione rimessa, il seguente principio di diritto: «Nei procedimenti per delitti commessi con violenza alla persona, la richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare deve essere notificata, a cura del richiedente, presso il difensore della persona offesa o, in mancanza, alla persona offesa, a condizione, in quest’ultimo caso, che essa abbia dichiarato o eletto».
Terminata la disamina del primo quesito, per quanto concerne il secondo quesito, si faceva innanzitutto presente come esso si articolasse in due sotto-quesiti.
Il primo atteneva alla necessità o meno, ai fini dell’obbligo della notificazione della richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare, dell’esistenza di un pregresso rapporto tra autore del reato e vittima ovvero della sussistenza di un concreto pericolo di recidiva riguardante specificamente quest’ultima mentre il secondo si riferiva all’individuabilità delle persone offese, alle quali deve farsi la già menzionata notificazione, negli eredi della vittima.
Precisato ciò, ad avviso dei giudici di piazza Cavour, il primo sotto-quesito presupponeva un preliminare richiamo all’operata ricognizione del quadro normativo di riferimento (art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen.) e dell’articolato contesto normativo, nazionale e sovranazionale, in cui l’indicata norma si colloca e all’esito di tale ricognizione conducente all’individuazione del riferimento – contenuto nella seconda parte del comma 4-bis dell’art. 299 cod. proc. pen., laddove è detto che la richiesta di revoca o di sostituzione delle misure previste per essere applicate nei procedimenti di cui al comma 2-bis del presente articolo- alla categoria dei «procedimenti aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona, introdotta nel codice dalla legge n. 119 del 2013 per indicare le persone offese destinatarie di specifici diritti informativi nell’ambito del procedimento cautelare.
Delineata la trattazione di questa sub questione nei seguenti termini, si evidenziava come la problematica relativa alla delimitazione dell’indicata categoria di procedimenti sia stata esaminata dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 10959 del 29/01/2016), chiamate, nell’occasione, a risolvere il contrasto riguardante, in tema di obbligo di comunicazione della richiesta di archiviazione, l’estensione dell’espressione normativa «delitti commessi con violenza alla persona», contenuta, tra l’altro, nel comma 3-bis dell’art. 408 cod. proc. pen., aggiunto dal d.l. n. 93 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 119 del 2013, e l’inclusione in essa delle sole condotte di violenza fisica o anche di quelle di minaccia e, per l’ipotesi specifica esaminata, del reato di cui all’art. 612-bis cod. pen., fosse stata risolta positivamente dalle Sezioni Unite.
Difatti, attraverso un iter argomentativo che ha attinto dalle fonti normative interne e internazionali, si è dapprima esaminato il concetto di violenza alla persona in esse accolto nel tempo, per poi segnalare il fatto che «l’espressione utilizzata dal legislatore, in realtà, non individua con immediatezza e certezza una specifica categoria di delitti», oltre a fare presente che le fonti sovranazionali hanno sempre inteso l’espressione “violenza alla persona” «in senso ampio, comprensiva non solo delle aggressioni fisiche ma anche morali o psicologiche […]» e che le indicazioni, derivanti da tali fonti, recepite nell’ordinamento, «costituiscono un fondamentale riferimento per addivenire ad una interpretazione delle norme interne conforme al diritto europeo».
Orbene, detti (reputati) condivisi snodi argomentativi sono stati successivamente riaffermati anche con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen., omologa nel riferimento alla categoria dei «delitti commessi con violenza alla persona», intesa, per l’effetto, come comprensiva di tutti i delitti aventi quale caratteristica (elemento del reato ovvero circostanza aggravante) la violenza alla persona, come descritti nell’indicata disposizione e nelle stesse fonti sovranazionali mentre il riferimento all’esistenza di pregresso rapporto interpersonale della persona offesa con l’autore del reato, ovvero alla vittima occasionale, o al pericolo di recidiva specificamente riferito alla persona offesa è stato, invece, il frutto di non condivise opzioni interpretative, espresse – sin dalla data di entrata in vigore della legge n. 119 del 2013 – dalla giurisprudenza (tra le altre, da ultimo, Sez. 6, n. 9529 del 05/11/2020; Sez. 2, 1735 del 28/03/2019; Sez. 2, n. 46996 del 08/06/2017) e dalla dottrina, e poste in relazione alla tentata delimitazione – nell’ampia categoria dei «delitti commessi con violenza alla persona» – degli oneri informativi in favore della persona offesa e dei soggetti destinatari del previsto adempimento visto che il dato letterale della norma e la ratio del relativo intervento normativo non consentono classificazioni o limitazioni incidenti sull’ampiezza della previsione, la cui finalità è eminentemente informativa e partecipativa, e non protettiva, della persona offesa, cui è rimessa la valutazione dell’interesse e dell’opportunità di interloquire nel processo nominando un difensore ovvero, in mancanza, depositando un atto di dichiarazione o di elezione di domicilio.
Concluso l’esame del primo sotto quesito, per quanto riguarda il secondo sotto-quesito, relativo agli “eredi” della persona offesa, era rinvenuta la sua soluzione alla luce delle considerazioni già svolta e nella previsione dell’art. 90, comma 3, cod. proc. pen., nel testo vigente a seguito dell’inserimento della sua seconda parte ad opera dell’art. 1, lett. a), n. 2, d.lgs. n. 212 del 2015.
Detta norma, invero, nella sua iniziale formulazione, prevedeva che, «qualora la persona offesa sia deceduta in conseguenza del reato, le facoltà e i diritti previsti dalla legge sono esercitati dai prossimi congiunti», attribuendo, pertanto, i poteri tipici della persona offesa, in via originaria, ai prossimi congiunti della persona deceduta a seguito della commissione di un delitto, e non agli eredi quale conseguenza di rapporti di natura successoria.
La Relazione al progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale, nel rappresentare l’esigenza perseguita con l’introduzione, nella topografia del nuovo progetto, di un titolo appositamente dedicato alla persona offesa e volta allo «scopo di attribuir[le] uno spazio, anche sistematicamente, autonomo rispetto alle parti private diverse dall’imputato», ha evidenziato che in tal modo si è inteso sottolineare il ruolo peculiare assegnato all’offeso dal reato rispetto al danneggiato, poiché «mentre all’uno, quale titolare dell’interesse leso dalla norma di diritto sostanziale violata, sono riconosciuti facoltà e diritti sin dalla fase delle indagini preliminari, all’altro (nei casi in cui non sia anche persona offesa) è potenzialmente assegnato un ruolo processuale solo in quanto il procedimento sia pervenuto alla fase indicata nell’art. 78, così da consentire la possibilità della costituzione di parte civile» fermo restando che la stessa Relazione ha, quindi, posto l’accento sulla ratio della prevista attribuzione ai prossimi congiunti dei poteri propri della persona offesa, ravvisata nell’improrogabile necessità di apprestare forme di tutela delle c.d. vittime del reato nel caso in cui la persona offesa sia deceduta in conseguenza del reato stesso, oltre ad esplicare l’intervenuta riformulazione del comma 3 dell’art. 90 del Progetto del 1978 nel nuovo testo (allora comma 3 dell’art. 89), rappresentando che, attraverso l’introduzione di una clausola generale, si consente, sin dalla fase delle indagini preliminari, «ai prossimi congiunti della persona offesa, deceduta in conseguenza del reato, di esercitare gli stessi diritti e le stesse facoltà attribuiti al loro dante causa».
La norma è stata integrata dal predetto d.1gs. n. 212 del 2015 con l’aggiunta, alla previsione che le facoltà e i diritti dopo la morte della persona offesa sono esercitati dai prossimi congiunti, delle parole «o da persona alla medesima legata da relazione affettiva e con essa stabilmente convivente».
L’indicato decreto legislativo è stato a sua volta emesso in attuazione della Direttiva 2012/29/UE, il cui art. 2 include, tra le vittime del reato, anche i familiari di «una persona la cui morte è stata determinata da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona», intesi i familiari come «il coniuge, la persona che convive con la vittima in una relazione intima, nello stesso nucleo familiare e in modo stabile e continuo, i parenti in linea diretta, i fratelli e le sorelle, e le persone a carico della vittima».
Nell’ordinamento italiano una definizione dei prossimi congiunti, già previsti nell’art. 90, comma 3, cod. proc. pen., è contenuta nell’art. 307, secondo comma, cod. pen. che, con disposizione di carattere generale, li descrive «agli effetti penali», ricomprendendovi «gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti», ed escludendo in ogni caso gli affini, ove sia morto il coniuge e non vi sia prole.
I dati testuali del vigente art. 90, comma 3, cod. proc. pen., congiunti alla definizione di diritto penale sostanziale dei prossimi congiunti, evidenziano quindi una preesistenza, nel testo normativo di produzione interna, di norma non confliggente con quella sovranazionale e una interpolazione aggiuntiva (data dal riferimento a persona legata alla parte offesa da relazione affettiva e con essa stabilmente convivente), mancante nella originaria norma interna, di adeguamento ai contenuti della Direttiva (e, segnatamente, al riferimento a persona che convive con la vittima in una relazione intima, nello stesso nucleo familiare e in modo stabile e continuo), sì che la completezza dei dati rende l’interpretazione della norma interna univoca e convenzionalmente conforme.
Orbene, se questa è la lettura da farsi, non c’è dubbio, per la Corte di legittimità, che i prossimi congiunti della persona offesa e la persona legata alla stessa da relazione affettiva e con essa stabilmente convivente, in quanto legittimati a esercitare diritti e facoltà della persona offesa deceduta, sono anche titolari del diritto all’adempimento informativo con i limiti e le modalità riservati alla persona offesa, e, come tali, sono aventi diritto alla notificazione, prevista dall’art. 299, comrna 4-bis, cod proc. pen., della richiesta di revoca o modifica della misura cautelare, in atto a carico dell’indagato/imputato, solo se abbiano nominato un difensore ovvero dichiarato o eletto domicilio.
La rilevata ampiezza del riferimento alla categoria dei delitti commessi con violenza alla persona, contenuto nella norma di riferimento (art. 299, comma 2-bis, cod. pro. pen.), e la ratio, essenzialmente informativa e partecipativa, della notifica della richiesta (art. 299, comma 4-bis, cod. pro. pen.), già rilevate, escludono, infine, per le Sezioni Unite, la sussistenza di ragioni limitative dell’indicato diritto – in favore dei prossimi congiunti della vittima di omicidio volontario, come nella specie, e delle persone legate alla stessa da relazione affettiva e con essa stabilmente conviventi – in dipendenza dell’intervenuta definitiva interruzione di ogni pregresso rapporto personale tra autore del reato e persona offesa per effetto della morte di quest’ultima.
Alla luce di quanto sin qui postulato, in ordine alla seconda questione rimessa, gli Ermellini formulavano il seguente principio di diritto: “In ragione delle finalità eminentemente informative e partecipative al processo della notifica di cui all’art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen., essa, in caso di decesso della persona offesa in conseguenza del reato, deve essere effettuata, con le stesse modalità previste per la vittima, ai prossimi congiunti o alla persona a quella legata da relazione affettiva e stabilmente convivente”.
6. Conclusioni
La decisione in esame desta notevole interesse in quanto, componendosi un pregresso contrasto giurisprudenziale, è ivi chiarito a chi deve essere notificata, nei procedimenti per delitti commessi con violenza alla persona, la richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare, con particolar riguardo al caso di decesso della persona offesa in conseguenza del reato.
Difatti, in tale arresto giurisprudenziale, si afferma, da un lato, che, nei procedimenti per delitti commessi con violenza alla persona, la richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare deve essere notificata, a cura del richiedente, presso il difensore della persona offesa o, in mancanza, alla persona offesa, a condizione, in quest’ultimo caso, che essa abbia dichiarato o eletto, dall’altro, che, la notifica di cui all’art. 299, comma 4-bis, cod. proc. pen., in caso di decesso della persona offesa in conseguenza del reato, deve essere effettuata, con le stesse modalità previste per la vittima, ai prossimi congiunti o alla persona a quella legata da relazione affettiva e stabilmente convivente.
Tale sentenza, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione ogni volta si debba affrontare una di queste problematiche.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in cotale provvedimento, proprio perché fa chiarezza su siffatta tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.
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