(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 622)
Il fatto
La Corte di Appello di Bologna, su impugnazione della parte civile, in riforma della sentenza assolutoria pronunciata ex art. 530, comma 2, cod. proc. pen., dal Tribunale della stessa città, aveva dichiarato l’imputato civilmente responsabile dell’infortunio occorso ad un lavoratore all’interno di un cantiere e lo aveva condannato al risarcimento dei danni dallo stesso patiti da liquidarsi dinanzi al competente giudice civile.
In particolare, se il Tribunale aveva assolto ex art. 530, comma 2, cod. proc. pen. l’imputato per insussistenza del fatto ritenendo che non fosse possibile affermare oltre ogni ragionevole dubbio che l’operaio si era procurato le lesioni cadendo dal ponteggio, avverso tale sentenza avevano proposto appello sia il Procuratore generale presso la Corte di appello, sia la parte civile, censurando la valutazione di inattendibilità della testimonianza della persona offesa e valorizzando, per converso, la sussistenza di elementi obiettivi di riscontro a tali dichiarazioni.
Ciò posto, la Corte territoriale, dal canto suo, aveva dichiarato inammissibile, perché tardivo, l’appello del Procuratore generale e, in accoglimento dell’appello della parte civile, aveva riformato la sentenza di primo grado ai soli effetti della responsabilità civile condannando l’imputato al risarcimento dei danni da liquidarsi dinanzi al giudice civile.
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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso la sentenza emessa dai giudici di seconde cure proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato che chiedeva l’annullamento della sentenza sulla base dei seguenti motivi: 1)
violazione di legge e vizio di motivazione per avere il giudice di appello ribaltato il giudizio di responsabilità operato dal primo giudice sulla base di una diversa valutazione di attendibilità della deposizione testimoniale della parte civile omettendo di rinnovare, ex art. 603, comma 3-bis cod. proc. pen., le prove dichiarative ritenute decisive; 2) violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza di cui all’art. 521 cod. proc. pen. e vizio di motivazione con riferimento alla ricostruzione delle responsabilità colposa del ricorrente; 3) vizio di motivazione con riferimento agli artt. 190 e 192 cod. proc. pen. nella forma del travisamento delle risultanze processuali in quanto, secondo l’impugnante, il convincimento della Corte di appello si sarebbe basato su risultati probatori diversi da quelli emersi in dibattimento.
Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
La Quarta Sezione penale, rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite a norma dell’art. 618 cod. proc. pen..
Rilevava l’ordinanza di rimessione, in via preliminare, la fondatezza del vizio dedotto con il primo motivo di ricorso per avere il giudice d’appello riformato ai soli fini civili la sentenza di assoluzione di primo grado – fondata sulla ritenuta non attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa – sulla base di un diverso apprezzamento di tale prova ritenuta decisiva, senza procedere alla previa rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per esaminare la persona offesa e l’ispettrice dell’AUSL che aveva effettuato il sopralluogo nella immediatezza, in contrasto con quanto affermato in un obiter dictum dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 27620 del 28/04/2016, e ribadito dalla successiva giurisprudenza della Corte di legittimità ordinaria anche dopo l’introduzione del comma 3-bis nell’art. 603 cod. proc. pen. ad opera dell’art. 1, comma 58, legge 23 giugno 2017, n. 103.
Ritenuta, pertanto, la fondatezza del ricorso, che comportava l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata, l’ordinanza dava conto dei recenti contrasti interpretativi sorti con riferimento all’individuazione del giudice cui rimettere gli atti in caso di accoglimento del ricorso dell’imputato ai soli effetti civili e, in generale, sulla portata dell’art. 622 cod. proc. pen.
Ebbene, secondo un primo e prevalente orientamento, nel caso di accoglimento del ricorso per cassazione ai soli effetti civili, ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen., l’annullamento della sentenza va disposto con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello perché la ratio della suddetta previsione è quella di evitare ulteriori interventi del giudice penale ove non vi sia più nulla da accertare agli effetti penali (v., tra le tante, da ultimo, Sez. 5, n. 28848 del 21/09/2020; Sez. 5, n. 26217 del 13/07/2020; Sez. 1, n. 14822 del 20/02/2020; Sez. 5, n. 16988 del 18/02/2020; Sez. 4, n. 13869 del 05/02/2020).
Alla stregua di un diverso orientamento, affermatosi nel 2019, il rinvio per il nuovo giudizio deve invece essere disposto al giudice penale in tutti quei casi in cui, a seguito dell’annullamento della sentenza impugnata ai soli effetti civili, vi sia ancora una questione sull’ an della responsabilità dovendo questo tema essere accertato secondo le regole probatorie e di giudizio proprie del processo penale (v. Sez. 6, n. 28215 del 25/09/2020; Sez. 4, n. 12174 del 26/02/2020; Sez. 2, n. 9542 del 19/02/2020; Sez. 4, n. 11958 del 13/02/2020; Sez. 3, n. 14229 del 09/01/2020); decisioni, queste, che, osserva la Sezione remittente, si riferiscono, appunto, a casi di annullamento, per la mancata rinnovazione in appello di una prova dichiarativa ritenuta decisiva della sentenza che, in accoglimento dell’appello della parte civile avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, abbia condannato l’imputato al risarcimento del danno.
Precisato ciò, l’ordinanza di rimessione segnalava altresì un terzo, isolato, orientamento interpretativo secondo il quale il rinvio al giudice civile ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen. non può essere disposto qualora l’annullamento delle disposizioni o dei capi della sentenza impugnata, concernenti l’azione civile, dipenda dalla fondatezza del ricorso dell’imputato agli effetti penali rilevandosi al contempo come questo principio sia stato enunciato in un caso in cui, ritenuto fondato il ricorso dell’imputato sul punto della riforma in appello della sentenza assolutoria di primo grado, pur in assenza di rinnovazione dell’istruttoria ex art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., è stato disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza agli effetti penali a seguito di estinzione dei reati per prescrizione e anche agli effetti civili in base al rilievo che il rinvio al giudice civile avrebbe imposto a quest’ultimo di procedere all’accertamento del fatto mediante applicazione dei principi di oralità e immediatezza della prova estranei al sistema processual-civilistico (v. Sez. 6, n. 31921 del 06/06/2019).
Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite individuavano prima di tutto la questione sottoposta al loro vaglio giudiziale nei seguenti termini: “Se in caso di annullamento, ai soli effetti civili, della sentenza di condanna pronunciata in appello senza previa rinnovazione della prova dichiarativa decisiva, a seguito di gravame della sola parte civile contro la sentenza di assoluzione di primo grado, il rinvio debba essere disposto al giudice civile competente per valore in grado di appello o al giudice penale”.
Premesso ciò, si osservava, sempre in via pregiudiziale, una volta presosi atto che l’affermazione di responsabilità ai fini civili operata nel presente giudizio dalla Corte di appello, in riforma del giudizio assolutorio del Tribunale, derivava, come emerge dall’ordinanza di rimessione, esclusivamente da una diversa valutazione degli apporti dichiarativi raccolti in primo grado, antitetica a quella del Tribunale, che l’ordinanza della Quarta Sezione penale aveva rilevato come la Corte territoriale avesse violato un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale, anche in caso di impugnazione della sola parte civile, il giudice del gravame, che intenda riformare in peius una sentenza di assoluzione, è tenuto a rinnovare le prove dichiarative incidenti in maniera decisiva sulla decisione.
Detto questo, le Sezioni Unite ritenevano anzitutto di confermare l’orientamento già espresso con la sentenza emessa sempre delle Sez. U, sub n. 27620 del 28/04/2016, suffragato dalla prevalente giurisprudenza successiva (v. ex pluribus, Sez. 5, n. 15259 del 18/02/2020) secondo il quale, anche nella ipotesi in cui la riforma della pronuncia di assoluzione di primo grado sia sollecitata nella prospettiva dei soli interessi civili, a seguito di impugnazione della parte civile, la rinnovazione della istruzione dibattimentale si profila come assolutamente necessaria ex art. 603, comma 3, cod. proc. pen.
Oltre a ciò, veniva altresì fatto presente come la Cassazione avesse successivamente ribadito tale principio con riferimento al giudizio abbreviato (Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017) stabilendo che è affetta da vizio di motivazione, per mancato rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell’imputato, in riforma di una sentenza assolutoria emessa all’esito di giudizio abbreviato non condizionato, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza che nel giudizio di appello si sia proceduto all’esame delle persone che abbiano reso tali dichiarazioni.
I principi espressi dalle due predette sentenze delle Sezioni Unite, intervenute prima della modifica normativa dell’art. 603 cod. proc. pen., ad avviso di queste Sezioni secondo quanto da loro postulato nella decisione qui in commento, rappresentano l’approdo di un complesso percorso interpretativo che, muovendo dall’obbligo di motivazione rinforzata in caso di riforma in appello della sentenza di proscioglimento di primo grado (Sez. U, n. 45726 del 30/10/2003) e dal dovere di confutazione specifica dei più rilevanti argomenti valorizzati nella motivazione della sentenza da parte del giudice d’appello che la riformi totalmente (Sez. U, n. 33748 del 12/7/2005), ha riconosciuto rilievo centrale al canone “al di là di ogni ragionevole dubbio” (art. 533, comma 1, introdotto dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46) che, ai fini della condanna, presuppone la certezza della colpevolezza, a differenza dell’assoluzione che presuppone la mera non certezza della colpevolezza.
Il comma 3-bis, inserito nell’art. 603 cod. proc. pen. dall’art. 1, comma 58, della legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), a sua volta, costituisce l’evoluzione delle regole della rinnovazione istruttoria in appello secondo l’esegesi “formante” sviluppatasi attraverso le pronunce del Supremo collegio penale, a partire proprio dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2016 dato che la modifica normativa de qua ha saldato sul medesimo asse cognitivo e decisionale dovere di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, obbligo di motivazione rinforzata da parte del giudice dell’impugnazione in caso di dissenso rispetto alla decisione di primo grado, canone “al di là di ogni ragionevole dubbio” in ossequio allo statuto fondante del processo penale ispirato ai principi fondamentali del contraddittorio, dell’oralità, dell’immediatezza nella formazione della prova.
L’intervento legislativo che ha introdotto il citato comma 3-bis dell’art. 603 ha dato quindi vita ad una norma eccezionale, di stretta interpretazione, che individua una nuova ipotesi di ammissione delle prove limitando l’obbligo alle ipotesi in cui il soggetto impugnante sia il pubblico ministero e non la parte civile (Sez. U, n. 14426 del 28/01/2019) pur rilevandosi contestualmente che, in realtà, questa affermazione non autorizza a ritenere che, in caso di impugnazione della sola parte civile, il giudice di appello, che intenda riformare in peius una sentenza di assoluzione ,non sia obbligato a rinnovare le prove dichiarative incidenti in maniera decisiva sulla decisione.
Al riguardo le stesse Sezioni Unite, nella sentenza n. 14426 del 28.01.2019, hanno osservato che i lavori parlamentari, che a loro volta hanno portato all’introduzione del comma 3-bis nel corpo dell’art. 603 cod. proc. pen. e la Relazione governativa hanno espresso, nel solco tracciato dalla Corte EDU e dalla giurisprudenza di legittimità con le citate sentenze nn. 27620/2016 e 14426/2019, la necessità di dare una “soluzione, a livello legislativo, alla problematica della modalità con la quale si deve tutelare il contraddittorio nell’ipotesi in cui sia appellata una sentenza di assoluzione” posto che è indubbio che, relativamente a questa ipotesi, il contraddittorio deve essere implementato con il principio dell’oralità anche in appello perché questo costituisce il metodo epistemologico più corretto ed idoneo a superare l’intrinseca contraddittorietà fra due sentenze che, pur sulla base dello stesso materiale probatorio, sono pervenute ad opposte conclusioni.
Non appare influente, sotto detto aspetto, ad avviso degli Ermellini, la circostanza che l’impugnazione sia stata proposta dal pubblico ministero piuttosto che dalla parte civile posto che: “il nostro sistema processuale non prevede differenziazioni delle regole probatorie ai fini dell’accertamento della responsabilità penale e civile, nel contesto unitario del processo penale, non potendo, sotto il profilo del diritto di difesa, diversamente declinarsi le regole poste a presidio dello stesso, a seconda se vengano in rilievo profili penali o esclusivamente civili. Tale conclusione non è, infatti, in alcun modo desumibile dai principi della Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, come sviluppati dall’interpretazione della Corte comunitaria e recepita nella Carta costituzionale all’art. 111, nonché dalla prospettiva posta a fondamento dell’elaborazione giurisprudenziale delle Sezioni Unite di questa Corte” (conf. Sez. 5, n. 15259 del 18/02/2020; Sez. 5, n. 32854 del 15/04/2019).
Nello stesso senso, la Sez. 5, con la decisione n. 16988 del 18/02/2020, sottolinea che il passaggio argomentativo contenuto nella sentenza n. 14426/2019 – sulla natura di norma eccezionale del citato comma 3-bis dell’art. 603, che limiterebbe l’ammissione d’ufficio delle prove alle ipotesi in cui il soggetto impugnante sia il pubblico ministero e non la parte civile – non può consentire interpretazioni “oltre le intenzioni” del massimo collegio nomofilattico che non ha inteso escludere tale obbligo quando il ribaltamento della decisione è ai soli fini civili ma soltanto delimitare la portata innovativa della disciplina introdotta con l’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen..
Sulla base delle considerazioni sinora svolte era possibile pertanto affermare, ad avviso del Supremo Consesso, che la richiamata sentenza n. 14426/2019, partendo dalla nuova norma codicistica, si aggiunge e non sostituisce l’analisi di quanto asserito nella sentenza n. 27620/2016, costruendo, piuttosto, la mancata rinnovazione – quando è dipesa da ribaltamento determinato da impugnazione del pubblico ministero – come violazione di legge rimanendo invece inalterato il quadro complessivo della ricostruzione giurisprudenziale sopra tratteggiato.
L’introduzione di un principio come quello dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. per l’appello del pubblico ministero non osta, dunque, per la Suprema Corte, a ritenere che il percorso esegetico disegnato dalle sentenze delle Sezioni Unite nn. 27620/2016 e 14426/2019 mantenga una propria vitalità ed autonomia in quanto si ispira a principi di rango superiore a quello della legge ordinaria: e cioè il principio del giusto processo – di cui il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio è un corollario – che a sua volta è di matrice tanto costituzionale quanto convenzionale.
La garanzia del giusto processo implica quindi, sempre secondo i giudici di piazza Cavour, che i meccanismi e le regole sulla formazione della prova non subiscano distinzioni a seconda degli interessi in gioco e operino anche nel caso in cui la riforma della pronuncia assolutoria di primo grado sia sollecitata nella prospettiva degli interessi civili, a seguito di impugnazione della sola parte civile (Sez. 6, n. 37592 del 11/06/2013) e, di conseguenza, tale garanzia conduce a ritenere che il giudice d’appello che riformi, anche su impugnazione della sola parte civile ed esclusivamente agli effetti civili, la sentenza di proscioglimento, sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, sia obbligato a rinnovare, anche d’ufficio, l’istruzione dibattimentale.
Del resto, la Cassazione riteneva che, a ragionare altrimenti, si sarebbe creata una disparità di trattamento così marcata tra le garanzie delle quali godrebbe l’imputato nel caso in cui fosse impugnata la sentenza di assoluzione emessa nei suoi confronti agli effetti penali e quelle di cui sarebbe destinatario l’imputato nei cui confronti fosse proposta impugnazione ai soli effetti civili da travalicare senza dubbio la ragionevolezza legislativa, che, nell’ottica dell’art. 3 Cost., deve guidare pur sempre la legittimità costituzionale delle scelte normative.
Il principio de quo, inoltre, sempre secondo gli Ermellini, non risulta posto in discussione da quanto asserito dalle Sez. U., nella decisione n. 14800 del 21/12/2017, secondo cui presunzione di innocenza e ragionevole dubbio impongono soglie probatorie asimmetriche in relazione alla diversa tipologia dell’epilogo decisorio: la certezza della colpevolezza per la condanna, il dubbio processualmente plausibile per l’assoluzione.
La sentenza appena citata, invero, nel solco tracciato dalle richiamate pronunce, ha affermato che il ribaltamento in senso assolutorio del giudizio di condanna, operato dal giudice di appello, pur senza procedere alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, è perfettamente in linea con il principio di innocenza, presidiato dai criteri di giudizio di cui all’art. 533 cod. proc. pen. mentre, al contrario, la riforma di una sentenza assolutoria nel giudizio di appello, in mancanza di elementi sopravvenuti, non può basarsi su una mera diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza ma richiede una “forza persuasiva superiore” tale da far venire meno “ogni ragionevole dubbio“.
Orbene, secondo le Sezioni Unite, in tale contesto ricostruttivo, l’ambito di operatività del principio di immediatezza nell’acquisizione della prova dichiarativa si modula diversamente e deve essere considerato recessivo là dove, come nel caso di riforma di una sentenza di condanna, il principio del ragionevole dubbio non venga in questione.
In tal senso le Sezioni Unite, nella pronuncia n. 14800/2017, hanno richiamato le sentenze della Corte costituzionale, n. 217 del 2009 e n. 168 del 2006, secondo le quali il principio costituzionale del contraddittorio non rappresenta una “risorsa” dispensata alle parti allo stesso modo e con la stessa intensità (prevedendo, infatti, il comma 5 dell’art. 111 Cost. il consenso dell’imputato, e non di altri, per la perdita di contraddittorio nei casi consentiti), poiché nasce e si sviluppa come garanzia in favore dell’imputato, e ciò perché il nostro ordinamento costituzionale ha operato una ben precisa scelta di sistema delineando il processo penale come strumento di accertamento della colpevolezza e non dell’innocenza e, quindi, entro questa prospettiva, l’evoluzione impressa al nostro sistema dagli strumenti legislativi di attuazione delle direttive europee e delle convenzioni internazionali sul ruolo e sulle facoltà processuali della persona offesa, che ha progressivamente assunto, all’interno del processo penale, una rilevanza prima sconosciuta, non si traduce nella previsione di alcun obbligo normativo di rinnovazione della escussione del dichiarante ma sospinge l’interprete verso una maggiore e più attenta considerazione delle esigenze di tutela e degli interessi di cui si fanno portatrici le persone offese all’interno del processo penale.
Il nuovo “volto processuale” della persona offesa, secondo la Corte di legittimità ordinaria, non stravolge, però, le linee portanti del sistema e non mette in discussione la funzionalità primaria, tradizionale, delle garanzie del processo penale quale insieme di regole orientate, anzitutto, a rendere equo il giudizio nei confronti della persona imputata o accusata che vi è sottoposta e ciò consente di spiegare, sotto molteplici aspetti, la presenza, nel complesso sistema di garanzie previste nel processo penale, di differenti livelli e forme di tutela nei confronti dell’imputato e della parte offesa, giustificando anche l’individuazione di una particolare esigenza di immediatezza nella raccolta della prova dichiarativa collegata solo all’esito della condanna che per la prima volta si prospetti nel giudizio di secondo grado, e non, invece, con riferimento all’esito decisorio inverso.
Ed allora, alla luce delle linee ermeneutiche sopra enunciate, in accoglimento del primo motivo di ricorso, la sentenza impugnata veniva annullata in quanto il giudice di appello, investito dell’impugnazione proposta dalla parte civile ai soli effetti civili avverso la pronuncia assolutoria di primo grado, aveva omesso di rinnovare, anche d’ufficio, l’istruttoria dibattimentale e aveva adottato la decisione di riforma sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di prove dichiarative ritenute decisive.
Nessun dubbio, infatti, sussisteva, per la Suprema Corte, in ordine al fatto che le prove dichiarative costituite dalle testimonianze delle persone offese e della ispettrice della AUSL, responsabile del sopralluogo il giorno successivo dell’infortunio, fossero state decisive sia nella prospettiva assolutoria del primo giudice che in quella opposta del giudice dell’appello, così come neppure poteva negarsi che fosse stata proprio la distonica valutazione di tali testimonianze a costituire il nucleo centrale del ribaltamento della decisione da parte del giudice dell’appello.
Rilevata, nei limiti sopra citati, la fondatezza del primo motivo di ricorso dell’imputato, con il conseguente annullamento agli effetti civili della sentenza impugnata, si poneva, a questo punto della disamina, il problema di individuare il giudice del rinvio evidenziandosi al contempo che sulla questione fossero rinvenibili indirizzi interpretativi difformi.
L’orientamento prevalente, che individua il giudice del rinvio nel giudice civile competente per valore in grado di appello, richiama espressamente il dictum della sentenza delle Sezioni Unite, n. 40109 del 18/07/2013, secondo la quale la ratio dell’art. 622 cod. proc. pen. va ravvisata nella volontà di escludere la perdurante attrazione delle pretese civili nel processo penale, una volta che siano definitive le statuizioni di carattere penale, tra le quali rientrano anche quelle che dichiarano l’estinzione del reato per prescrizione.
In particolare, secondo tale lettura interpretativa, l’art. 622 cod. proc. pen. disciplina la fase in cui, all’esito del giudizio di cassazione, la regiudicanda penale si sia esaurita (essendosi prescritto il reato o essendo divenuta irrevocabile la sentenza di assoluzione), ed il giudizio debba proseguire con riferimento alle sole statuizioni civili da reato; il giudizio di rinvio vede, quindi, come si legge nell’art. 622, sulle sole disposizioni o sui capi che riguardano l’azione civile per la semplice ragione che è solo su questi ultimi che può incidere la delibazione del giudice di rinvio a prescindere dalle ragioni che hanno condotto a ritenere viziata la sentenza impugnata dinanzi al giudice di legittimità.
In tale prospettiva, per le Sezioni Unite, l’art. 622 comporta la necessità di investire il giudice civile delle questioni relative alle istanze risarcitorie, non solo per le determinazioni del quantum debeatur in presenza di pronunzia consolidata sull’an, ma anche quando la sentenza impugnata venga annullata proprio per le lacune della motivazione sull’an della responsabilità dal momento che l’inciso “fermi gli effetti penali della sentenza”, contenuto nella norma citata, può riferirsi alla declaratoria di estinzione del reato o comunque ad altra causa di accertamento definitivo sui profili penali della vicenda (pertanto, anche alla sentenza di assoluzione passata in giudicato).
L’indirizzo in esame osserva, inoltre, che le diverse declinazioni, sostanziali e processuali, delle regole che presidiano l’accertamento della responsabilità civile da reato in ciascuna delle due sedi, penale e civile, non consentono di individuare agevolmente un regime deteriore per l’una o l’altra parte, sì da attribuire con certezza patenti di maggiore garanzia e da giustificare il superamento del chiaro tenore letterale della norma, con conseguente rinvio al giudice penale per il prosieguo esclusivamente civilistico di una vicenda definitivamente esauritasi sotto il profilo penale (v. in tal senso, Sez. 5, n. 28848 del 21/09/2020).
È stato ritenuto, così, che il principio applicato nella sentenza n. 40109/2013 – in relazione alla pronuncia del giudice di appello che aveva dichiarato la estinzione del reato per prescrizione senza motivare in ordine alla responsabilità dell’imputato ai fini delle statuizioni civili – è estensibile al caso della prescrizione dichiarata in sede di legittimità, ove siano rilevabili nella sentenza di appello vizi di motivazione (Sez. 4, n. 13869 del 05/02/2020) e, in senso conforme, si pone anche la sentenza n. 14822 del 20.02.2020 emessa dalla Sez. 1 secondo la quale, ove sussista un vizio di motivazione attinente all’affermata responsabilità dell’imputato in sede di merito, ma non vi è più spazio per il giudice penale, stante la rilevata e dichiarata estinzione del reato per prescrizione, non può essere adottata altra soluzione, ai fini delle determinazioni sulle statuizioni civili, se non quella del rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, non avendo più ragione d’essere la speciale competenza promiscua (penale e civile) attribuita al giudice penale in conseguenza della costituzione di parte civile.
Nel dettaglio, i giudici di legittimità hanno evidenziato che, a voler seguire la tesi secondo cui il rinvio al giudice civile ex art. 622 cod. proc. pen. sarebbe previsto solo per le determinazioni sul quantum debeatur, non potendo più essere investito per nuovo esame il giudice penale, tenuto conto della intervenuta la prescrizione, si perverrebbe alla conseguenza – contraria alla logica del sistema ed al senso di equità – per cui il giudice civile sarebbe vincolato a pronunciarsi solo sul quantum, pur in presenza di un’affermazione sulla responsabilità basata su di una sentenza lacunosamente motivata; ciò determinando, oltretutto, un irreparabile vulnus al diritto di difesa dell’imputato.
Orbene, a seguito di un mutamento della giurisprudenza della Terza Sezione civile della Cassazione, secondo il quale il giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. deve assecondare le regole processuali, sostanziali e probatorie proprie del giudizio civile, tra le quali non è compresa quella della rinnovazione obbligatoria della istruttoria in caso di condanna susseguente ad “overturning” (v. sentenze n. 9358 del 12/04/2017; n. 15859 del 12/06/2019; n. 16916 del 2/06/2019, nn. 22516, 22518, 22519, 22520 del 10/09/2019), le Sezioni Unite osservavano come si fosse fatto strada nella giurisprudenza penale un diverso, minoritario e più recente orientamento, secondo il quale il rinvio dovrebbe essere fatto, invece, al giudice penale, e a tale conclusione si è pervenuti attraverso una interpretazione restrittiva dell’art. 622 cod. proc. pen. in forza della quale tale disposizione sarebbe inapplicabile nei casi in cui non vi sia stato un definitivo accertamento della responsabilità penale (v. Sez. 6, n. 28215 del 25/09/2020; Sez. 4, n. 12174 del 26/02/2020; Sez. 4, n. 11958 del 13/02/2020; Sez. 3, n. 14229 del 09/01/2020).
In particolare, il rinvio al giudice penale sarebbe da disporre nella ipotesi dell’accoglimento del ricorso per Cassazione proposto dall’imputato, unicamente agli effetti civili, avverso la sentenza di appello che – in accoglimento del solo appello ex art. 576 cod. proc. pen. della parte civile avverso la sentenza di proscioglimento – abbia condannato l’imputato al risarcimento dei danni fermo restando che altre sentenze ascrivibili a tale orientamento hanno riguardato casi di accoglimento del ricorso per Cassazione proposto dall’imputato tanto agli effetti penali quanto agli effetti civili, avverso la sentenza di appello di condanna, in riforma della sentenza assolutoria di primo grado (v. Sez. 6, n. 31921 del 06/06/2019) o di illegittima dichiarazione dell’inammissibilità dell’appello proposto dall’imputato avverso la sentenza di condanna di primo grado per un reato nel frattempo prescrittosi (Sez. 2, n. 8935 del 21/01/2020).
Orbene, una volta terminato questo excursus giurisprudenziale, gli Ermellini osservavano come le pronunce sopra indicate, nel porsi il problema dell’individuazione del giudice del rinvio, a supporto della ravvisata competenza del giudice penale, avessero esaminato il tema del rapporto tra azione civile ed azione penale nell’attuale assetto codicistico.
In proposito, alcune delle pronunce riconducibili a tale orientamento (v. Sez. 3, n. 14229 del 09/01/2020) hanno tratto spunto, per una diversa lettura del sistema, dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 176 del 2019 con la quale il Giudice delle leggi ha ritenuto la legittimità costituzionale dell’art. 576 cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma Cost., nella parte in cui stabilisce che la parte civile può proporre al giudice penale, anziché al giudice civile, impugnazione ai soli effetti della responsabilità civile contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio e, da tale decisione è stata tratta la conclusione che sarebbe del tutto coerente con l’impianto del codice di rito che, una volta esercitata l’azione civile nel processo penale, la pronuncia sulle pretese restitutorie/risarcitorie della parte civile avvenga in quella sede. Oltre al quadro di accessorietà dell’azione civile rispetto al processo penale, per la Suprema Corte, viene naturalmente in rilievo l’ulteriore profilo, anch’esso di interesse per la questione ermeneutica in esame, della rilevanza della portata delle garanzie difensive assicurate all’imputato anche rispetto ai diritti azionati dalla parte civile deponendo in tal senso, non solo le disposizioni che consentono alla parte civile di formulare e poter far valere efficacemente le proprie pretese sia nel quadro della regola generale dell’avvenuta adozione di una sentenza di condanna (art. 538 cod. proc. pen.) sia attraverso eccezioni a tale regola (art. 576, comma 1 e 578 cod. proc. pen., riguardanti casi in cui i profili civilistici possono venire in rilievo pur in assenza di una pronunzia penale di condanna), bensì anche l’espressa previsione che disciplina le facoltà difensive dell’imputato stesso rispetto alle pretese attivate nei suoi confronti sul piano civile.
Il riferimento è, in particolare, all’art. 574 cod. proc. pen., ai sensi del quale l’impugnazione dell’imputato contro i profili civilistici della sentenza “è proposta con il mezzo previsto per le disposizioni penali della sentenza” e ciò, del resto, in piena conferma della previsione, di portata generale, per cui “l’impugnazione per i soli interessi civili è proposta, trattata e decisa con le forme ordinarie del processo penale” (art. 573 cod. proc. pen.).
Tale conclusione – si è sostenuto – sarebbe imposta dal permanente rilievo dei principi fondamentali disciplinanti l’accertamento della responsabilità penale, ovvero dallo statuto garantistico dell’imputato – alla luce del quale le contrapposte parti attivano rispettivamente le proprie pretese e le proprie difese – non privo di risvolti favorevoli anche per la parte civile (si pensi alla facoltà di chiamare a testimoniare la persona offesa) e, pertanto, sussisterebbe il permanere di un interesse penalistico alla vicenda, sotto il profilo della necessaria applicazione del giusto processo di rilievo costituzionale per come declinato in ambito penale, cosicché l’art. 622 cod. proc. pen. dovrebbe essere interpretato come norma di carattere eccezionale rispetto al principio che, una volta esercitata l’azione civile nel processo penale, la pronuncia sulle pretese civili o risarcitorie tende a permanere in quella sede.
Quella norma, cioè, non può che essere oggetto di interpretazione restrittiva, circoscritta ai soli casi in cui l’accertamento del fatto reato possa dirsi definitivamente concluso dinanzi al giudice penale essendo venuta meno la persistenza dello statuto garantistico dell’imputato rispetto alla vicenda da esaminare.
A fronte di quanto appena esposto, si evidenziava inoltre come a non dissimili argomenti fosse pervenuta la sentenza della Sez. 4, n. 11958 del 13/02/2020, valorizza, in particolare, il diritto, costituzionalmente presidiato, dell’accusato ad ottenere una decisione che, pure in caso di assoluzione irrevocabile, esamini tutti gli aspetti della vicenda anche ai fini dell’accoglimento o del rigetto della domanda civile, secondo i canoni interpretativi e le regole processuali propri del diritto penale, prime tra tutte le regole di rango costituzionale del giusto processo nelle sue diverse declinazioni.
In tal senso è stato rimarcato che: a) la disposizione dell’art. 622 è regola propria del processo penale e, dunque, non può che concorrere a inverare in esso gli strumenti processuali volti a garantire all’imputato il diritto fondamentale a che il processo nel quale egli è chiamato a difendersi – anche sul piano civilistico, allorché sia azionato il meccanismo di cui agli artt. 185 cod. pen. e 74 cod. proc. pen. – sia “giusto”, secondo i parametri di cui all’art. 111 della Costituzione; b) il giusto processo, secondo l’interpretazione del Giudice delle leggi, rappresenta una formula in cui si compendiano i principi che la Costituzione detta in ordine tanto ai caratteri della giurisdizione, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, quanto ai diritti di azione e difesa in giudizio; c) tra le varie declinazioni di tale diritto fondamentale rientra, secondo il diritto vivente, anche il diritto alla rinnovazione della prova in appello nel caso in cui il giudice del gravame del merito ribalti la sentenza assolutoria di primo grado ai soli fini della condanna alle restituzioni e al risarcimento da fatto di reato.
In caso contrario, invece, ove si ritenesse che una assoluzione irrevocabile privi ipso facto l’accusato/danneggiante del diritto all’accertamento del fatto generatore del danno in base alle norme e ai principi propri del processo penale e con le garanzie del giusto processo, nessuna rilevanza avrebbe, nel caso in cui la ragione dell’annullamento riposi proprio nella accertata violazione di essi, la fissazione della regola di giudizio per l’accertamento del fatto illecito da reato nel caso concreto con evidente incoerenza del sistema che, da un lato, impone il rispetto delle norme poste a presidio del diritto fondamentale di che trattasi, dall’altro, ne vanifica il rilievo processuale una volta che l’imputato non sia più chiamato a rispondere penalmente dello stesso fatto illecito per il quale continua, invece, a rispondere civilmente.
In questa prospettiva, l’art. 622 cod. proc. pen. è stato ripensato quale norma funzionale a ottenere il bilanciamento del principio di economia processuale per il quale deve evitarsi il permanere di questioni civili nei ruoli penali, con la necessità, propria del principio del giusto processo, di cristallizzare davanti al giudice penale l’accertamento del fatto illecito da cui origina il danno.
Pertanto, il problema della individuazione, ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen. o dell’art. 623 cod. proc. pen., del giudice al quale va devoluta la cognizione delle questioni civili residue, originariamente correlate ad un fatto-reato, non può prescindere dalla verifica dell’oggetto della cognizione devoluta al giudice penale, chiamato a decidere degli effetti civili di una vicenda in cui l’accusato sia stato assolto in via definitiva.
Un ruolo decisivo, a tal fine, per il Supremo Consesso, gioca proprio la forza “espansiva” dello statuto inderogabile dell’imputato: i suoi effetti si riverberano direttamente sul versante della definitività dell’accertamento del fatto-reato devoluto al giudice penale e tale interpretazione sarebbe del tutto coerente con il testo dell’art. 622 cod. proc. pen.: «l’utilizzo dell’avverbio “solamente” autorizza, infatti, una lettura dell’art. 622 cod. proc. pen. secondo la quale non rientra nell’annullamento “solamente” delle disposizioni… o capi che riguardano l’azione civile un thema decidendum in cui ancora si controverta della sussistenza del fatto-reato secondo le regole proprie del processo penale, allorché le doglianze in tal senso formulate dall’accusato abbiano trovato positivo riscontro nella decisione di annullamento del giudice di legittimità» (Sez.4, n. 11958 del 13/02/2020).
Solo quando tale accertamento sia compiuto, nel rispetto dei canoni di giudizio del giusto processo, potrà quindi, per il Supremo Consesso, effettivamente apprezzarsi quella dissoluzione del collegamento tra la pretesa risarcitoria del privato e l’accertamento del fatto-reato come operato nel processo penale e, dunque, il venir meno di ogni interesse penalistico correlato a quella vicenda che giustifica il trasferimento al giudice civile della cognizione sui residui aspetti civilistici di essa.
Con espressa contrapposizione a quanto affermato dalla Terza Sezione civile con la sentenza n. 15589 del 18 aprile 2019, si è oltre tutto rimarcato che, non è l’intervento del giudicato assolutorio agli effetti penali a far venire meno la ragione dell’attrazione dell’illecito civile nell’ambito delle regole della responsabilità penale, bensì il venir meno di ogni residuo della cognizione del giudice penale in ordine ad un impianto accusatorio rispetto al quale l’accusato/danneggiante ha approntato la sua difesa nel processo penale, perché così previsto dalla legge rilevandosi contestualmente, da un lato, come tale lettura consentirebbe di neutralizzare profili di problematicità che attengono al diverso e dibattuto piano del condizionamento gnoseologico tra giudizio penale e processo civile venendo meno ogni necessità di ribadire la valenza extra penale di principi cardine dell’ordinamento posti a presidio di diritti fondamentali, come quello dell’accusato ad avere un processo giusto anche ai fini dell’accertamento del fatto reato produttivo di danno, dall’altro, come tali conclusioni non si porrebbero in contrasto con il dictum delle Sezioni Unite n. 40109/2013 riguardante il diverso caso in cui il giudice di appello aveva dichiarato la estinzione del reato per prescrizione senza motivare in ordine alla responsabilità dell’imputato ai fini delle statuizioni civili ed il vizio denunciato riguardava la violazione dell’art. 578 cod. proc. pen. dal momento che i giudici di legittimità, in tale decisione, hanno ritenuto che, una volta rilevata e dichiarata l’estinzione del reato per prescrizione, non possa residuare alcuno spazio per ulteriori pronunce del giudice penale e non abbia più ragion d’essere la speciale competenza promiscua (penale e civile) attribuita al giudice penale in conseguenza della costituzione di parte civile, venendo meno quell’interesse penalistico alla vicenda che giustifica il permanere della questione in sede penale.
Ciò posto, veniva da ultimo fatto presente come l’orientamento espresso dalla sentenza n. 11958/2020 avesse trovato integrale conferma nella successiva sentenza della Sez. 4, n. 12174 del 26/02/2020.
Oltre a quanto sin qui enunciato, si rilevava altresì come fossero peculiari gli argomenti sviluppati dalla sentenza della Sez. 6, n. 31921 del 06/06/2019, che pur si iscrive nel panorama della giurisprudenza che vuole limitare l’ambito di applicabilità dell’art. 622 cod. proc. pen..
In particolare, veniva osservato come tale decisione avesse ritenuto che l’accoglimento del ricorso dell’imputato per inosservanza del disposto dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. non comporta, in presenza di reati medio tempore prescritti, il rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. al giudice civile in quanto quest’ultimo non può applicare le regole del processo penale ai fini dell’accertamento del fatto-reato fermo restando che, per un verso, sulla base di tali considerazioni, è stato disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza sia agli effetti penali che a quelli civili, per altro verso, a sostegno di questa conclusione, si era sottolineato che la declaratoria di annullamento senza rinvio consente di non sacrificare in maniera irreparabile le ragioni della parte civile che possono essere fatte valere dall’interessato in un autonomo giudizio nella sua sede propria, quella civile in cui la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione non ha efficacia di giudicato.
Orbene, terminata la disamina di questi orientamenti nomofilattici, le Sezioni Unite ritenevano di confermare il primo e prevalente orientamento per le seguenti ragioni.
Si osservava a tal proposito innanzitutto che l’opzione in favore dell’una o dell’altra soluzione involge, all’evidenza, scelte di sistema attinenti ai rapporti tra azione civile ed azione penale nell’attuale assetto codicistico, ispirato al favor separationis e, al contempo, comporta ricadute immediate sull’ampiezza della tutela riconosciuta all’imputato ed alla parte civile, attese le diverse forme del giudizio di rinvio – a seconda che esso sia disposto in favore del giudice civile ovvero del giudice penale – e le relative regole probatorie ma, in entrambe le ipotesi, resta il rischio della produzione di giudicati contrastanti che appare tuttavia conseguenza dell’attuale assetto processuale giacché il danneggiato ben può ab initio optare per l’autonomo esercizio in sede civile dell’azione diretta ad ottenere il risarcimento dei danni determinati dalla commissione di reato.
In tal caso, invero, la disciplina codicistica prevede l’impermeabilità del giudizio civile agli esiti del processo penale di talché sarà possibile la convivenza di una decisione assolutoria penale con una sentenza di condanna in sede civile (nel rispetto, ovviamente, delle condizioni poste dall’art. 652 cod. proc. pen.) dato che l’assetto generale del nuovo processo penale è ispirato all’idea della tendenziale separazione dei giudizi, penale e civile, essendo prevalente, nel disegno del codice, l’esigenza di speditezza e di sollecita definizione del processo penale rispetto all’interesse del soggetto danneggiato di esperire la propria azione in tale sede rilevandosi al contempo che: 1) tale connotazione di separatezza ed accessorietà dell’azione civile secondo la sede civile o penale in cui è proposta, emerge dal complessivo sistema normativo che ne regola l’esercizio; 2) il giudizio avente ad oggetto le restituzioni o il risarcimento del danno prosegue autonomamente malgrado la contemporanea pendenza del processo penale (art. 75, comma 2, cod. proc. pen.), mentre la sospensione rappresenta l’eccezione che opera solo nei casi previsti dall’art. 75, comma 3, cod. proc. pen..
Oltre a ciò, veniva fatto presente che soprattutto la separatezza dei due giudizi emerge con chiarezza dalla prescrizione di cui all’art. 652, comma 1, cod. proc. pen. che a sua volta esclude l’efficacia di giudicato della sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile o amministrativo di danno ove il danneggiato dal reato abbia esercitato l’azione in sede civile a norma dell’art. 75, comma 2, cod. proc. pen. visto che l’esercizio nel giudizio penale del diritto della parte civile al risarcimento del danno ha un orizzonte più limitato di cui quest’ultima non può non essere consapevole nel momento in cui opta per far valere le sue pretese civilistiche in tale sede, fermo restando che il fulcro del sistema è imperniato sull’art. 538 cod. proc. pen: il giudice penale decide sulla domanda per le restituzioni ed il risarcimento solo se pronuncia condanna dell’imputato, soggetto debitore quanto alle obbligazioni civili (neppure quando emette sentenza di assoluzione dell’imputato, in quanto non imputabile per vizio totale di mente, può pronunciarsi sulle pretese risarcitorie della parte civile).
Alla regola generale dell’art. 538 cod. proc. pen., inoltre, il codice di rito penale prevede la deroga con l’art. 578 cod. proc. pen. secondo il quale nel caso in cui il giudice dell’impugnazione perviene ad una pronuncia dichiarativa di estinzione del reato per amnistia o prescrizione, nondimeno decide sull’impugnazione, ai soli effetti dei capi e delle disposizioni della sentenza che concernono gli interessi civili, quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata, con la sentenza impugnata, la condanna anche generica alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato a favore della parte civile mentre è invece coerente sviluppo del portato dell’art. 538, invece, il disposto dell’art. 576 cod. proc. pen., che riconosce il diritto della parte civile ad una decisione incondizionata sul merito della propria domanda.
Le due norme citate, quindi, disciplinano due situazioni diverse: l’art. 578 mantiene, pur in assenza della impugnazione della parte civile, nonostante la declaratoria di estinzione del reato, la cognizione del giudice penale sulle disposizioni della sentenza impugnata che concernono gli interessi civili; l’art. 576 conferisce al giudice investito della impugnazione della parte civile, il potere di decidere sulla domanda di risarcimento, pur in mancanza di una precedente statuizione sul punto.
Da quanto esposto, discendono, quindi, per il Supremo Consesso, alcune importanti conseguenze: da un lato, l’accessorietà dell’azione civile al processo penale; dall’altro, la tassatività delle eccezioni a questa regola generale contenuta negli artt. 576 e 578 cod. proc. pen. che all’opposto prevedono specifiche ipotesi in cui è conservato lo spazio decisorio del giudice penale, nonché nell’art. 3 cod. proc. pen., con specifico riferimento alle questioni pregiudiziali.
A fronte di quanto appena enunciato, che la pronuncia sulle questioni civili sia ordinariamente correlata alla sentenza di condanna è confermato, del resto, secondo le Sezioni Unite, dalla recente disciplina della declaratoria di non punibilità per la particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen. incontroverso che la declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto non consente di decidere sulla domanda della parte civile poiché si può far luogo alle statuizioni civili nel giudizio penale solo in presenza di una sentenza di condanna o nelle ipotesi previste dall’art. 578 cod. proc. pen., tra le quali non rientra quella di cui all’art. 131-bis cod. pen. fermo restando che, piuttosto, i diritti del danneggiato potranno trovare tutela nell’ambito dell’azione da proporre in sede civile, tanto più che, ai sensi dell’articolo 651-bis cod. proc. pen., la decisione irrevocabile di proscioglimento per particolare tenuità del fatto ha efficacia di giudicato in ordine all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni o il risarcimento del danno (v. Sez. 5, n. 5433 del 18/12/2020, dep. 2021, che, da queste premesse, ha annullato senza rinvio limitatamente alle statuizioni civili la sentenza di appello che, nel riformare quella di primo grado, aveva dichiarato l’imputato non punibile per la particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen., confermando tuttavia le statuizioni civili già disposte in primo grado [condanna generica] e condannando l’imputato stesso alla rifusione delle spese di giudizio in favore della parte civile; v. anche Sez. 5, n. 6347, del 06/12/2016).
Orbene, in ragione della rilevanza dell’art. 622 cod. proc. pen., ai fini della soluzione della questione controversa, appariva per la Corte utile ricordare che l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice civile relativamente ai capi della sentenza che concernono l’azione civile ha precedenti risalenti nel tempo.
Assente nel codice del 1865 (che all’art. 675 prevedeva nel suddetto caso un rinvio al giudice penale), la previsione compare già nel codice Finocchiaro-Aprile del 1913, che all’art. 525, recitava: “Se la Corte di cassazione annulla solamente le disposizioni o i capi della sentenza che concernono l’azione civile, proposta a norma dell’art. 7 (relativo appunto all’azione civile esercitata nel processo penale), rinvia la causa al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche se l’annullamento abbia per oggetto una sentenza della corte di assise”.
Nel codice Rocco del 1930, è stata mantenuta nell’art. 541, che così disponeva:” La Corte di cassazione, se annulla solamente le disposizioni o i capi della sentenza che riguardano l’azione civile proposta a norma dell’art. 23 (relativo all’esercizio dell’azione civile nel processo penale), rinvia la causa quando occorre al giudice civile competente per valore in grado di appello”.
Rispetto al testo del codice Finocchiaro-Aprile, la disposizione differisce solo per l’inciso “quando occorre” (che evidentemente allude, a contrario, ai casi in cui dall’accoglimento del ricorso possa conseguire un annullamento senza rinvio) e per la precisazione, di mera natura formale, che l’annullamento al giudice civile di appello va disposto anche se si tratta di sentenza inappellabile, in luogo della precedente che si riferiva al caso di annullamento di sentenza della Corte di assise, che nel sistema del codice del 1913 era inappellabile.
Nel codice vigente l’art. 622 è così formulato: “Fermi gli effetti penali della sentenza, la Corte di cassazione, se annulla solamente le disposizioni o i capi che riguardano l’azione civile ovvero se accoglie il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato, rinvia quando occorre al giudice civile competente per valore in grado di appello anche se l’annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile”.
La norma differisce da quella corrispondente del codice del 1930 per l’inciso iniziale “Fermi gli effetti penali della sentenza” e per l’inserimento aggiuntivo della locuzione “ovvero se accoglie il ricorso della parte civile contro il proscioglimento dell’imputato”.
Questa norma è del tutto corrispondente, anche formalmente, a quella che figurava nel Progetto preliminare del 1978 (sotto l’art. 586).
In particolare, nella Relazione al progetto preliminare del 1988, si osserva (ripetendo quanto già contenuto nella relazione al precedente progetto del 1978) che l’art. 622 cod. proc. pen., nella parte in cui prevede il rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, quando la Corte di cassazione “fermi gli effetti penali della sentenza… annulla solamente le disposizioni o i capi che riguardano l’azione civile”, riproduce nella sostanza la disposizione di cui all’art. 541 abrogato, che aveva riguardo al caso classico di una sentenza penale di condanna anche agli effetti civili, annullata dalla Corte di cassazione ai soli effetti civili, ad esempio, per un errore nella liquidazione dei danni.
L’art. 622 cod. proc. pen., inoltre, aggiunge il caso di accoglimento del ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato: quando la Corte di Cassazione annulla la sentenza per i soli effetti civili, l’eventuale giudizio di rinvio – fermi restando gli effetti penali – si svolgerà davanti al giudice civile competente in grado di appello, “anche se l’annullamento riguarda una sentenza inappellabile”.
Il giudizio di rinvio innanzi al giudice civile, a sua volta, può aver luogo, in base alla lettera dell’art. 622 cod. proc. pen., non solo a seguito di impugnazione della sentenza penale di condanna e di un suo annullamento ai soli effetti civili ma anche a seguito di impugnazione della sola parte civile della sentenza di proscioglimento, ai sensi dell’art. 576 cod. proc. pen., e di suo annullamento ai soli effetti civili.
Il legislatore si è, pertanto, adeguato al dictum delle Sezioni Unite, in relazione a quanto statuito della sentenza n. 306 del 30/11/1974, che, intervenuta a suo tempo in ordine all’applicabilità dell’art. 541 cod. proc. pen. del 1930, antecedente della vigente norma, risolse il contrasto in ordine alla individuazione del giudice del rinvio in caso di accoglimento da parte della Corte di Cassazione del ricorso proposto dalla parte civile avverso la sentenza di proscioglimento, ampliando l’ambito di applicazione del citato art. 541.
Le Sezioni Unite, sempre nella pronuncia appena citata, hanno inoltre affermato che, una volta emessa la sentenza di legittimità, il rapporto processuale civile inserito nel processo penale è esaurito e deve proseguire nella sua sede naturale; la funzione dell’art. 541 cod. proc. pen. era quella di svincolare la lite civile dal processo penale non appena fossero cessate le ragioni che costringevano la lite civile in quella sede perché prevaleva la pretesa punitiva e tale soluzione veniva ricondotta alla logica del sistema per il quale la competenza del giudice penale a giudicare sulla responsabilità civile può ammettersi esclusivamente solo in quei casi in cui riconosca e dichiari la responsabilità penale, perché solo in questo caso è giustificata l’applicazione dei principi del processo penale con l’intervento del pubblico ministero.
In altri termini, ove nulla vi sia da accertare agli effetti penali, ulteriori interventi del giudice penale sarebbero non giustificati.
Oltre ciò, si riteneva anche utile ricordare, ai fini della risoluzione della presente questione, che la citata sentenza n. 306 del 30/11/1974 intervenne a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 1 del 1970 che ebbe a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 195 cod. proc. pen., per contrasto con l’art. 111, comma 2, Cost. che non consentiva l’impugnazione contro la sentenza di proscioglimento (salvo il capo relativo al pagamento delle spese ed al risarcimento del danno in favore dell’imputato prosciolto), e della sentenza della Corte costituzionale n. 29 del 1972 che dichiarò, invece, l’illegittimità costituzionale dell’art. 23 cod. proc. pen., per contrasto con l’art. 111, comma 2, Cost., nella parte in cui escludeva che il giudice penale potesse decidere sull’azione civile anche quando, concluso il procedimento penale con sentenza di proscioglimento, l’azione della parte civile, a tutela dei suoi interessi, proseguisse in sede di cassazione ed eventuale giudizio di rinvio.
Orbene, così ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale in cui si colloca l’art. 622 cod. proc. pen., a questo punto della disamina, veniva rilevato che la norma si riferisce senza eccezione ai casi di annullamento di capi o disposizioni riguardanti la responsabilità civile.
L’ipotesi all’attenzione delle Sezioni Unite rientra nella prima parte dell’art. 622 cod. proc. pen. avente ad oggetto l’annullamento della condanna al risarcimento del danno pronunciata dal giudice di appello in accoglimento della sola impugnazione della parte civile proposta avverso la sentenza di proscioglimento di primo grado, ai sensi dell’art. 576 cod. proc. pen., per vizio di motivazione derivante dall’omessa rinnovazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva.
Le decisioni che escludono l’applicabilità dell’art. 622 riguardano, però, anche le ipotesi di annullamento unicamente delle statuizioni civili contenute in una sentenza di proscioglimento pronunciata ai sensi dell’art. 578, e delle sole statuizioni civili contenute in una sentenza di condanna, annullata senza rinvio anche agli effetti penali, in conseguenza della sopravvenuta estinzione del reato rilevata in sede di legittimità.
Nell’ambito della ipotesi contemplata dalla seconda parte dell’art. 622 – quella dell’annullamento da parte della Corte di Cassazione che abbia accolto ai soli effetti civili il ricorso della parte civile avverso la sentenza di proscioglimento – è stato peraltro affermato da talune decisioni, rimaste isolate, con riferimento alle norme applicabili, che il giudice di rinvio, individuato nel giudice civile competente per valore in grado di appello, ai fini dell’accertamento del nesso causale, è tenuto ad applicare la regola di giudizi propria del giudizio penale (al di là di ogni ragionevole dubbio) e non quella propria del giudizio civile (più probabile che non) (v. Sez. 4, n. 27045 del 04/02/2016, e Sez. 4, n. 11193 del 10/02/2015).
Orbene, a questo punto della motivazione, per le Sezioni Unite era necessario esaminare se l’interpretazione ivi accreditata potesse reputarsi sospettabile di contrasto con i principi costituzionali, con particolare riferimento a quelli di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. e di ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost..
Si osservava a tal proposito come la Corte Costituzionale avesse dato già risposta sotto molteplici profili al tema della compatibilità costituzionale di precetti di rito che determinino limitazioni o pesi per la parte civile costituita nel processo penale, avendo costantemente affermato, con riferimento al mutato quadro ordinamentale, due principi di rilievo agli odierni fini.
Il primo è che l’inserimento dell’azione civile esercitata nel processo penale, in ragione del suo carattere accessorio e subordinato rispetto all’azione penale, subisce tutte le conseguenze derivanti dalla funzione e struttura del processo penale fermo restando che tale subordinazione si realizza, fra l’altro, con la prevalenza data dal legislatore, nell’interesse pubblico e dell’imputato, all’esigenza di una rapida conclusione del processo penale (v. Corte Cost., sentenze n. 443 del 26/09/90, n. 217 del 2009; ordinanze n. 424 del 1998 e n. 185 del 1994).
E proprio infatti il diverso rilievo degli interessi di cui sono portatori l’imputato e la parte civile che ha fatto ritenere costituzionalmente legittime le differenze di trattamento nel processo penale, non potendosi scorgere alcun profilo di irrazionalità, stante la preminenza delle predette esigenze rispetto a quelle collegate alle risoluzioni delle liti civili (ordinanza n. 115 del 1992) e considerato che si discute di condizionamenti giustificati dal fatto che oggetto dell’azione penale è l’accertamento della responsabilità dell’imputato (sentenza n. 532 del 1995).
In secondo luogo, nella giurisprudenza costituzionale è reiterato il rilievo che l’assetto generale del nuovo processo penale è ispirato all’idea di separazione dei giudizi, penale e civile, essendo prevalente, nel disegno del codice, l’esigenza di speditezza e di sollecita definizione del processo penale rispetto all’interesse del soggetto danneggiato di esperire la propria azione nel processo medesimo (sentenza n. 168 del 2006; in senso analogo, sentenza n. 23 del 2015).
La ragionevolezza di siffatta scelta legislativa si lega ad un sistema processuale, qual è quello vigente, che ha fatto cadere la regola – stabilita dal codice di procedura penale abrogato – della sospensione obbligatoria del processo civile in pendenza del processo penale sul medesimo fatto, sicché non vi sono ostacoli aggiungendosi, da parte della Corte costituzionale, che l’eventuale impossibilità, per il danneggiato, di partecipare al processo penale non incide in modo apprezzabile sul suo diritto di difesa e, prima ancora, sul suo diritto di agire in giudizio, perché resta intatta la possibilità di esercitare l’azione di risarcimento del danno nella sede civile: di modo che ogni separazione dell’azione civile dall’ambito del processo penale non può essere considerata una menomazione o una esclusione del diritto alla tutela giurisdizionale, giacché la configurazione di quest’ultima, in vista delle esigenze proprie del processo penale, è affidata al legislatore (sentenze n. 168 del 2006, n. 433 del 1997 e n. 192 del 1991; ordinanza n. 124 del 1999).
La Corte costituzionale ha altresì affermato principi di rilievo in ordine alla configurazione dell’azione civile esercitata nel processo penale nel codice di rito del 1988 e, quindi, ai fini della soluzione della questione qui controversa, con le due sentenze n. 12 del 2016 e n. 176 del 2019.
In particolare, il Giudice delle leggi, con la sentenza n. 12 del 2016, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 538 cod. proc. pen. nella parte in cui non consente al giudice di decidere sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno, quando pronuncia sentenza di assoluzione dell’imputato in quanto non imputabile per vizio totale di mente, sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost..
La Corte, nel ricostruire la storia degli antecedenti della norma sottoposta a scrutinio, ha ricordato che detto codice delineava un assetto dei rapporti fra giudizio penale giudizio civile improntato ai principi di unitarietà della funzione giurisdizionale e di preminenza della giurisdizione penale.
Il danneggiato poteva esercitare l’azione civile per le restituzioni e il risarcimento del danno cagionato dal reato nel processo penale mediante la costituzione di parte civile, ovvero far valere le proprie pretese davanti al giudice civile. In quest’ultimo caso, tuttavia – salva la facoltà di trasferire a determinate condizioni l’azione civile nel processo penale – il giudizio civile rimaneva obbligatoriamente sospeso sino alla pronuncia della sentenza penale irrevocabile, la quale assumeva efficacia vincolante nel giudizio di danno (artt. 23 e segg. cod. proc. pen. 1930).
In questo contesto, era espressamente previsto, sulla falsariga dell’art. 8 del codice di procedura penale del 1913, che, nell’ipotesi in cui il danneggiato si fosse costituito parte civile, il giudice penale non potesse comunque decidere sull’azione civile ove il processo si fosse chiuso con sentenza di non doversi procedere di assoluzione per qualunque causa (art. 23, comma 1, secondo periodo, cod. proc. pen. 1930) tenuto conto altresì del fatto che, da un lato, la regola de qua era ribadita, in modo speculare, dall’art. 489, comma 1, del codice abrogato, ove si stabiliva che l’imputato potesse essere condannato alle restituzioni e al risarcimento del danno in favore della parte civile solo con la sentenza di condanna, dall’altro, anche il nuovo codice di procedura penale, come sottolineato dalla Corte costituzionale, scartando l’ipotesi prefigurata dal progetto preliminare del 1978 – secondo la quale il giudice penale decideva sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno non soltanto nel caso di condanna ma anche in quello di estinzione del reato, quando risulti già provata l’esistenza del fatto e la sua attribuzione all’imputato – continua a collegare in via esclusiva la decisione sulla domanda della parte civile alla condanna dell’imputato (art. 538, comma 1, cod. proc. pen.).
L’unica eccezione, nell’assetto attuale, è quella stabilita dall’art. 578 del medesimo codice e riguarda il giudizio di impugnazione: quando è stata pronunciata condanna, anche generica, dell’imputato alle restituzioni o al risarcimento dei danni a favore della parte civile, il giudice di appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare estinto il reato per amnistia o per prescrizione, decidono comunque sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili.
Con la sentenza n. 176 del 2019, la Corte costituzionale, nel dichiarare non fondate alcune questioni di legittimità costituzionale dell’art. 576 cod. proc. pen., sollevate in riferimento agli artt. 3 e 111, comma secondo, Cost., ha ribadito che nel processo penale l’azione civile assume carattere accessorio e subordinato rispetto all’azione penale, sicché è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè dalle esigenze di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati ed alla rapida definizione dei processi.
Il dubbio di costituzionalità sottoposto al Giudice delle Leggi verteva sulla disposizione di cui all’art. 576 cod. proc. pen. nella parte in cui essa prevede che la parte civile possa proporre al giudice penale anziché al giudice civile impugnazione ai soli effetti della responsabilità civile contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio.
La Corte Costituzionale ha ritenuto che, posta la connotazione di separatezza e accessorietà dell’azione civile secondo la sede – civile o penale – in cui è proposta, del tutto coerentemente con l’impianto complessivo del regime dell’impugnazione della parte civile il legislatore non ha derogato al criterio per cui, essendo stata la sentenza di primo grado pronunciata da un giudice penale con il rispetto delle regole processual-penalistiche, anche il giudizio dì appello instaurato dalla parte civile è devoluto ad un giudice penale (quello dell’impugnazione) secondo le norme dello stesso codice di rito.
Criterio, questo, ritenuto pienamente razionale, posto che il giudice dell’impugnazione, lungi dall’essere distolto da quella che è la finalità tipica e coessenziale dell’esercizio della sua giurisdizione penale, è innanzitutto chiamato proprio a riesaminare il profilo della rilevanza penale della condotta dell’imputato, confermando o riformando, seppure solo agli effetti civili, la sentenza di proscioglimento pronunciata in primo grado.
E l’art. 622 cod. proc. pen. si pone, secondo la ricostruzione del Giudice delle Leggi, come eccezione al sistema impugnatorio sopra descritto, laddove la disposizione prescrive che la Corte di Cassazione, se annulla solamente le disposizioni o i capi che riguardano l’azione civile ovvero se accoglie il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato, rinvia, quando occorre, al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche se l’annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile.
Nell’affrontare il profilo del giudizio di rinvio, la Corte Costituzionale qualifica l’art. 622 come “deviazione dal paradigma” che trova a sua volta giustificazione nella particolarità della fase processuale collocata all’esito del giudizio di cassazione, dopo i gradi (o l’unico grado) di merito, senza che da ciò possa desumersi l’esigenza di un più ampio ricorso alla giurisdizione civile per definire le pretese restitutorie o risarcitorie della parte civile che abbia sin dall’inizio optato per la giurisdizione penale.
Tale ultimo passaggio è, per le Sezioni Unite, significativo sotto due profili: il giudizio di rinvio si delinea, per volontà del legislatore, quale fase del tutto particolare della vicenda processuale, regolata da criteri diversi rispetto a quelli dettati dallo stesso legislatore per le altre fasi processuali; l’affermazione, per quanto estranea alla ratio decidendi della pronuncia, è in ogni caso preclusiva di un eventuale incidente di costituzionalità dell’art. 622 cod. proc. pen..
Del resto, evidenziava sempre il Supremo Consesso, in questo senso era già orientata, del resto, la giurisprudenza delle Sezioni Unite.
In proposito soccorrevano le Sezioni Unite che, con la sentenza n. 40109/2013, chiamate a dirimere la questione controversa circa la identificazione del giudice del rinvio nel caso di annullamento, su ricorso dell’imputato, della sentenza di appello conseguente all’applicazione di una causa estintiva del reato, priva di motivazione ai fini delle statuizioni civili, hanno affermato, con motivazione addirittura “predittiva” rispetto all’odierno contrasto, che il rinvio va disposto al giudice civile competente per valore in grado di appello, a norma dell’art. 622 cod. proc. pen..
In particolare, a supporto di tale pronuncia, la Corte, con passaggi motivazionali di sicuro rilievo ai fini della presente decisione, ha ritenuto che, una volta rilevata e dichiarata l’estinzione del reato per prescrizione, non possa residuare alcuno spazio per ulteriori pronunce del giudice penale e non abbia più ragion d’essere la speciale competenza promiscua (penale e civile) attribuita al giudice penale in conseguenza della costituzione di parte civile, venendo meno quell’interesse penalistico alla vicenda che giustifica il permanere delle questioni in sede penale.
Le Sezioni Unite, inoltre, in tale occasione, hanno valorizzato, oltre al tenore letterale, la ratio dell’art. 622, da ravvisare nel principio di economia che vieta il permanere del giudizio in sede penale in mancanza di un interesse penalistico alla vicenda.
Con argomentazione di immediato interesse, la richiamata sentenza ha altresì affermato che l’art. 622 cod. proc. pen. non presuppone un definitivo accertamento della responsabilità penale: tale disposizione si limita, infatti, nel suo incipit a contenere l’inciso “fermi gli effetti penali della sentenza”, che non implica un “accertamento” della responsabilità penale, ma ricomprende tra “gli effetti penali della sentenza” anche quelli scaturenti da una declaratoria di estinzione del reato assumendo valenza dirimente, ai fini della risoluzione della presente questione, la condivisibile affermazione, enunciata nella sentenza n. 40109/2013, secondo la quale proprio l’ampia dizione dell’art. 622 “non ammette distinzioni di sorta in relazione alla natura del vizio che inficia le statuizioni civili assunte dal giudice penale, che potranno riguardare sia vizi di motivazione in relazione ai capi o ai punti oggetto del ricorso, sia violazioni di legge, comprese quelle afferenti a norme di natura procedurale, relative al rapporto processuale scaturente dall’azione civile nel processo penale”.
Per contrastare oggi tale (per la Corte) condivisibile assunto non varrebbe considerare che la disciplina che rinvia al giudice civile ogni questione superstite sulla responsabilità civile nascente da reato postulerebbe l’applicazione di regole e forme della procedura civile meno favorevoli all’interesse del danneggiato dal reato rispetto alle omologhe del processo penale.
Secondo la richiamata sentenza n. 40109/2013, di questa conseguenza si assume il rischio il danneggiato [già] al momento dell’esercizio dell’azione civile nel processo penale: con tale esercizio, in sostanza, il danneggiato finisce con l’accettare gli esiti possibili del processo penale, tra i quali, ai fini che interessano, quello in forza del quale, in presenza di cause di estinzione del reato o di improcedibilità dell’azione penale, può venire a mancare un accertamento della responsabilità penale dell’imputato, con la conseguenza che, in caso di translatio judici, l’azione per il risarcimento del danno debba essere riassunta davanti al giudice civile competente per valore in grado di appello.
Le Sezioni Unite n. 40109/2013 chiariscono per di più che la via dell’annullamento con rinvio al giudice penale non può essere considerata percorribile nell’ipotesi in cui il ricorso dell’imputato, come nel caso sottoposto al suo esame, investa solo il capo relativo all’affermazione della responsabilità civile, restando così preclusa, in virtù del principio devolutivo, ogni incidenza sul capo penale, su cui è stata espressa una decisione.
La sentenza n. 40109/2013 – più nello specifico – ha ritenuto irrilevante che la parte civile possa essere “pregiudicata” dall’applicazione, nel giudizio di rinvio, delle regole e delle forme della procedura civile, che potrebbero ritenersi meno favorevoli agli interessi del danneggiato dal reato rispetto a quelle del processo penale, dominato dall’azione pubblica di cui può beneficiare indirettamente il danneggiato stesso, e ciò in quanto tale soggetto, quando sceglie di azionare la pretesa risarcitoria nel processo penale, sa che quest’ultimo può concludersi senza un accertamento delle responsabilità penale dell’imputato per estinzione del reato o improcedibilità e che il processo potrà proseguire dinanzi al giudice civile, ritornando, così, nella sua sede naturale.
Ad analoghe conclusioni la sentenza n. 40109/2013 ritiene debba giungersi anche sul versante delle aspettative dell’imputato giacché il perseguimento dell’interesse ad un pieno accertamento della sua innocenza, anche ai fini della responsabilità civile, può ben essere assicurato dall’opzione di rinuncia alla prescrizione (art. 157, settimo comma, cod. pen.) o all’amnistia (cfr. Corte Cost., sent. n. 175 del 1971).
Inoltre, sempre la medesima sentenza, con argomentazione, per le Sezioni Unite, qui particolarmente calzante nel caso di specie, afferma che le conseguenze non sarebbero diverse anche nel caso in cui l’imputato ritenesse di investire formalmente, di riflesso, anche il capo penale, posto che il ricorso dovrebbe essere ritenuto inammissibile in virtù del principio affermato dalla precedente sentenza Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, secondo cui, in presenza dell’accertamento di una causa di estinzione del reato, non sono deducibili in sede di legittimità vizi di motivazione che investano il merito della responsabilità penale, fatto salvo il caso in cui si deduca la violazione dell’artt. 129, comma 2, cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 13316 del 14/02/2013; Sez. 5, n. 3525 del 15/10/2013).
La citata sentenza n. 35490/2009, infatti, ampiamente richiamata nella motivazione della sentenza n. 4010972013, nel chiarire il rapporto tra il principio di economia processuale e la tutela dell’innocenza dell’imputato, di immediato rilievo anche nella presente questione, esclude che la disciplina dell’art. 622 cod. proc. pen. – che, come si è visto non lede la posizione del danneggiato – si possa risolvere in un pregiudizio per l’imputato.
La linea argomentativa della sentenza n. 35490/2009 si sviluppa sul duplice piano della economia processuale e del diritto alla prova dell’imputato; diritto che, in ipotesi di prescrizione, trova il giusto bilanciamento appunto nella rinuncia alla causa estintiva (rinuncia, da ritenersi anch’essa vero e proprio “diritto“, come precisato in questa sentenza).
La decisione, dopo aver ribadito il principio che, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (già, in questo senso, Sez. U, n. 1021/02 del 28/11/2001), opera il bilanciamento tra le diverse esigenze processuali in ragione della presenza della parte civile e dell’accertamento che questa presenza comporta nel processo penale.
In tale ultimo caso, la disposizione di cui al secondo comma dell’art. 129 cod. proc. pen.- a termine della quale, in presenza di una causa estintiva del reato, l’assoluzione nel merito prevale solo nel caso in cui risulti evidente l’innocenza dell’imputato – deve coordinarsi con la presenza della parte civile e con pronuncia di una condanna in primo grado posto che il giudice dell’appello, nel prendere atto di una causa estintiva del reato verificatasi nelle more del giudizio di secondo grado, è tenuto a pronunciarsi, ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen., sull’azione civile: deve quindi necessariamente compiere una valutazione approfondita dell’acquisito compendio probatorio, senza essere legato ai canoni di economia processuale che impongono la declaratoria della causa di estinzione del reato, quando la prova della innocenza non risulti ictu oculi.
In presenza di amnistia o prescrizione, pertanto, la valutazione approfondita a fini civilistici, che porti all’esclusione della responsabilità penale anche per l’insufficienza della valutazione del compendio probatorio, esplica i suoi effetti sulla decisione penale con la conseguenza che deve essere pronunciata in tal caso la formula assolutoria ed il proscioglimento nel merito prevale sulla causa estintiva, pur nel caso di accertata contraddittorietà o insufficienza della prova.
Il principio di economia processuale, inoltre, non opera, oltre che nei casi sinora illustrati, nell’ipotesi di rinuncia alla prescrizione.
Sotto tale ultimo profilo, una risposta positiva ed inequivocabile, circa la compatibilità di tale diritto con l’indirizzo interpretativo che le Sezioni Unite ritenevano condivisibile nel caso di specie, è riscontrabile nella decisione della Corte costituzionale n. 275 del 1990 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 157 cod. pen., per contrasto con gli artt. 3, comma 1, e 24, comma 2, Cost., nella parte in cui non prevedeva che la prescrizione del reato potesse essere oggetto di rinuncia da parte dell’imputato, valorizzando il carattere inviolabile del diritto di difesa, inteso come diritto al giudizio e, con esso, alla prova.
Ne deriva, per la Suprema Corte, che il sistema così come ricostruito non pregiudica in alcun modo la posizione dell’imputato mentre l’estensione dello statuto di garanzia dell’imputato stesso al di fuori del processo penale, come vorrebbe l’indirizzo qui disatteso, finirebbe, come si è visto, con il contrastare con i principi fondanti il codice di rito, in particolare con quelli su cui sopra ci si è soffermati dell’accessorietà e della separatezza dell’azione civile.
E ancora una volta assume aspetto “predittivo” l’affermazione contenuta nella sentenza n. 40109/2013 secondo la quale “ammettere una riapertura del tema penale solo per effetto della incidenza che su di esso potrebbe in via di mera ipotesi determinare la rivisitazione dell’accertamento sulla responsabilità civile equivarrebbe a stravolgere finalità e meccanismi decisori della giustizia penale in dipendenza da interessi civilistici ancora sub iudice, che devono invece essere isolati e portati all’esame del giudice naturalmente competente ad esaminarli”.
In linea di continuità con i principi espressi dalla sentenza n. 40109/2013, venivano segnalate le sentenze delle Sezioni Unite n. 28911 del 28/03/2019, e n. 46688 del 29/06/2016.
Si osservava in particolare che la prima delle due citate decisioni, nel riconoscere l’ammissibilità dell’appello ex art. 576 cod. proc. pen. della parte civile avverso la sentenza di primo grado che abbia erroneamente dichiarato l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, ha annullato con rinvio ex art. 622 al giudice civile competente per valore in grado di appello.
A supporto della soluzione fornita, le Sezioni Unite hanno valorizzato il contenuto della attuale formulazione dell’art. 576 cod. proc. pen., che – a differenza dell’art. 195 del codice di rito previgente, che riconosceva alla parte civile, ove si trattasse di sentenza impugnabile dal pubblico ministero, il solo potere di proporre l’impugnazione contro le disposizioni della sentenza concernenti i propri interessi civili, in caso di “condanna dell’imputato” – ha ampliato il novero delle sentenze impugnabili, includendo in esse, oltre alla già considerata pronuncia di condanna, anche quella “proscioglimento“, sia pure sempre nell’ambito di una pretesa volta unicamente alla rivisitazione dei soli effetti civili.
La sentenza si soffermava inoltre sulla nozione di sentenza di “proscioglimento” rimarcando come nella stessa non possano non rientrare anche le sentenze di estinzione del reato per prescrizione, come già affermato da Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008.
Del resto, come rilevato in dottrina, la formula «sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio», riferibile sia alle sentenze di non doversi procedere sia alle sentenze di assoluzione, è unicamente intesa ad escludere le sentenze di non luogo a procedere pronunciate nell’udienza preliminare.
Da ciò se ne faceva derivare, dunque, che, se la parte civile può impugnare le sentenze di proscioglimento e se in tale categoria rientra anche la “dichiarazione di estinzione del reato” di cui all’art. 531 cod. proc. pen., la facoltà di impugnazione della parte civile ricomprende necessariamente anche la sentenza di non doversi procedere per estinzione dovuta a una delle cause previste dal codice penale, tra cui la prescrizione del reato ex art. 157 cod. pen.
Le Sez. U, nella decisione n. 40109, tra l’altro, hanno pure affermato l’inammissibilità, per sopravvenuta carenza di interesse, del ricorso per cassazione proposto dalla parte civile, ai soli effetti civili, avverso una sentenza di assoluzione per un reato abrogato e qualificato come illecito civile dal d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, atteso che, in assenza di efficacia vincolante del giudicato penale di assoluzione nel giudizio civile, non è ravvisabile un interesse della parte civile all’ impugnazione finalizzata ad impedirne l’operatività.
Nel percorso argomentativo ivi utilizzato era stato a tal riguardo sottolineato che la soluzione accolta avrebbe trovato, inoltre, fondamento nel principio generale di cui all’art. 538 cod. proc. pen., operante anche nel giudizio di impugnazione in virtù del richiamo effettuato dall’art. 598 cod. proc. pen. che collega in via esclusiva la decisione sulla domanda della parte civile alla formale condanna dell’imputato, non essendo di contro sufficiente una sentenza di proscioglimento, pur se includente l’accertamento del fatto reato tenuto conto altresì del fatto che, sul tema, la Corte ricordava pertinentemente che tale regola non implica una mancanza di tutela del diritto della parte civile nel processo penale ma soltanto, nel caso di assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, l’individuazione, per la parte civile costituita, della successiva competenza del giudice civile.
In un tale quadro ricostruttivo, ad avviso delle Sezioni Unite, l’art. 622 cod. proc. pen. si pone come norma di eccezione che, secondo quanto valorizzato anche dalla Corte costituzionale, legittima il coinvolgimento del giudice civile una volta che sono venute meno le condizioni per radicare la decisione in capo al giudice penale.
La disciplina dell’art. 622 cod. proc. pen. non solo quindi si inquadra perfettamente nel sistema, anche con il conforto delle surrichiamate indicazioni del Giudice delle leggi, ma ha una sua intrinseca coerenza che non è scalfita dalle perplessità avanzate, talora, dai sostenitori della tesi minoritaria disattesa nel caso di specie.
In estrema sintesi, sono stati espressi dubbi sulla portata dell’art. 622, sul rilievo che la norma de qua equipara due ipotesi eterogenee, vale a dire l’annullamento dei capi civili e l’accoglimento del ricorso della parte civile avverso la sentenza di proscioglimento.
È stato sottolineato che la parte civile, ove rinviata innanzi al giudice civile di appello, perderebbe un grado di giurisdizione se non fossero mai state emesse decisioni sui danni, perché l’imputato risultava prosciolto.
Ed è stato sostenuto, altresì, che l’art. 622 individuerebbe la competenza del giudice civile nei limiti in cui l’annullamento si rende necessario per quantificare il risarcimento, sicché non vi sarebbe questione sull’ an, ma solo sul quantum del risarcimento.
Ebbene, per le Sezioni Unite, tali dubbi non sono fondati.
Orbene, per spiegare le ragioni per cui si è giunti a tale conclusione, punto di partenza, per fornire tale risposta, secondo la Suprema Corte, non può che essere l’incipit dell’art. 622, così letteralmente formulato: “fermi gli effetti penali della sentenza”.
Al riguardo, tale formulazione induce a ritenere, per la Corte, che la stessa voglia significare che tutto ciò che riguarda il versante penale del fatto non può più essere posto in discussione e la cognizione delle questioni di natura civilistica passa, quando occorre, al giudice civile competente per valore in grado di appello, come emerge dal testo della norma.
La ratio dell’art. 622 cod. proc. pen. va ravvisata, cioè, in linea con la richiamata autonomia e separatezza dell’azione civile, nella volontà di escludere la perdurante attrazione delle pretese civili nel processo penale una volta che siano definitive le statuizioni di carattere penale.
Orbene, applicando tale principio alla fattispecie de qua, non vi è dubbio per la Corte di legittimità che anche un’assoluzione dell’imputato in primo grado, oggetto di appello ex art. 576 cod. proc. pen. della sola parte civile, ribaltata in appello ai soli fini della responsabilità civile, determina il passaggio in giudicato della sentenza di assoluzione agli effetti penali e non può più essere posta in discussione.
Anche in tale caso, si tratta di effetti penali che restano “fermi” (secondo la formulazione del richiamato art. 622), con conseguente rinvio – in ipotesi di accoglimento del ricorso dell’imputato – al giudice civile competente per valore in grado di appello.
Dunque, se anche l’art. 573 cod. proc. pen. prevede che «l’impugnazione per i soli effetti civili è proposta, trattata e decisa con le forme ordinarie del processo penale», non possono residuare dubbi, senza neppure la necessità di evocare a conforto la citata sentenza delle Sezioni Unite n. 40109/2013, sull’esigenza che il rinvio in conseguenza della pronuncia di annullamento debba essere disposto dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello.
Esaminata tale problematica giuridica, per le Sezioni Unite non restava che da analizzare se l’interpretazione qui accreditata entrasse in tensione con il principio di ragionevole durata del processo.
Per rispondere a tale quesito, si osservava prima di tutto come la Corte costituzionale, nella citata sentenza n. 12 del 2016 e nelle sentenze n. 23 del 2015 e nn. 63 e 56 del 2009, nonché in quella n. 148 del 2005, abbia rilevato che “alla luce dello stesso richiamo al connotato di ragionevolezza, che compare nella formula costituzionale, possono arrecare un vulnus a quel principio solamente le norme che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorrette da alcuna logica esigenza”.
Nel caso in esame, pur dandosi atto che la preclusione della decisione in sede penale sulle questioni civili comporta il procrastinare la pronuncia definitiva sulla domanda risarcitoria del danneggiato, costringendolo ad instaurare un autonomo giudizio civile, veniva rimarcato come tale impostazione trovasse il suo fondamento proprio nel carattere accessorio e subordinato dell’azione civile proposta nell’ambito del processo penale rispetto alle finalità di quest’ultimo, che sono date dal preminente interesse pubblico alla sollecita definizione del processo penale, riportando nella sede naturale le istanze di natura civile fatte valere nei confronti dell’imputato.
La qui patrocinata lettura interpretativa dell’art. 622 cod. proc. pen. è quella stimata più in linea con le garanzie dell’equo processo stabilite dall’art. 6 CEDU e dell’art. 16 della Direttiva 25 ottobre 2012 del Parlamento Europeo e del Consiglio in materia di protezione delle vittime del reato giacché l’applicazione delle regole del processo penale non si giustifica quando residuino solo interessi civili, venendo tale interpretazione a pregiudicare il diritto al risarcimento del danno e la funzione della responsabilità civile alla cui base stanno istanze di solidarietà sociale, che rinviano alla costruzione di un illecito civile, valutabile sulla base di diversi canoni probatori e giudicabile nell’ambito di un sistema giudiziario efficace ed indipendente (v. Corte EDU, Sez. 1, 28 marzo 2020, Barletta e Farnetano c. Italia).
La soluzione interpretativa sopra indicata è, pertanto, per il Supremo Consesso, perfettamente conforme con la giurisprudenza della Corte EDU dalla quale emerge che, in linea di principio, è tutt’altro che incompatibile con il canone convenzionale l’accertamento affidato alla duplice giurisdizione nazionale – civile e penale – che, per un verso, proclami l’assenza di responsabilità penale e, per l’altro, statuisca la condanna risarcitoria visto che, come sopra evidenziato, l’orientamento minoritario, non recepito dalle Sezioni Unite, ritiene che la valutazione dell’ambito applicativo della disposizione di cui all’art. 622 cod. proc. pen, a cui sono certamente sottese esigenze di economia processuale, dovrebbe essere operata alla luce del più generale principio del giusto processo del quale la ragionevole durata costituisce una delle plurime declinazioni, e che il trasferimento della cognizione sulle residue questioni civili alla giurisdizione naturaliter data risponde certamente alla necessità di evitare ulteriori interventi del giudice penale, ma unicamente laddove non residuino spazi per l’accertamento del fatto in tale sede (v. in questo senso, le già citate Sez. 6, 28215/2020) cosicché si è affermato che, in caso di esercizio dell’azione civile in sede penale, sarebbe configurabile un diritto, costituzionalmente presidiato, dell’accusato, a ottenere una decisione che, anche in caso di assoluzione irrevocabile, esamini tutti gli aspetti della vicenda anche ai fini dell’accoglimento o del rigetto della domanda civile, secondo i canoni interpretativi e le regole processuali propri del diritto penale, prima fra tutte le regole, di rango costituzionale, del giusto processo nelle sue diverse declinazioni.
Il dubbio, sollevato dall’orientamento disatteso, per gli Ermellini, è che l’indirizzo opposto possa porsi in conflitto con le norme sovranazionali ed in particolare con le direttive dell’Unione Europea in tema di protezione della vittima del reato non ha fondamento.
La Corte Costituzionale, già nella sentenza n. 12 del 2016, non ha mancato di fornire argomenti in senso contrario che vanno pienamente recepiti.
La già richiamata direttiva 25 ottobre 2012, n. 2012/29/UE, del Parlamento europeo e del Consiglio, nell’ istituire norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime del reato, all’art. 16, par. 1, precisa che l’obbligo degli Stati membri di garantire alla vittima il diritto di ottenere una decisione in merito al risarcimento da parte dell’autore del reato, nell’ambito del procedimento penale, entro un ragionevole lasso di tempo, risulta subordinato alla condizione che il diritto nazionale non preveda che tale decisione sia adottata nell’ambito di un procedimento giudiziario: ciò che, per l’appunto, è previsto nell’ordinamento nazionale vigente.
Questo implica, tra l’altro, che il procedimento entro cui si inserisce l’azione civile sia concluso entro un termine ragionevole (v. Corte EDU, Sez. 5, 17 marzo 2020, Vasilea c. Bulgaria), tra parti (“attore e convenuto” anziché “imputato e parte civile“) in posizione di parità tra loro, e ciò, laddove si riesca a perseguire anche il risultato del rispetto della ragionevole durata, viene senz’altro a soddisfare le esigenze del giusto processo tratteggiate nell’art. 111 Cost., anche con riferimento al processo civile (v., in particolare, i commi 1 e 2) fermo restando che sul punto non è inutile rimarcare che l’art. 111 Cost. riguarda, negli enunciati generali, il processo sia civile che penale, e solo alcune sue parti sono dedicate specificamente a quest’ultimo (cfr. i commi 3, 4 e 5).
Del resto, evidenziavano sempre le Sezioni Unite, neanche la giurisprudenza elaborata dalla Corte EDU, come evidenziato dalla citata sentenza n. 40109/2013, «lascia ipotizzare scenari che chiamino in causa la violazione dell’art. 117 Cost. quale parametro interposto, dovendosi considerare che, sebbene l’art. 6, par. 1, della Convenzione sia stato interpretato reiteratamente come fonte di” un diritto di carattere civile” della vittima del reato a vedersi riconosciuta la possibilità di intervenire nel processo penale per difendere i propri interessi tramite la costituzione di parte civile (cfr. fra le molte, Corte EDU, 20/03/2009, Gorou c. Grecia), tuttavia, con riferimento al caso della mancata valutazione della domanda della parte civile per essersi il processo penale chiuso con provvedimento diverso dalla condanna dell’imputato, la Corte EDU non ha individuato violazione di un diritto di accesso ad un tribunale: violazione che, invece, viene ritenuta ravvisabile solo quando la vittima del reato non disponga di rimedi alternativi, concreti ed efficaci per far valere le sue pretese (Corte EDU, Sez.3, 26/06/2013, Associazione vittime del sistema S.C. Ronnpetro S.A. e S.C. Geonnin S.A e altri contro Romania)».
E, nel caso in esame, come sopra indicato, l’ordinamento italiano prevede la possibilità di rivolgersi al giudice civile.
Terminata questa disamina, veniva altresì osservato come nella stessa prospettiva si ponesse anche la più recente giurisprudenza della Corte EDU essendo emblematica sul punto la sentenza della Corte EDU, Sez. 1, 10 novembre 2020, Papageorgiou c. Grecia, secondo cui la decisione assolutoria (nella specie, per il reato di guida in stato di ebbrezza) non può automaticamente esonerare il ricorrente da ogni forma di responsabilità civile, posto che il rispetto della decisione assolutoria non preclude l’accertamento della responsabilità civile derivante dagli stessi fatti, valutata in base ad un onere probatorio meno stringente.
Di conseguenza, alla luce di tale principio, il ricorso per Cassazione proposto dalla parte avverso la condanna risarcitoria in sede civile, basato sulla violazione della presunzione di innocenza, è stato rigettato in quanto è stato ritenuto che l’art. 6, comma 2, della CEDU non abbia rilievo nel caso di giudizio civile instaurato a seguito di proscioglimento in sede penale non essendo il giudice civile vincolato alla decisione assunta in sede penale.
Sotto il profilo della compatibilità della soluzione con la garanzia convenzionale della effettività della tutela dei diritti soggettivi, assicurata anche dalle regole di giudizio e probatorie civilistiche, assumeva per il Supremo Consesso rilievo, ai fini della presente decisione, anche la sentenza della Corte EDU, Sez. 3, 19 gennaio 2021, Timofeyev e Postupkin c. Russia, relativa all’applicazione di misure di sorveglianza amministrative disposte dal giudice civile successivamente all’esecuzione della pena inflitta per gravi reati, anch’esse soggette alle garanzie di cui all’art. 6, comma 1, (durata ragionevole, giudice imparziale, pubblicità della udienza, contraddittorio inteso come parità delle armi) fermo restando che nella citata pronuncia non si rinviene, invece, alcuna richiesta di applicare, al giudizio civile, le garanzie di cui all’art. 6, comma 2, vertendosi in tema di garanzie espressamente previste per il solo processo penale (così è per il contraddittorio nella formazione della prova e cioè il diritto ad interrogare il teste a carico, nel cui ambito rientra la necessità di rinnovazione della istruttoria dibattimentale in caso di ribaltamento della assoluzione).
Tirando le fila del ragionamento, la Corte di legittimità riteneva, in tale arresto giurisprudenziale, che la definitività e l’intangibilità della decisione adottata in ordine alla responsabilità penale dell’imputato, determinate dalla pronuncia con cui la Corte di Cassazione annulla le sole disposizioni o i soli capi che riguardano l’azione civile (promossa in seno al processo penale), ovvero accoglie il ricorso della parte civile avverso il proscioglimento dell’imputato, provoca il definitivo dissolvimento delle ragioni che avevano originariamente giustificato, a seguito della costituzione della parte civile nel procedimento penale, le deroghe alle modalità di istruzione e di giudizio dell’azione civile, imponendone i condizionamenti del processo penale, funzionali alle esigenze di speditezza del procedimento.
In particolare, con l’esaurimento della fase penale, essendo ormai intervenuto un giudicato agli effetti penali ed essendo venuta meno la ragione stessa dell’attrazione dell’illecito civile nell’ambito della competenza del giudice penale, risulta coerente con l’assetto normativo interdisciplinare sopra descritto che la domanda risarcitoria venga esaminata secondo le regole dell’illecito aquiliano dirette alla individuazione del soggetto responsabile ai fini civili su cui far gravare le conseguenze risarcitorie del danno verificatosi nella sfera della vittima.
L’annullamento e il conseguente rinvio al giudice civile competente comporta, quindi, in caso di riassunzione, l’assunzione della veste di attore-danneggiato della parte civile e di convenuto-danneggiante da parte di colui che nel processo penale rivestiva il ruolo di imputato.
Sul punto, non veniva reputato condivisibile l’argomento sviluppato dall’orientamento minoritario sull’effetto pregiudizievole derivante agli interessi della parte civile dal dover espletare dinanzi al giudice civile il proprio onere probatorio come se l’istruttoria già compiuta nella fase penale fosse stata azzerata atteso che la giurisprudenza civile di legittimità riconosce al giudice civile, adito per il risarcimento del danno, l’onere del riesame dei fatti emersi nel procedimento penale, pure conclusosi con sentenza assolutoria rilevando in tal senso la sentenza delle Sezioni Unite civili, n. 1768 del 26/01/2011, che, pur dando atto che le sentenze di non doversi procedere perché il reato è estinto per prescrizione o per amnistia non hanno alcuna efficacia extrapenale, hanno ammesso il potere del giudice civile, che pure deve interamente rivalutare il fatto in contestazione, di tener conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale.
Nello stesso senso, si è collocata la Sez. 3 civ., con la sentenza n. 1665 del 29/01/2016, che, pur rimarcando, in generale, che il principio di autonomia e separazione dei giudizi penale e civile – operante al di fuori delle ipotesi di cui agli artt. 651, 651-bis e 654 cod. proc. civ.- esclude l’obbligo per il giudice di esaminare e valutare le prove e le risultanze acquisite nel processo penale, tuttavia sottolinea che ciò non giustifica, da parte di questi, la totale omessa considerazione delle argomentazioni difensive che si fondino sulle prove assunte nel processo penale o sulla motivazione della sentenza penale attinente alla stessa vicenda oggetto di cognizione del processo civile.
Esaurita la disamina anche di tale questione giuridica, ad avviso delle Sezioni Unite, rimaneva da esaminare la natura del giudizio di rinvio secondo le indicazioni dell’art. 622 cod. proc. pen..
Ebbene, si prendeva innanzitutto atto del contrasto sorto all’interno della Terza Sezione civile della Cassazione sul tema delle regole di giudizio applicabili in sede di rinvio del processo penale innanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello.
In particolare, nella giurisprudenza civile della Corte – precedente al 2019 – il giudizio di rinvio innanzi al giudice civile era principalmente configurato come un giudizio di rinvio in senso tecnico, del tutto riconducibile alla normale disciplina del giudizio di rinvio, quale espressa dagli artt. 392 e ss., cod. proc. civ., così che la fase successiva all’annullamento ex art. 622 cod. proc. pen. era ritenuta la prosecuzione di quello svolto in sede penale (Sez. 3 civ., n. 32929 del 10/12/2018; n. 17457 del 09/08/2007) in guisa tale che, coerentemente con tale configurazione del giudizio di rinvio, la Terza Sezione civile della Suprema Corte ha affermato che «i limiti e l’oggetto del giudizio di rinvio sono fissati esclusivamente dalla sentenza di cassazione in sede penale» (in motivazione della sentenza 32929/18, sono richiamate in tal senso, oltre la già citata sentenza 17457/2007, Sez. 3 civ., n. 5800 del 28/06/1997).
Invece, successivamente, a partire dal 2019, sono sopravvenute sul tema numerose pronunce, tutte della Terza Sezione civile (oltre alle già citate n. 15859/2019; n. 16916/2019; nn. 22516, 22518, 22519, 22520, tutte del 10/09/2019; tra le più recenti, n. 517 del 15/01/2020, Rv. 655811), le quali, discostandosi dal precedente orientamento della stessa Sezione, hanno affermato che il giudizio di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen. deve assecondare le regole processuali, sostanziali e probatorie proprie – non già del giudizio penale, come sino allora prevalentemente ritenuto – ma del giudizio civile.
Al fondamento di tale radicale overruling, veniva osservato come fosse stata posta l’affermazione che il giudizio in questione non sia assimilabile al giudizio di rinvio in senso tecnico e quindi non rappresenti, nella fase rescissoria, la prosecuzione del procedimento di impugnazione svoltosi innanzi alla Cassazione penale, sia pure limitato nell’oggetto alla sola statuizione sugli interessi civili.
In particolare, secondo tale impostazione, si tratterebbe di una fase del tutto svincolata ed autonoma dalla precedente (ormai definita agli effetti penali in forza di una decisione irrevocabile) in cui la translatio judicii e la diversa regiudicanda comporterebbero un accertamento dei fatti rilevanti (ai soli fini risarcitori) regolato dai canoni sostanziali e processuali propri del giudizio civile e quindi affrancato dai principi di diritto eventualmente posti dalla sentenza di annullamento, destinati a rimanere inefficaci, deponendo in tal senso, secondo la giurisprudenza civile citata, la necessità della tempestiva riassunzione del giudizio ex art. 393 cod. proc. pen., in mancanza della quale l’intero processo si estingue.
L’orientamento in esame (anticipato dalla decisione n. 9358 del 12/04/2017) ha inoltre rivendicato, in capo al giudice civile di rinvio, un potere di autonoma valutazione dei fatti accertati nel processo penale mediante l’applicazione dei criteri civilistici della prova: devono cioè trovare applicazione, in questo giudizio, esclusivamente le regole processuali e probatorie civili dovendosi escludere che la Corte di Cassazione penale abbia il potere di stabilire quali siano le regole e le forme da applicare a tale giudizio (v. per l’approfondimento sul tema Sez. 3 civ., n. 15859 del 12/06/2019).
In tale prospettiva è stato altresì rimarcato che, riassunto il processo nella sede civile, il giudice civile non è vincolato nella ricostruzione del fatto a quanto accertato dal giudice penale, non essendo in alcun modo ipotizzabile un vincolo come quello che consegue all’enunciazione di un principio di diritto ai sensi dell’art. 384, comma 2, cod. proc. civ., con conseguente libertà del giudice civile nella ricostruzione dei fatti e nella loro valutazione e applicabilità del criterio civilistico del “più probabile che non” nella valutazione del nesso causale, in luogo di quello tipico del processo penale dell’alta probabilità logica.
È stata, pertanto, esclusa la natura “chiusa” del giudizio di rinvio di cui all’art. 622 cod. proc. pen., sostenendosi l’ammissibilità dell’allegazione, in detta sede, di fatti costitutivi dell’illecito civile diversi da quelli integranti la fattispecie di reato dedotta nel processo penale e posti a base della costituzione di parte civile, e ciò in ragione del “maggior raggio di azione” dell’illecito ex art. 2043 cod. civ. e della sua “struttura atipica” che consente la valorizzazione dell’elemento soggettivo della colpa anche a fronte della imputazione, nella pregressa fase penale, di una condotta unicamente configurabile quale dolosa (v. Sez. 3, n. 16916 del 25/06/2019).
Il nuovo orientamento giurisprudenziale, per di più, trae dall’autonomia del giudizio civile le seguenti ulteriori conseguenze: la libera valutazione delle prove acquisite nella fase penale; l’adozione del canone probatorio del “più che probabile che non” e non quello dell’alto grado di probabilità logica e di credibilità razionale, in tema di nesso causale; la non applicazione dello statuto della prova penale, con conseguente impossibilità di fondare la ricostruzione del fatto dannoso sulla testimonianza della parte civile, preclusa in ambito civilistico dall’art. 246 cod. proc. civ.; l’impraticabilità in sede di rinvio della rinnovazione della prova dichiarativa ai sensi dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., connessa alla regola di giudizio – prerogativa qualificante del processo penale – della prova necessariamente certa, dimostrativa “al di là di ogni ragionevole dubbio” della colpevolezza dell’imputato.
Orbene, a fronte di queste inequivoche prese di posizione, si è coevamente venuta a formare una giurisprudenza delle Sezioni penali volta a puntualizzare i compiti e i doveri del giudice civile con impostazione innovativa rispetto al passato giacché, in precedenza, l’annullamento e il rinvio al giudice civile non si accompagnavano a indicazioni specifiche.
Così va evidenziato quell’orientamento che ha ritenuto applicabile in sede di giudizio civile di rinvio le regole processuali e probatorie del giudizio penale, enunciando il principio di diritto al quale il giudice civile del rinvio era tenuto ad uniformarsi (v. in tal senso, Sez. 4, n. 5901 del 18/01/2019; Sez. 4, n. 412 del 16/11/2018; Sez. 4, n. 5998 del 19/01/2018), ma, accanto a questo, è venuto a formarsi un più radicale orientamento – che ha originato il presente contrasto – laddove si è adottata una interpretazione restrittiva dell’art. 622 cod. proc. pen. e si è finito con il patrocinare il rinvio al giudice penale, in modo da risolvere ab imis la diversa lettura interpretativa fornita dalle Sezioni civili (v., in tal senso, tra le altre, le già citate, Sez. 3, n. 14229 del 2020; Sez. 4, n. 11958 del 2020; Sez. 2, n. 9542 del 2020; Sez. 6, n. 28215 del 2020) ed è su questo orientamento, involgente l’interpretazione corretta dell’articolo 622 cod. proc. pen., che le Sezioni Unite penali sono state chiamate ad intervenire essendo fin troppo evidente che gli spazi per un intervento solutore di queste Sezioni Unite non possa che riguardare [proprio e solo] l’ambito di applicabilità dell’art. 622 cod. proc. pen., e l’ammissibilità dell’interpretazione restrittiva fornita dal richiamato, minoritario orientamento delle Sezioni penali.
Per quanto detto supra, dunque, le Sezioni Unite stimavano non potersi condividere la “risposta” che ha voluto fornire il già citato orientamento minoritario che, attraverso l’interpretazione restrittiva dell’art. 622 cod. proc. pen., ha inteso doversi individuare il giudice penale quale giudice del rinvio anche per soddisfare la ritenuta esigenza di proseguire il giudizio applicando le regole proprie del giudizio penale visto si tratta di una tesi che non trova supporto nel sistema costruito dall’art. 622 cod. proc. pen., nei termini sopra illustrati, ed anzi confliggeva con la stessa natura dell’azione civile, come costruita nell’intero sistema del codice di rito penale.
Le Sezioni Unite n. 40109/2013, come sopra evidenziato, hanno viceversa valorizzato l’argomento secondo cui la ratio della scelta del rinvio al giudice civile, operata dall’art. 622 cod. proc. pen., è da ravvisarsi nel principio di economia che vieta il permanere del giudizio in sede penale in mancanza di un interesse penalistico alla vicenda ed hanno ritenuto che non possa condurre a diversa conclusione neppure la considerazione che la disciplina che rinvia al giudice civile ogni questione superstite sulla responsabilità civile nascente da reato renda inevitabile l’applicazione delle regole e delle forme della procedura civile mentre questa decisione non ha invece affrontato il tema – non richiesto dalla risoluzione della questione – della natura del giudizio di rinvio (prosecuzione del processo penale, ai soli effetti civili, ovvero un giudizio autonomo) e quello connesso della questione della configurabilità o meno di un vincolo del giudice del rinvio rispetto alle statuizioni contenute nella sentenza della Corte di cassazione penale.
Alla luce di quanto sopra esposto, quindi, veniva affermato che il giudizio avanti al giudice civile designato ex art. 622 cod. proc. pen. è da considerarsi come un giudizio civile disciplinato dagli artt. 392 e ss cod. proc. civ. a seguito di riassunzione dopo l’annullamento della Corte di Cassazione ai soli effetti civili deponendo in tal senso la rubrica e il testo del citato art. 622 che utilizzano il verbo “rinvia” con riferimento all’effetto della statuizione penale, così evocando l’istituto del “rinvio” in sede civile quale disciplinato dagli artt. 392 e ss cod. proc. civ.
La conferma della ritenuta autonomia del giudizio civile di “rinvio“, sia in senso strutturale sia in senso funzionale, ad avviso delle Sezioni Unite, si rinviene nella terminologia adottata in alcune decisioni della Cassazione ove si parla di translatio (v. Sez. 3 civ., n. 15182 del 20/06/2017; Sez. 3 civ., n. 22570 25/09/2018) ovvero di “separazione del rapporto penale da quello civile” (Sez. 3, n. 11936 del 22/05/2006) fermo restando che ulteriore conferma in questo senso, per la Suprema Corte, può essere tratta dalla lettera dell’art. 623 cod. proc. pen, che espressamente si riferisce “all’annullamento con rinvio” disciplinando le ipotesi in cui il giudice di rinvio dovrà uniformarsi ex art. 627 cod. proc. pen. alle questioni di diritto decise dalla Corte di Cassazione.
Invece, proprio in ragione della scissione determinatasi a seguito della valutazione compiuta dal giudice penale, non può ipotizzarsi per la Corte il potere della Corte di Cassazione penale di enunciare il principio di diritto al quale il giudice civile del rinvio deve uniformarsi deponendo in tal senso lo stesso tenore letterale dell’art. 393 cod. proc. civ. – secondo il quale alla ipotesi di mancata, tempestiva riassunzione del giudizio consegue l’estinzione dell’intero processo – che avalla la tesi della fase autonoma del giudizio civile di “rinvio” a seguito di annullamento da parte della Corte di Cassazione penale.
Dall’affermata natura del giudizio conseguente alla pronuncia di annullamento come giudizio riconducibile alla disciplina del giudizio ex art. 392 cod. proc. civ., se ne faceva conseguire che la Corte di Cassazione penale non ha il potere di enunciare il principio di diritto al quale il giudice civile dovrà uniformarsi in quanto, verificatosi un giudicato agli effetti penali, appare ragionevole che all’illecito civile tornino ad applicarsi le regole sue proprie, funzionali all’individuazione del soggetto su cui, secondo il sistema del diritto civile, far gravare il costo di un danno e non la sanzione penale.
La configurazione del giudizio conseguente all’annullamento in sede penale ai soli effetti civili (art. 622) come giudizio autonomo rispetto a quello svoltosi in sede penale consente a sua volta alle parti di introdurlo nelle forme civilistiche previste dall’art. 392 cod. proc. civ. nonché di allegare fatti costitutivi del diritto al risarcimento del danno diversi da quelli che integravano la fattispecie di reato in ordine alla quale si è svolto il processo penale, e ciò giustifica anche l’emendatio della domanda ai fini della prospettazione degli elementi costitutivi dell’illecito civile, sempre che la domanda così integrata risulti connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, ma non la mutatio della domanda, essendo la sola emendatio quella che garantisce al danneggiato di “espandere” la domanda risarcitoria allegando elementi rientranti nella fattispecie di responsabilità prevista dall’art. 2043 cod. civ., nonché consente al danneggiante di evitare di subire la perdita di un grado di giudizio in conseguenza della scelta della controparte.
La natura autonoma del giudizio civile, d’altronde, comporta conseguenze anche con riferimento all’individuazione delle regole processuali applicabili in tema di nesso causale e di prove in ragione della diversa funzione della responsabilità civile e della responsabilità penale e dei diversi valori in gioco nei due sistemi di responsabilità.
Il giudizio penale mette al centro dell’osservazione la figura dell’imputato e il suo status libertatis, quello civile il danneggiato e le sue posizioni soggettive giuridicamente protette.
Le Sezioni Unite civili, con la sentenza n. 576 del 11/01/2008, hanno affermato che il nesso di causa nella responsabilità civile trae origine dallo stesso fondamento normativo dettato dagli artt. 40 e 41 cod. pen. per la responsabilità penale, secondo il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, attenuato dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base della quale, all’interno della serie causale, occorre dare rilievo solo a quegli eventi che non appaiano, ad una valutazione ex ante, del tutto inverosimili; tuttavia il nesso causale si differenzia quanto al regime probatorio applicabile in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi, vigendo, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, la regola della preponderanza dell’evidenza “del più probabile che non”, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”.
Le questioni attinenti al diritto di difesa delle parti, dal canto loro, possono essere risolte alla luce dei principi che governano l’istruzione probatoria nel processo civile e, cioè, il principio di disponibilità delle prove (art. 115 cod. proc. civ.) e quello del libero convincimento (art. 116 cod. proc. civ.) che giustificano il potere del giudice civile di apprezzare le prove, anche cd. atipiche, ovvero tutti quegli strumenti probatori che, seppure non tipizzati nell’elencazione codicistica, siano astrattamente idonei a concorrere all’accertamento dei fatti di causa.
Il mutamento delle regole probatorie a seguito dell’annullamento ex art. 622 cod. proc. pen., contrariamente a quanto sostenuto dall’orientamento minoritario, non pone inoltre, per il Supremo Consesso, problemi sotto il profilo delle esigenze difensive delle parti, danneggiato e danneggiante, che fino a quel momento hanno scelto e commisurato la loro attività difensiva a regole probatorie diverse.
La già richiamata sentenza Sez. U, n. 40109/2013, ha infatti affermato che «il diritto della parte civile già costituita nel processo penale che si conclude con l’annullamento dei capi della sentenza concernenti i suoi interessi non rimane, peraltro, menomato al punto da dovere – quella- espletare il proprio onere probatorio come se l’istruttoria già compiuta in sede penale fosse rimasta totalmente azzerata» così come la giurisprudenza civile di legittimità riconosce al giudice civile, adito per il risarcimento del danno, l’onere del riesame dei fatti emersi nel procedimento penale, pure conclusosi con sentenza assolutoria.
Oltre le già citate (al paragrafo 15) Sez. U civ., n. 1768/2011 e Sez. 3 civ., n. 1665/2016, a questo punto della disamina, è opportuno ricordare, per le Sezioni Unite, l’orientamento ormai consolidato in sede civile secondo il quale, alla luce del diritto vivente, mancando una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova, il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti se ed in quanto non smentite dal raffronto critico – riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato – con le altre risultanze del processo; quindi, la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, con la conseguenza che è insindacabile, in sede di legittimità, il” peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto ad un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo giudice (Sez. 3, n. 19430 del 30/06/2016; Sez. 3, n. 11511 del 23/5/2014; Sez. 3, n. 13054 del 10/06/2014).
In conclusione, l’art. 622 cod. proc. pen. permette la restituzione della cognizione dell’azione civile al giudice naturale, confermando che il fatto integra illecito civile, così preservando le peculiarità che distinguono la responsabilità civile rispetto a quella penale rilevandosi al contempo che tale conclusione non comporta la violazione delle regole del giusto processo e dello statuto dell’imputato – convenuto danneggiante – il quale, con pienezza di diritti e nel rispetto del contraddittorio, può prospettare le sue tesi dinanzi al giudice civile tenuto conto altresì del fatto che, sotto tale ultimo profilo, va sottolineato che la regola del contraddittorio (art. 2697 cod. civ.) permea il giudizio civile al pari di quello penale.
Oltre a ciò, si riteneva come non potesse neanche ravvisarsi la violazione della ragionevole durata del processo in quanto la parte civile ha la possibilità di far valere l’azione civile, senza la necessità di instaurare ex novo un giudizio risarcitorio e il giudice civile dovrà tener conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale così come si affermava come non fosse superfluo rimarcare che le esigenze del giusto processo tratteggiate nell’art. 111 Cost. valgono anche con riferimento al processo civile (v., in particolare i commi 1 e 2).
Con specifico riguardo all’asserita violazione del principio di ragionevole durata del processo, veniva osservato come la Corte Costituzionale, nella già citata sentenza n. 12 del 2016 e nelle sentenze n. 23 del 2015 e nn. 63 e 56 del 2009, abbia rilevato che «alla luce dello stesso richiamo al connotato di ragionevolezza, che compare nella formula costituzionale, possono arrecare un vulnus a quel principio solo le norme che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorrette da alcuna logica esigenza» fermo restando che il Giudice delle Leggi ha anche valutato, come sopra evidenziato, la insussistenza di profili di irrazionalità nella impostazione codicistica in ragione della preminenza delle esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi rispetto a quelle collegate alla risoluzione delle liti sicché una volta che il danneggiato, previa valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi insiti nella opzione concessagli, scelga di esercitare l’azione civile nel processo penale anziché nella sede propria, non gli è dato sfuggire agli effetti che da tale inserimento conseguono (sent. n. 94 del 1996).
La ragionevolezza di siffatta scelta legislativa si legava ad un sistema processuale, qual è quello vigente, che ha fatto cadere la regola – stabilita dal codice di procedura penale abrogato – della sospensione obbligatoria del processo civile in pendenza del processo penale sul medesimo fatto sicché, per gli Ermellini, non vi sono ostacoli processuali o condizionamenti alla attivazione della pretesa risarcitoria nella sede propria tenuto conto altresì del fatto come fosse stato aggiunto, da parte della Corte costituzionale, che la eventuale impossibilità, per il danneggiato, di vedere esaminata la propria domanda di risarcimento non incide neppure in modo apprezzabile sul diritto di difesa e, prima ancora, sul diritto di agire in giudizio, poiché resta intatta la possibilità di esercitare l’azione di risarcimento del danno nella sede civile.
I principi sopra richiamati valevano allora, per la Suprema Corte, anche per il caso in esame (quello della sussistenza o meno dell’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa), paradigmatico della diversa lettura interpretativa dell’ambito dei poteri-doveri decisori del giudice civile in sede di rinvio con specifico riguardo ai profili della istruzione probatoria (v. Sez. 3 civ., n. 19430 del 30/09/2016, secondo la quale il principio affermato dalla Corte EDU sull’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ogni qualvolta si intenda riformare la sentenza di primo grado ha rilievo solo in ambito penalistico).
In realtà, evocare il principio del giusto processo e concludere nel senso che il rinvio va fatto al giudice penale, perché tenuto alla rinnovazione della prova dichiarativa, non era per la Corte corretto perché si risolveva in una forzatura interpretativa nella individuazione del giudice competente che non trovava supporto nel sistema processuale.
Le Sezioni Unite, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, di conseguenza, enunciavano il seguente principio di diritto: “In caso di annullamento ai soli effetti civili, da parte della Corte di Cassazione, per la mancata rinnovazione in appello di prova dichiarativa ritenuta decisiva, della sentenza che in accoglimento dell’appello della parte civile avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, abbia condannato l’imputato al risarcimento del danno, il rinvio per il nuovo giudizio va disposto dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello“.
Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante in quanto con essa è stato risolto un contrasto giurisprudenziale afferente la seguente questione giuridica: “Se in caso di annullamento, ai soli effetti civili, della sentenza di condanna pronunciata in appello senza previa rinnovazione della prova dichiarativa decisiva, a seguito di gravame della sola parte civile contro la sentenza di assoluzione di primo grado, il rinvio debba essere disposto al giudice civile competente per valore in grado di appello o al giudice penale”.
Orbene, le Sezioni Unite, con una motivazione molto articolata in quanto il frutto di un’attenta lettura della giurisprudenza di legittimità ordinaria e costituzionale, nonché quella sovradomestica della Corte EDU, adottata in subiecta materia, ha composto tale contrasto affermando il principio di diritto secondo cui, in caso di annullamento ai soli effetti civili, da parte della Corte di Cassazione, per la mancata rinnovazione in appello di prova dichiarativa ritenuta decisiva, della sentenza che in accoglimento dell’appello della parte civile avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, abbia condannato l’imputato al risarcimento del danno, il rinvio per il nuovo giudizio va disposto dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello.
In tale pronuncia, è altresì chiarito che la configurazione del giudizio conseguente all’annullamento in sede penale ai soli effetti civili (art. 622) come giudizio autonomo rispetto a quello svoltosi in sede penale consente a sua volta alle parti di introdurlo nelle forme civilistiche previste dall’art. 392 cod. proc. civ. nonché di allegare fatti costitutivi del diritto al risarcimento del danno diversi da quelli che integravano la fattispecie di reato in ordine alla quale si è svolto il processo penale, e ciò giustifica anche l’emendatio della domanda ai fini della prospettazione degli elementi costitutivi dell’illecito civile, sempre che la domanda così integrata risulti connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, ma non la mutatio della domanda.
Oltre a ciò, si afferma che sempre la natura autonoma del giudizio civile, d’altronde, comporta conseguenze anche con riferimento all’individuazione delle regole processuali applicabili in tema di nesso causale e di prove in ragione della diversa funzione della responsabilità civile e della responsabilità penale e dei diversi valori in gioco nei due sistemi di responsabilità in guisa tale che l’art. 622 cod. proc. pen., nel permettere la restituzione della cognizione dell’azione civile al giudice naturale, conferma che il fatto integra illecito civile così preservando le peculiarità che distinguono la responsabilità civile rispetto a quella penale rilevandosi al contempo che tale conclusione non comporta la violazione delle regole del giusto processo e dello statuto dell’imputato – convenuto danneggiante – il quale, con pienezza di diritti e nel rispetto del contraddittorio, può prospettare le sue tesi dinanzi al giudice civile tenuto conto altresì del fatto che, sotto tale ultimo profilo, va sottolineato che la regola del contraddittorio (art. 2697 cod. civ.) permea il giudizio civile al pari di quello penale.
Tale pronuncia, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione ogni volta la Cassazione penale annulli una sentenza agli effetti civili secondo quanto previsto dall’art. 622 cod. proc. pen. (così come interpretato in siffatta decisione) al fine di comprendere chi è il giudice competente (come visto quello civile) e quali regole, sia di diritto processuale, che di quello sostanziale, dovranno essere osservati nel giudizio di rinvio.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in cotale provvedimento, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su codesta tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.
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