In materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, sebbene non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio di imposta, in assenza di ragioni economiche apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici.[1]
In un’ottica di revisione delle disposizioni antielusive volta alla semplificazione dell’impianto normativo e al contrasto alle nuove strutture di pianificazione fiscale aggressiva in grado di incidere negativamente sul gettito fiscale nazionale e sul funzionamento del mercato interno, il legislatore nazionale, nel rispetto dei limiti imposti dal diritto dell’Unione europea, ha introdotto nell’ordinamento fiscale una clausola antiabuso di carattere generale all’art. 10-bis della L. 212/2000 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente) con efficacia a decorrere dal giorno 1 ottobre 2015.
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Per poter comprendere la portata della norma antielusiva, è importante procedere con un breve excursus storico ed esaminare l’evoluzione normativa e giurisprudenziale dell’istituto in commento.
Considerata l’assenza nel nostro ordinamento di una clausola antielusiva in senso generale, verso la fine degli anni ‘80 la dottrina tributaristica si è interrogata sull’opportunità o meno di utilizzare i rimedi di carattere civilistico al fine di contrastare condotte elusive in ambito fiscale, in particolare richiamando l’istituto disciplinato dall’art. 1344 c.c. rubricato “Contratto in frode alla legge”.[2]
Tale articolo pone l’accento sull’illiceità della causa quale conseguenza dell’elusione di una norma imperativa, come per esempio può essere un negozio realizzato in violazione dei patti successori. L’elusione si traduce quindi in una forma di aggiramento della norma tramite l’utilizzo di strumenti giuridici formalmente conformi alle disposizioni di legge, ma in contrasto con la ragione giustificativa della norma.
E’ noto il filone giurisprudenziale della Corte di Cassazione che, non riconoscendo carattere imperativo alla normativa fiscale, ha escluso che il suo aggiramento comportasse l’illiceità (in particolare, la nullità) della relativa attività negoziale.[3]
In effetti, la norma tributaria non vieta determinate condotte, né tutela un determinato interesse generale, ma disciplina semplicemente gli effetti fiscali dei negozi giuridici, assumendo il dato di fatto quale indice della capacità contributiva [4]; sarebbe quindi inappropriato fare applicazione dei principi sanciti dall’art. 1344 c.c. in ambito fiscale.
Articolo 10 Legge 29 dicembre 1990, n. 408. Stante l’assenza di un condiviso rimedio civilistico, il legislatore ha ritenuto opportuno introdurre nel nostro ordinamento l’art. 10 L. 408/90. Tale clausola antielusiva, seppur a carattere settoriale, richiamando la logica dell’art. 1344 c.c., ha consentito all’amministrazione accertatrice di disconoscere i vantaggi tributari conseguiti in determinate operazioni (di concentrazione, trasformazione, scorporo cessione di azienda, riduzione di capitale, liquidazione, valutazione di partecipazioni, cessione di crediti o cessione o valutazione di valori mobiliari) poste in essere senza valide ragioni economiche e allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio d’imposta. La conseguenza non era la nullità del negozio, come sancito dalla disposizione codicistica per i negozi in frode alla legge, bensì l’inopponibilità dell’operazione elusiva nei confronti dell’amministrazione finanziaria, a cui si aggiunge la fraudolenza dell’azione posta in essere volta ad ottenere un risparmio di imposta.
A distanza di pochi anni sono emersi i limiti della norma: aveva carattere settoriale e, pertanto, non riguardava tutta una serie di operazioni; era limitata all’assetto delle imposte sui redditi; l’avverbio “fraudolentemente” dava in qualche modo un’accezione penalistica alla condotta.
Articolo 37-bis D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. Viene quindi introdotto nel nostro ordinamento, nell’ambito delle imposte sui redditi, l’art. 37bis del D.P.R. 600/73 (Disposizioni antielusive)[5], il quale, tra gli atti inopponibili al fisco, ricomprendeva, non solo quelli privi di valide ragioni economiche ed aventi il fine di ottenere un risparmio d’imposta, ma anche quelli diretti più specificatamente ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario. Veniva quindi introdotta una disposizione antielusiva, che però conservava un’applicazione settoriale: nel contesto generale del primo comma dell’art. 37 bis, il terzo comma, individuava una serie di operazioni suscettibili di essere sindacate sotto il profilo elusivo, limitando di fatto l’ambito di applicazione della clausola antielusiva[6].
Considerazioni: Quando si applica una norma antielusiva ad una specifica operazione è come se disapplicassimo il regime fiscale di quelle operazioni per applicare il regime fiscale della norma elusa; esempio: realizzazione di un’operazione di fusione tra società (fiscalmente neutra) e successiva contestazione dell’ufficio che riqualifica la vicenda come un’operazione di liquidazione, ritenendo che non ci siano valide ragioni economiche a sostegno dell’atto. In questo caso, il contribuente che ha applicato il regime tipico della fusione (neutralità), si vede disconoscere tale regime in luogo dell’applicazione di quello realizzativo della liquidazione delle società coinvolte nell’operazione.
L’inopponibilità del vantaggio conseguito si palesa in una sostanziale disapplicazione degli effetti fiscali della norma che disciplina l’operazione voluta dal contribuente. Si assiste ad un’attualizzazione del metodo baconiano secondo un effetto pars destruens e pars costruens : l’Amministrazione finanziaria disapplica il regime adottato dal contribuente (motivando le ragioni per cui ritiene il disegno abusivo) e, successivamente, applica il regime fiscale della norma ritenuta elusa.
Non si mette in discussione la validità civilistica della condotta posta in essere dal contribuente, non si versa in ipotesi di nullità della fattispecie negoziale (che avrebbe effetti distruttivi sia sotto il profilo civilistico, sia sotto quello fiscale); invero, si lascia inalterata la validità civilistica della fattispecie negoziale, rendendo però inefficace nei confronti dell’amministrazione finanziaria il vantaggio ritenuto indebito.
Il sistema delineato dall’art. 37bis presenta però delle carenze sistematiche, quali la settorialità e la limitata portata della norma (atteggiamento comunque prudenziale del legislatore consapevole dell’invasività del potere di accertamento attribuito all’Amministrazione finanziaria in merito alla sindacabilità delle ragioni economiche sottese alle scelte (prevalentemente) imprenditoriali).
Interventi giurisprudenziali. La Cassazione, nella propria funzione nomofilattica, al fine di colmare quei vuoti lasciati dalla normativa fiscale, che al tempo dei fatti non contemplava una generale clausola antielusiva, tende ad un’interpretazione estensiva dell’abuso del diritto, esorbitante rispetto alla portata dell’art.37bis. In proposito, pare doveroso un richiamo alla giurisprudenza del 2005 che, in riferimento alle operazioni di dividend washing e di dividend stripping,[7]risolveva il problema facendo applicazione delle disposizioni codicistiche e dei principi costituzionali.
I giudici di legittimità procedevano quindi – nel primo caso – alla declaratoria di nullità per difetto di causa dei contratti (nullità strutturale) di acquisto e rivendita di azioni stipulati esclusivamente per il conseguimento di un risparmio fiscale ai sensi del combinato disposto degli articoli 1418, c.2, e 1325 n.2 c.c.; nonché -nel secondo caso- all’applicabilità diretta nell’ordinamento tributario dell’articolo 1344 c.c., riconoscendo valore imperativo alle norme tributarie (in contrasto con il precedente filone giurisprudenziale), in quanto poste a tutela dell’interesse generale al concorso paritario alle spese pubbliche secondo il combinato disposto con l’art. 53 Cost.(principio di capacità contributiva), con la conseguenza che in presenza di un contratto stipulato per conseguire un risparmio di imposta contrario alla ratio della norma impositiva, l’amministrazione finanziaria era legittimata a dedurre la simulazione assoluta o relativa dei contratti stipulati dal contribuente o la loro nullità per frode alla legge[8].
Nel 2006 la Corte di giustizia dell’Unione europea, in materia IVA[9], facendo applicazione dei principi comunitari, in particolare del principio antielusivo che vieta l’abuso da parte di un contribuente di uno strumento negoziale per beneficiare di una norma di favore in violazione della ratio agevolativa della norma medesima, ha escluso la possibilità del soggetto passivo di procedere con la detrazione dell’IVA assolta a monte qualora le operazioni fondanti tale diritto fossero idonee ad integrare un comportamento abusivo.
Sotto l’influenza delle decisioni prese in ambito europeo, la Cassazione giunge ad affermare un generale principio di divieto dell’abuso del diritto in ambito tributario (in realtà la CGUE si era soffermata sulla disciplina dei tributi armonizzati, in particolare dell’IVA), estendendolo non solo alle imposte armonizzate, ma anche al settore dei tributi non armonizzati, come quello delle imposte sui redditi[10].
Si arriva quindi al famoso trittico del 2008[11], in cui la Cassazione cerca di fare chiarezza sul principio del divieto di abuso del diritto in ambito fiscale, operando una distinzione tra tributi armonizzati (con applicazione del principio generale antiabuso individuato dalla CGUE[12]) e non armonizzati: “la fonte di tale principio, in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte dirette, va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano. Ed in effetti, i principi di capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.) e di progressività dell’imposizione (art. 53, secondo comma, Cost.) costituiscono il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere, essendo anche tali ultime norme evidentemente finalizzate alla più piena attuazione di quei principi. Con la conseguenza che non può non ritenersi insito nell’ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”.
L’intervento del legislatore. In seguito ai necessari interventi chiarificatori della giurisprudenza di legittimità, il legislatore delegante è intervenuto con legge delega 11 marzo 2014, n. 23, in particolare con l’art. 5, delegando il governo all’introduzione di una definizione di condotta abusiva avente carattere generale al fine di contrastare l’elusione fiscale e l’abuso del diritto: “1. Il Governo è delegato ad attuare, con i decreti legislativi di cui all’articolo 1, la revisione delle vigenti disposizioni antielusive al fine di unificarle al principio generale del divieto dell’abuso del diritto, in applicazione dei seguenti principi e criteri direttivi, coordinandoli con quelli contenuti nella raccomandazione della Commissione europea sulla pianificazione fiscale aggressiva n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012:
a) definire la condotta abusiva come uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, ancorché tale condotta non sia in contrasto con alcuna specifica disposizione;
b) garantire la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un diverso carico fiscale e, a tal fine:
1) considerare lo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali come causa prevalente dell’operazione abusiva;
2) escludere la configurabilità di una condotta abusiva se l’operazione o la serie di operazioni e’ giustificata da ragioni extrafiscali non marginali; stabilire che costituiscono ragioni extrafiscali anche quelle che non producono necessariamente una redditività immediata dell’operazione, ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa e determinano un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente;
c) prevedere l’inopponibilità degli strumenti giuridici di cui alla lettera a) all’amministrazione finanziaria e il conseguente potere della stessa di disconoscere il relativo risparmio di imposta;
d) disciplinare il regime della prova ponendo a carico dell’amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare il disegno abusivo e le eventuali modalità di manipolazione e di alterazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati, nonché la loro mancata conformità a una normale logica di mercato, prevedendo, invece, che gravi sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di valide ragioni extrafiscali alternative o concorrenti che giustifichino il ricorso a tali strumenti;
e) prevedere una formale e puntuale individuazione della condotta abusiva nella motivazione dell’accertamento fiscale, a pena di nullità dell’accertamento stesso;
f) prevedere specifiche regole procedimentali che garantiscano un efficace contraddittorio con l’amministrazione finanziaria e salvaguardino il diritto di difesa in ogni fase del procedimento di accertamento tributario”.
Rilevante è l’incidenza delle statuizioni delle Sezioni Unite del 2008 che inducono il legislatore delegante a valorizzare la manipolazione e l’uso distorto degli strumenti negoziali che senza violare la norma, ma in assenza di valide ragioni economiche, determinano il conseguimento di un vantaggio tributario indebito.
L’introduzione di una norma ad hoc (e non il semplice rinvio ai principi sanciti dalla CGUE) si è reso necessario al fine di garantire la certezza del rapporto tributario[13]. Invero, il principio fissato dalla CGUE soffriva di alcune incongruenze; considerata la limitata portata dell’art. 37bis D.P.R. 600/73, esso tendeva ad avere un’efficacia espansiva, colmando le lacune della legislazione nazionale: se l’operazione posta in essere rientrava nell’elenco di cui al comma 3 dell’art. 37bis, non si rendeva necessaria l’applicazione del principio del divieto dell’abuso del diritto; esso rappresentava una reazione giurisprudenziale nei confronti di quelle operazioni non comprese nella menzionata elencazione tassativa teleologicamente preordinata alla contestazione di una condotta non illecita o illegittima, ma una condotta indebita del contribuente che poneva in essere delle operazioni semplicemente per conseguire dei vantaggi fiscali, tradendo la ratio della norma agevolativa in assenza di valide o apprezzabili ragioni economiche.
Considerata l’annosa discussione in merito alla distinzione tra evasione, elusione e risparmio lecito di imposta, interessante è notare l’attenzione che viene prestata dal legislatore alla possibilità del contribuente di scegliere operazioni che comportino un diverso carico fiscale, purché sorrette da valide ragioni extrafiscali non marginali.
Nell’applicazione della norma antielusiva, si effettua una comparazione di vantaggi tra ragionevolezza economica (ragioni extrafiscali) e vantaggi tributari eventualmente ritenuti indebiti. A tal fine, la legge delega, cercando di contemperare l’esigenza di comparazione, ha fissato i seguenti criteri:
– considerare l’ottenimento dei vantaggi fiscali come ragione prevalente dell’operazione abusiva: non si usa il termine “esclusiva”, ma “prevalente”, il quale esprime, in termini quantitativi, la rilevanza del vantaggio tributario rispetto alle ragioni economiche che hanno indotto l’operazione;
– la qualificazione delle ragioni come “extrafiscali” non marginali, e non “economiche” non marginali, ampliando lo spazio d’azione del contribuente e facendovi rientrare (secondo un’interpretazione letterale della norma) anche ragioni ambientali, sociali, interpersonali (quindi di portata più ampia rispetto all’art. 37bis D.P.R. 600/73);
– sempre in riferimento alle ragioni extrafiscali, vengono ricomprese anche quelle che non producono necessariamente una redditività immediata dell’operazione, ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa e determinano un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente (questo tutela le operazioni di organizzazione infragruppo che spesso non determinano una redditività immediata, ma a lungo termine, trovando altresì un aggancio costituzionale nell’art. 41 Cost., concernente la libertà di iniziativa economica privata).
Inoltre, la legge delega, nel prevedere alla lettera c) dell’art.5 l’inopponibilità degli strumenti giuridici all’amministrazione finanziaria e il conseguente potere della stessa di disconoscere il relativo risparmio di imposta, alla successiva lettera d) chiarisce che il regime della prova dell’esistenza di un disegno abusivo, l’eventuale manipolazione del disegno negoziale e l’alterazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati, nonché la loro mancata conformità a una normale logica di mercato, sia a carico dell’amministrazione finanziaria, la quale dovrà indagare sulle ragioni sottostanti all’operazione posta in essere.
A sua volta il contribuente ha l’onere di allegare l’esistenza di valide ragioni extrafiscali alternative o concorrenti che giustifichino il ricorso a tali strumenti; tale onere si riallaccia all’aspetto forse più innovativo della nuova clausola antiabuso specificato nella legge delega, ossia quello di prevedere una formale e puntuale individuazione della condotta abusiva nella motivazione dell’accertamento fiscale, a pena di nullità dell’accertamento stesso, prevedendo un onere di motivazione rafforzato a carico dell’amministrazione finanziaria, la quale si vede obbligata a dover motivare la contestazione anche alla luce dei chiarimenti forniti dal contribuente.
In tale contesto si pone la non rilevabilità d’ufficio dell’inopponibilità della condotta abusiva. Viene quindi meno uno strumento potentissimo che la Cassazione aveva concepito, ossia la possibilità che l’abuso del diritto potesse essere rilevato d’ufficio anche in sede di legittimità (intervento drastico del legislatore che priva la giurisprudenza di uno strumento incisivo all’interno del contenzioso fiscale).[14] In quest’ottica viene valorizzata la necessaria tutela del contribuente, il quale interviene in giudizio impostando la propria difesa sulla base delle contestazioni contenute nell’atto della Amministrazione finanziaria.
Infine, alla lettera f) dell’art. 5, la legge delega prevede l’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale tra l’Amministrazione finanziaria e il contribuente, garantendo un determinato iter procedimentale da seguire ai fini della contestazione della condotta abusiva.
Viene quindi in rilievo l’importanza della legge delega che, nell’inquadramento del divieto di abuso del diritto, prende in considerazione un contemperamento degli interessi erariali alla giusta percezione dei tributi, non solo evasi, ma anche elusi, nel rispetto dell’art. 53 Cost., e cerca al contempo di tutelare la posizione del contribuente che deve essere messo nella situazione di poter giustificare le ragioni extrafiscali concorrenti che hanno determinato quella determinata scelta, il tutto nel rispetto di un determinato iter procedimentale.
Articolo 10-bis L. 27 luglio 2000, n. 212 (“Statuto del contribuente”). Rubricato “Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale”, l’art. 10bis L.212/00 richiama due nozioni sostanzialmente assimilabili: elusione fiscale, riconducibile all’aggiramento della norma fiscale, e abuso del diritto, riconducibile alla manipolazione e all’uso distorto dello strumento negoziale.
Secondo il comma 1 della norma, “configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”. Gli elementi costitutivi della condotta elusiva posso così enuclearsi:
– condotta priva di sostanza economica;
– conseguimento di indebito vantaggio fiscale;
– essenzialità del vantaggio fiscale indebito.
Una lettura combinata della norma in commento induce idealmente a collegare il comma 1 con il comma 12, secondo cui: “In sede di accertamento l'abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie”.
Pur mancando il termine “indebito”, tale comma chiarisce in modo inequivocabile la portata residuale delle contestazioni attinenti l’abuso del diritto: l’Amministrazione finanziaria non può applicare la norma antiabuso quando la condotta del contribuente presenti profili di fraudolenza, sia simulata, oppure interposta, potendo in questi casi essere contestata ricorrendo ad ulteriori specifiche disposizioni tributarie.[15]
Al successivo comma 13 si precisa altresì che “Le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie. Resta ferma l'applicazione delle sanzioni amministrative tributarie”. Con tale disposizione si vuole infatti evitare di equiparare il trattamento di una condotta abusiva ad una condotta penalmente rilevante. Come la stessa Corte di Cassazione ha avuto modo di chiarire, la scelta si è orientata verso la sanzionabilità amministrativa, anche perché il legislatore delegante non ha inteso adottare la soluzione radicale di escludere ogni possibile conseguenza sanzionatoria delle fattispecie elusive, circostanza, questa, puntualmente confermata dai lavori parlamentari relativi alla legge di delegazione, nel corso dei quali sono stati, tra l’altro, respinti emendamenti intesi a stabilire in termini espressi l’irrilevanza del fenomeno considerato sul versante sanzionatorio. Una simile soluzione sarebbe risultata, d’altro canto, non adeguata in rapporto all’esigenza – che pure emerge – di prevedere, nei congrui casi, un deterrente rispetto ad operazioni che, come quelle elusive, realizzano risultati comunque “indesiderati” dal punto di vista dell’ordinamento fiscale.
Particolarmente importante è l’applicazione generalizzata della norma antielusiva a tutte le operazioni fiscali, senza distinzione tra tributi armonizzati e non armonizzati,[16] caratterizzate dall’assenza di sostanza economica ed inidonee a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Tali caratteristiche vengono definite dal legislatore al comma 2 dell’art. 10bis tramite l’utilizzo di formule astratte che impongono all’interprete una certa cautela nell’applicazione della norma al caso concreto.
Inoltre, nella definizione dei vantaggi fiscali indebiti di cui al comma 2 lettera b), vengono definiti tali quei vantaggi in contrasto con le finalità delle norme fiscali, nonché quelli in contrasto con i principi dell’ordinamento tributario (per la prima volta si fa riferimento anche ai principi di diritto).
Sebbene la norma lasci margini di discrezionalità, sotto certi profili, sia all’Amministrazione finanziaria, sia al giudice tributario, è evidente l’intento del legislatore di voler potenziare le garanzie procedimentali del contribuente.
Infatti, il legislatore delegato, rispettoso di quanto previsto nella legge delega, ha previsto l’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale già disciplinato dal 37bis, ma che adesso trova applicazione a tutte le contestazioni riguardanti una condotta fiscalmente ritenuta abusiva/elusiva.
Pertanto, nel rispetto del comma 6, l’Amministrazione finanziaria è tenuta ad accertare l’abuso del diritto con apposito atto, preceduto, a pena di nullità, dalla notifica al contribuente di una richiesta di chiarimenti da fornire entro il termine di sessanta giorni, in cui sono indicati i motivi per i quali si ritiene configurabile un abuso del diritto. Tale richiesta, a norma del successivo comma 7, deve essere notificata dall'amministrazione finanziaria ai sensi dell'articolo 60 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, entro il termine di decadenza previsto per la notificazione dell'atto impositivo. Tra la data di ricevimento dei chiarimenti ovvero di inutile decorso del termine assegnato al contribuente per rispondere alla richiesta e quella di decadenza dell'amministrazione dal potere di notificazione dell'atto impositivo intercorrono non meno di sessanta giorni. In difetto, il termine di decadenza per la notificazione dell'atto impositivo è automaticamente prorogato, in deroga a quello ordinario, fino a concorrenza dei sessanta giorni.
La formulazione della norma induce a ritenere automaticamente prorogato il solo termine ordinario decadenziale entro cui non si esaurisce il potere accertatore dell’amministrazione finanziaria e non anche il termine inerente il contraddittorio endoprocedimentale: in seguito alla notifica della richiesta di chiarimenti da parte dell’Ufficio, cominciano a decorrere i 60 giorni entro i quali il contribuente può presentare le proprie osservazioni. Ne consegue che l’Ufficio deve attendere lo spirare di questi 60 giorni prima di procedere alla formale contestazione della condotta elusiva, avendo comunque a disposizione almeno ulteriori 60 giorni. Infatti, laddove il termine di 60 giorni decorrente dallo scadere del termine entro cui è possibile da parte del contribuente presentare i propri chiarimenti cada a ridosso del 31 dicembre del quinto anno successivo alla presentazione della dichiarazione, il termine decadenziale è prorogato fino a concorrenza dei 60 giorni previsti dalla norma. Ne consegue che la richiesta di chiarimenti dovrà essere presentata entro il 31 ottobre di tale anno in modo da garantire al contribuente il termine di 60 giorni normativamente previsto che caratterizza la fase del procedimento amministrativo volto a contestare la condotta elusiva; parimenti l’Ufficio non potrà chiedere chiarimenti oltre il 31 ottobre dell’ultimo anno di decadenza, proprio perché i 60 giorni concessi dalla norma per la presentazione dei chiarimenti scadrebbero nell’anno successivo, anno in cui il potere di accertamento da parte dell’Ufficio è da considerarsi ormai esaurito. Si ribadisce quindi che la proroga riguarda il termine di decadenza nel caso in cui sostanzialmente non siano decorsi 60 giorni da quando il contribuente ha fornito i chiarimenti, o sia decorso inutilmente il termine utile, e il 31 dicembre dell’ultimo anno: se si chiedono chiarimenti oltre il 31 ottobre, c’è il rischio che il termine per rispondere da parte del contribuente vada oltre il 31 dicembre, esorbitando rispetto alla disposizione dalla norma che prevede la proroga del solo termine decadenziale.
Non mancano però soluzioni in contrasto con l’interpretazione appena fornita, le quali considerano applicabile la doppia proroga dei termini: sia la proroga del termine decadenziale ordinario, sia la proroga in relazione ai termini a disposizione del contribuente[17].
Sul punto è auspicabile un intervento chiarificatore dell’Agenzia delle Entrate che fornisca un’indicazione in merito alle norme procedimentali.
In conclusione, cogliendo di buon occhio le modifiche introdotte allo statuto del contribuente con l’art. 10 bis, è necessario precisare che l’accertamento previsto da tale disposizione normativa è, di fatto, un accertamento parziale con caratteristiche proprie che segue un determinato schema dettato dalla norma di riferimento e concernente esclusivamente la contestazione di una condotta ritenuta abusiva che, per tale ragione, non può coinvolgere anche altre violazioni. Del resto lo stesso comma 6 fa salva l’esperibilità di ulteriori azioni accertatrici nei termini stabiliti dai singoli tributi, potendo quindi l’Amministrazione finanziaria procedere successivamente con un accertamento ordinario in merito a violazioni differenti rispetto alla condotta abusiva comunque riguardanti il medesimo periodo di imposta.
Problematiche potrebbero sorgere nel caso in cui l’ufficio proceda con la notifica dell’avviso di accertamento ordinario e successivamente proceda con la contestazione della condotta abusiva ex art. 10bis: mentre se si procede preventivamente con un accertamento parziale, non pregiudico l’ulteriore azione accertatrice, contestando direttamente una violazione a carattere generale tramite un accertamento ordinario, si esaurisce il potere accertativo dell’ufficio accertatore. Stante comunque le peculiarità della procedura amministrativa prevista dall’art. 10bis, per come si presenta la norma, con riferimento al medesimo periodo di imposta, dovrebbe essere notificato prima l’accertamento ex art. 10 bis e successivamente quello ordinario.
Nel complesso, l’art. 10bis, sebbene preveda una definizione generica delle operazioni che configurano abuso del diritto, ha potenziato enormemente le garanzie procedimentali, prevedendo, altresì, un obbligo di motivazione rafforzato che riserva la propria applicabilità, in via residuale, alle sole condotte ritenute elusive.
[1] Cass. 11 maggio 2012, n. 7393
[2] Sul punto F. Gallo, “Elusione, risparmio d’imposta e frode alla legge”, in Studi in onore di E. ALLORIO, vol. II, 1989, pp. 2041-2070; Limiti e caratteristiche degli acquisti con prevalente finalità fiscale, in Acquisizione di società e di pacchetti azionari di riferimento, Giuffrè,1990.
[3] Cfr. Cass. 3 settembre 2001, n.11351 che escludendo l’applicazione degli artt. 1344 e 1418 c.c. ha stabilito che “Non è sufficiente infatti che una norma sia inderogabile perché possa essere qualificata come imperativa essendo a tal fine necessario che essa sia di carattere proibitivo e sia posta altresì a tutela di interessi generali che si collochino al vertice della gerarchia dei valori protetti dall’ordinamento giuridico. Caratteri questi certamente non ravvisabili nelle norme tributarie in quanto esse sono poste a tutela di interessi pubblici di carattere settoriale e, in linea di massima, non pongono divieti ma assumono un dato di fatto quale indice di capacità contributiva.”
[4] Sul punto vedi S. Cipollina, “La legge civile e la legge fiscale. Il problema dell’elusione fiscale”, CEDAM, 1992, p. 149; P. Tabellini, “L’ elusione della norma tributaria”, Giuffrè, 2007, p. 214.
[5] Articolo abrogato dall’art. 1, comma 2 decreto legislativo 5 agosto 2015 n. 128. Ai sensi del medesimo art. 1, comma 2 decreto legislativo n. 128/2015 le disposizioni che richiamano il presente articolo si intendono riferite all’art. 10-bis legge 27 luglio 2000 n. 212, in quanto compatibili).
[6] Il comma 3 dell’art. 37bi DPR 600/73 prevedeva che “Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano a condizione che, nell’ambito del comportamento di cui al comma 2, siano utilizzate una o più delle seguenti operazioni:
a) trasformazioni, fusioni, scissioni, liquidazioni volontarie e distribuzioni ai soci di somme prelevate da voci del patrimonio netto diverse da quelle formate con utili;
b) conferimenti in società, nonché negozi aventi ad oggetto il trasferimento o il godimento di aziende;
c) cessioni di crediti;
d) cessioni di eccedenze d’imposta;
e) operazioni di cui al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 544, recante disposizioni per l’adeguamento alle direttive comunitarie relative al regime fiscale di fusioni, scissioni, conferimenti d’attivo e scambi di azioni, nonché il trasferimento della residenza fiscale all’estero da parte di una società;
f) operazioni, da chiunque effettuate, incluse le valutazioni e le classificazioni di bilancio, aventi ad oggetto i beni ed i rapporti di cui all’articolo 81, comma 1, lettere da c) a c -quinquies), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917;
f-bis) cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate tra i soggetti ammessi al regime della tassazione di gruppo di cui all’articolo 117 del testo unico delle imposte sui redditi.
f-ter) pagamenti di interessi e canoni di cui all’art. 26-quater, qualora detti pagamenti siano effettuati a soggetti controllati direttamente o indirettamente da uno o più soggetti non residenti in uno Stato dell’Unione europea;
f-quater) pattuizioni intercorse tra società controllate e collegate ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile, una delle quali avente sede legale in uno Stato o territorio diverso da quelli di cui al decreto ministeriale emanato ai sensi dell’ articolo 168-bis del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, aventi ad oggetto il pagamento di somme a titolo di clausola penale, multa, caparra confirmatoria o penitenziale.
[7] Rispettivamente Cass. civ. Sez. V, 21 ottobre 2005, n. 20398 (in cui si contestano operazioni di compravendita di titoli azionari che permettevano alla società cedente di poter trasformare di fatto un dividendo imponibile in una plusvalenza esente e quindi evitare la tassazione classica del dividendo) e Cass. civ. Sez. V, 14 novembre 2005, n. 22932 (in cui si contesta il meccanismo elusivo posto in essere con le operazioni di costituzione o di cessione di usufrutto su azioni al fine di evitare il regime di tassazione sui dividendi più gravoso per le società estere titolari delle azioni o di diritto di usufrutto sulle stesse).
[8] Per maggiori approfondimenti, M. Leo, “Le imposte sui redditi nel Testo Unico”, Tomo I, Giuffrè, 2010; P. Tabellini, “L’elusione della norma tributaria”, cit.; G. Corasaniti, “La nullità dei contratti come strumento di contrasto alle operazioni di dividend washing nella recente giurisprudenza della Suprema Corte”, in Dir. prat. trib., 2006, II, pp 235 ss.
[9] CGUE C-255/02 del 21 febbraio 2006 (vengono contestate le operazioni poste in essere dalla banca Halifax plc, la quale, effettuando per la maggior parte prestazioni esenti da IVA, avrebbe potuto recuperare soltanto una parte minima di tale imposta, mentre, in seguito al coinvolgimento di altre società, ha posto in essere un piano che gli consentiva di recuperare in pratica l’integralità dell’IVA assolta a monte in violazione della sesta direttiva IVA –Dir. 77/388/CEE); vd anche CGUE C-419/02 (BUPA Hospitals Ltd e Goldsborough Developments Ltd) e C-223/03 (University of Huddersfield Higher Education Corporation).
[10] Per un approfondimento si veda F.Gallo, “La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale”, in Rassegna Tributaria, 6/2015, pp.1315 ss
[11] Cass. S.U. 23 dicembre 2008 n. 30055, 30056, 30057
[12] Sul punto, in termini generali sulle decisioni della CGUE, si veda Corte Cost. n. 284/07 secondo cui “Le statuizioni della Corte di Giustizia delle Comunità europee hanno, al pari delle norme comunitarie direttamente applicabili cui ineriscono, operatività immediata negli ordinamenti interni. Nel caso in cui, in ordine alla portata di dette statuizioni, i giudici nazionali chiamati ad interpretare il diritto comunitario, al fine di verificare la compatibilità delle norme interne, conservino dei dubbi rilevanti, va utilizzato il rinvio pregiudiziale prefigurato dall’art. 234 del Trattato CE quale fondamentale garanzia di uniformità di applicazione del diritto comunitario nell’insieme degli Stati membri”.
[13] In proposito è opportuno richiamare l’art. 10 dello Statuto del contribuente dedicato alla correttezza e al legittimo affidamento, sulla base del quale il rapporto tra fisco e contribuente deve essere ispirato al principio di lealtà, correttezza e trasparenza, ma soprattutto di buona fede intesa in senso oggettivo (correttezza del rapporto tra amministrazione finanziaria e contribuente).
[14] Sul punto cfr Cass. 21 ottobre 2005 n. 20398; S.U. 23 dicembre 2008 n. 30055; Cass. 11 maggio 2012, n. 7393; in proposito, ragionando sulla valenza attribuita all’art. 53 Cost. dalla stessa Cassazione, quale fondamento del principio del divieto di abuso del diritto, si potrebbe ipotizzare una possibile questione di legittimità costituzionale sostenendo che l’art. 10bis dello Statuto del Contribuente privi il giudice di un potere, ossia la rilevabilità d’ufficio in via incidentale dell’inopponibilità dell’operazione ritenuta abusiva, in contrasto con le garanzie di un principio di rango costituzionale.
[15] Sul punto è opportuno evidenziare la portata chiarificatrice della norma volta a definire la portata applicativa dell’abuso del diritto – un istituto di derivazione giurisprudenziale – in ambito fiscale che nell’esperienza della giurisprudenza ha visto ricomprendere condotte difettose nel requisito dell’inerenza, fraudolenti, o di interposizione fittizia (quest’ultima oltretutto riguardante ipotesi di mera evasione). In proposito, sulla rilevanza residuale della norma, Cass. pen., Sez. III 7 ottobre 2015, n. 40272 “la disciplina dell’abuso del diritto ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti la simulazione o i reati tributari, in particolare, l’evasione e la frode : queste fattispecie vanno perseguite con gli strumenti che l’ordinamento già offre. Se, ad esempio, una situazione configura fattispecie regolata dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, in quanto frode o simulazione, l’abuso non può essere invocato.”
[16] Interessante è l’apparente parallelismo con l’art. 20 DPR 131/86, non richiamato espressamente dall’art. 10bis, del quale però la Cassazione ha chiarito la portata precisandone la natura non antielusiva, ma di norma di interpretazione o di riqualificazione degli atti negoziali. In tale contesto non può che valorizzarsi l’insegnamento dello studioso tedesco Albert Hensel secondo cui “L’elusione inizia laddove finisce l’interpretazione”. Per un commento sull’art. 20 DPR 131/86 ed il 37 bis DPR 600/73, si veda nelle note F.Gallo, La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale, cit. p.1322; sul rapporto di complementarietà tra l’art. 20 DPR 131/86 e l’art. 10bis L.212/00, D. Canè, Brevi note sullo stato della giurisprudenza intorno all’art. 20 del T.U. registro, in Rassegna Tributaria, 2/2016, pp. 649 ss
[17] In proposito è interessante il paragone con le norme che regolano l’interpello disapplicativo di cui all’art. 11, c.2, L. 212/00 ed in particolare l’art.6 D.Lgs 24 settembre 2015, n. 156 rubricato “Coordinamento con l’attività di accertamento e contenzioso” che al comma 2 prevede una disciplina sostanzialmente identica a quella prevista dal comma 7 dell’art. 10bis. Sul punto, la Circolare AdE del 1 aprile 2016, n. 9/E ha chiarito che la procedura si sostanzia, tra le altre, nella proroga del termine ordinario di decadenza dell’azione di accertamento collegato tanto alla facoltà di contraddittorio endoprocedimentale tanto al tempo considerato fisiologico per l’analisi, da parte dell’amministrazione, delle eventuali deduzioni difensive addotte (la proroga, in particolare, opera sia nel caso in cui i chiarimenti siano forniti, sia nell’ipotesi in cui sia scaduto inutilmente il termine a disposizione del contribuente).
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