Abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) e Rifiuto di atti d’ufficio. Omissione (art. 328 c.p.)

Indice:

Disciplina comune

Le fattispecie delittuose dell’abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) e del rifiuto di atti di ufficio (art. 328 c.p.) trovano sede nel libro secondo del codice penale – Dei delitti in particolare – Titolo II – Dei delitti contro la pubblica amministrazione  – Capo I – Dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Tali norme sono poste a tutela del buon andamento della P.A. nonché dell’efficace attuazione delle funzioni istituzionali della stessa, cui si accompagna nella fattispecie delittuosa dell’abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) l’esigenza di tutelare il privato dalle prevaricazioni dell’autorità e il diritto della persona ad essere informata in merito ai procedimenti di proprio interesse, nel pieno rispetto della controllabilità dell’agire della pubblica amministrazione nel delitto di rifiuto di atti d’ufficio (art. 328 c.p.).

Abuso d’ufficio (art. 323 c.p.)

L’articolo in commento tutela non solo il buon andamento della pubblica amministrazione, ma anche il patrimonio del soggetto terzo, danneggiato dall’abuso di un potere posto in essere dal pubblico funzionario (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio che sia). Trattasi, dunque, di un delitto di natura plurioffensiva. Modificata più volte dal Legislatore (nel 1990, nel 1997 e nel 2012), sulla base della sensibilità del Governo di turno, la norma ha subito un’ultima e incisiva novella con il D.L. n.76/2020, modificando le generiche parole in violazione “di norme di legge e di regolamento” con le attuali:  in violazione “…di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità,…”.  Dunque, oggi, data la novella di cui sopra, le condotte che portano alla realizzazione dell’abuso d’ufficio devono essere improntate alla violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità…nonché attraverso l’inosservanza dell’obbligo di astenersi.

Testualmente, la norma dispone che: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante gravità”.

Poiché la condotta delittuosa di abuso d’ufficio può essere commessa soltanto dal pubblico ufficiale e dall’incaricato di pubblico servizio, si tratta di un reato proprio. Il comportamento censurato deve essere, necessariamente, compiuto nell’esercizio delle funzioni o del servizio. Tale delitto può essere realizzato sia nella forma patrimoniale che in quella non patrimoniale. Trattasi di reato di evento, che si concretizza nel momento della produzione di un “…ingiusto vantaggio patrimoniale…” o di “…un danno ingiusto…” ad altri. La norma in scrutinio tutela anche gli interessi legittimi così sul punto la Corte di Cassazione: “In tema di abuso di ufficio, la nozione di danno ingiusto non ricomprende le sole situazioni giuridiche attive a contenuto patrimoniale ed i corrispondenti diritti soggettivi, ma è riferita anche agli interessi legittimi, in particolare quelli di tipo pretensivo, suscettibili di essere lesi dal diniego o dalla ritardata assunzione di un provvedimento amministrativo, sempre che, sulla base di un giudizio prognostico, il danneggiato avesse concrete opportunità di conseguire il provvedimento a sé favorevole, così da poter lamentare una perdita di chances”. (Cass. n. 44598/2019).

L’elemento materiale consiste nel porre in essere una condotta che si manifesta esternamente attraverso la violazione di specifiche norme disciplinate dalla legge – incluse quelle di rango comunitario – o da atti aventi forza di legge che non danno nessun margine di discrezionalità all’agire del pubblico funzionario. A tal proposito è, infatti, ormai consolidato che la fattispecie delittuosa dell’abuso d’ufficio possa realizzarsi anche a seguito della violazione dei principi di buon andamento e imparzialità che devono ispirare l’azione della pubblica amministrazione. Così sul punto consolidata giurisprudenza: “In tema di abuso di ufficio, il requisito della violazione di legge o di regolamento può consistere anche nella inosservanza del principio di imparzialità previsto dall’art. 111 comma secondo della Costituzione, espressione del più generale principio previsto dall’art. 97 della Costituzione che impone ad ogni pubblico funzionario, e quindi anche al giudice, nell’esercizio delle sue funzioni, una vera e propria regola di comportamento quale quella di non usare il potere che la legge gli conferisce per compiere deliberati trattamenti di favore”. (Cass. n. 12370/2013). Ed ancora: In tema di abuso d’ufficio, il requisito della violazione di legge può consistere anche nella inosservanza dell’art. 97 della Costituzione, la cui parte immediatamente precettiva impone ad ogni pubblico funzionario, nell’esercizio delle sue funzioni, di non usare il potere che la legge gli conferisce per compiere deliberati favoritismi e procurare ingiusti vantaggi, ovvero per realizzare intenzionali vessazioni o discriminazioni e procurare ingiusti danni”. (Cass. n. 37373/2014). Chiaramente, la condotta delittuosa deve essere realizzata nello svolgimento delle funzioni o del servizio.

In merito al dovere di astensione l’articolo disciplina un doppio binario: da un lato, l’obbligo giuridico di astenersi deriva direttamente dal testo della stessa norma, qualora sussista un proprio interesse o quello di un prossimo congiunto; dall’altro lato l’obbligo di astensione emerge, nettamente, in relazione alla legislazione speciale. Quest’ultima va identificata al fine di poter individuare l’obbligo specifico di astensione che risulta essere stato violato.

La norma prevede una duplice ingiustizia del danno,  dovendo essere ingiusta sia la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, sia il risultato ovvero il vantaggio patrimoniale che deriva dalla condotta posta in essere. Sul punto così statuisce la Cassazione: “L’integrazione del reato di abuso d’ufficio richiede una duplice distinta valutazione di ingiustizia, sia della condotta (che deve essere connotata da violazione di norme di legge o di regolamento), sia dell’evento di vantaggio patrimoniale (che deve risultare non spettante in base al diritto oggettivo); non è peraltro necessario, ai fini predetti, che l’ingiustizia del vantaggio patrimoniale derivi da una violazione di norme diversa ed autonoma da quella che ha caratterizzato l’illegittimità della condotta, qualora – all’esito della predetta distinta valutazione – l’accrescimento della sfera patrimoniale del privato debba considerarsi contra ius”. (Cass. n. 11394/2015) Ed ancora sul punto: “In tema di abuso d’ufficio, l’ingiustizia del danno non può essere desunta implicitamente dall’illegittimità della condotta, in quanto il requisito della doppia ingiustizia presuppone l’autonoma valutazione degli elementi costitutivi del reato.” (Cass. n. 58412/2018).

Secondo la dottrina più autorevole l’elemento psicologico può essere integrato soltanto dal dolo intenzionale e non da forme come il dolo eventuale o il dolo indiretto, connesse soltanto all’accettazione del rischio che l’evento si realizzi seppur con grado diverso. Il dolo intenzionale si ritiene sussistente qualora il risultato dell’abuso rappresenti la finalità realmente voluta dal soggetto attivo (ovvero soggetto agente). Sostanzialmente, vantaggio indebito o il danno arrecato dal pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio deve risultare come l’unico ed esclusivo motivo per il compimento dell’atto. In materia di dolo, si segnala il recente arresto giurisprudenziale: In tema di abuso d’ufficio, non ricorre il dolo intenzionale nel caso in cui l’agente persegua esclusivamente la finalità di realizzare un interesse pubblico ovvero quando, pur nella consapevolezza di favorire un interesse privato, sia stato mosso esclusivamente dall’obiettivo di perseguire un interesse pubblico, con conseguente degradazione del dolo di procurare a terzi un vantaggio da dolo intenzionale a mero dolo diretto o eventuale e con esclusione, quindi, di ogni finalità di favoritismo privato”. (Cass. n. 10224/2019).

Leggi anche L’abuso d’ufficio nella recente giurisprudenza costituzionale tra ragionevolezza normativa e burocrazia difensiva

Rifiuto di atti d’ufficio. Omissione (art. 328 c.p.)

La fattispecie delittuosa del Rifiuto ed omissione di atti d’ufficio distingue due diverse ipotesi. I due commi sono accomunati dal costituire ipotesi di reati di pericolo e di reato omissivo improprio, visto che censurano una condotta consistente in un semplice non fare, prescindendo dalla causazione di un evento di danno. Testualmente la norma in commento recita che: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni. Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a euro 1.032. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa.

Il rifiuto di atti d’ufficio (art. 328 co. 1 c.p.):

Il primo comma dell’articolo in commento ha ad oggetto il rifiuto, indebito, di un atto qualificato. Il rifiuto attorno al quale verte la condotta censurata deve riguardare il compimento di un atto che è necessario adottare senza ritardo “…per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica o di ordine pubblico o di igiene e sanità…” Si tratta di una elencazione tassativa. Il diniego può essere scritto o orale e allo stesso tempo deve risultare indebito (ovvero non devono sussistere cause di giustificazione). Il pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio deve sottrarsi alla valutazione d’urgenza dell’atto proprio del suo ufficio, senza aver posto in essere una valutazione tecnica. Quindi, l’oggetto del rifiuto non può essere integrato dal mancato compimento di una generica attività amministrativa generica bensì deve essere riferito al compimento di un atto dell’ufficio. A tal proposito la Cassazione così statuisce: “Ai fini della configurabilità dell’elemento psicologico del delitto di rifiuto di atti d’ufficio, è necessario che il pubblico ufficiale abbia consapevolezza del proprio contegno omissivo, dovendo egli rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento “contra ius”, senza che il diniego di adempimento trovi alcuna plausibile giustificazione alla stregua delle norme che disciplinano il dovere di azione”. (Cass. n. 36674/2015). Nei casi in cui la condotta del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio risulti reiterata, a seguito di sollecitazioni, il reato potrà manifestarsi in forma continuata, così sul punto la Cassazione: “Il rifiuto di un atto dell’ufficio, previsto dall’art. 328, comma primo, cod. pen., ha natura di reato istantaneo e può manifestarsi in forma continuata quando, a fronte di formali sollecitazioni ad agire rivolte al pubblico ufficiale rimaste senza esito, la situazione potenzialmente pericolosa continui a esplicare i propri effetti negativi e l’adozione dell’atto dovuto sia suscettibile di farla cessare”. (Cass. 1657/2020).

In ambito sanitario è bene evidenziare il seguente arresto giurisprudenziale: “Integra il delitto di rifiuto di atti d’ufficio la condotta del medico preposto al servizio “118” che non eserciti la propria valutazione discrezionale del requisito dell’urgenza dell’atto, omettendo di formulare la diagnosi mediante i parametri informatici previsti dal protocollo dell’azienda ospedaliera (cd.”Triage”) e di inviare la richiesta autoambulanza, secondo quanto stabilito nelle procedure operative previste per il relativo servizio”. (Cass. n. 19759/2013). Ed ancora: “Integra il reato di rifiuto di atti di ufficio, la condotta del medico di guardia in servizio presso una casa di cura che, richiesto di prestare il proprio intervento da personale infermieristico in relazione alla progressiva ingravescenza delle condizioni di salute di un paziente ivi ricoverato, ometta di procedere alla visita ed alla diretta valutazione della situazione, a nulla rilevando che il paziente sia comunque assistito dal suddetto personale, incaricato di monitorarne le condizioni fisiche e i parametri vitali, e che, in tal caso, la valutazione del sanitario si fondi soltanto su dati clinici e strumentali”. (Cass. n. 21631/2017).

Omissione del compimento dell’atto dovuto o mancata giustificazione delle ragioni del ritardo (art. 328 co. 2 c.p.)

Il secondo comma dell’articolo 328 c.p. disciplina una doppia condotta omissiva riferita, alternativamente, al mancato compimento dell’atto dovuto, o alla mancata esposizione delle ragioni del ritardo. L’omissione di un atto d’ufficio deve essere conseguente ad una formale messa in mora, ovvero una richiesta scritta proveniente dal privato dalla quale decorre il termine per l’adozione dell’atto, ovvero per formulare una risposta negativa che renda note le motivazioni del diniego. È necessario, comunque, che sussista un obbligo di avvio del procedimento.
L’interesse del privato deve, inoltre, essere qualificato ovvero deve trattarsi di un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata dall’ordinamento giuridico. Giova ricordare che il reato viene a configurarsi soltanto se il privato abbia messo in mora la P.A. con la richiesta scritta una volta spirato il termine previsto dalle singole norme amministrative. A tal proposito, dottrina maggioritaria definisce questo reato come “delitto di messa in mora”Inizio modulo evidenziando la scelta del legislatore di ancorare l’omissione compiuta alla messa in mora da parte dell’interessato, previa assegnazione di un termine perentorio di adempimento.Fine modulo A tal proposito la Cassazione ha statuito che: “In tema di rifiuto di atti d’ufficio, la richiesta scritta di cui all’art. 328, secondo comma, cod. pen., assume la natura e la funzione tipica della diffida ad adempiere, dovendo la stessa essere rivolta a sollecitare il compimento dell’atto o l’esposizione delle ragioni che lo impediscono. Ne consegue che il reato si consuma quando, in presenza di tale presupposto, sia decorso il termine di trenta giorni senza che l’atto richiesto sia stato compiuto, o senza che il mancato compimento sia stato giustificato”. (Cass. n. 2331/2014).

La diffida ad adempiere deve essere espressa e comunicata direttamente e personalmente al pubblico ufficiale titolare del potere/dovere di compiere l’atto. La diffida, infatti, assolve alla funzione di spostare sul piano della rilevanza penale l’omissione o il ritardo nel provvedere rispetto all’originaria istanza. Essa, quindi, può essere formalizzata soltanto dopo che sia decorso, inutilmente, il termine previsto per provvedere sull’istanza stessa e, dunque, con atto diverso e separato da essa. Sicché non rileva ai fini previsti dall’art. 328 c.p. la c.d. diffida in prevenzione. Una formale costituzione in mora ha senso soltanto dopo la scadenza del termine.

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