La Cassazione penale, chiamata a pronunciarsi su un’ipotesi di abuso edilizio e sulle richieste risarcitorie innestate nello stesso processo dalla contestuale promozione dell’azione civile dal soggetto legittimato, ancora una volta ha ribadito il principio di matrice civilistica più volte puntualizzato negli anni precedenti, secondo un orientamento ormai consolidato in forza del quale “ (…) nella liquidazione del quantum risarcibile, la misura del danno deve avere per oggetto l’intero pregiudizio, essendo il risarcimento diretto alla completa restitutio in intergrum – per equivalente o in forma specifica – del patrimonio leso; né d’altronde, la risarcibilità per equivalente può costituire un elusivo strumento di deminutio del risarcimento, il quale si conforma invece proprio alle caratteristiche del diritto leso, il che ha condotto la giurisprudenza proprio ad escludere il risarcimento per equivalente in luogo della reintegrazione in forma specifica ex art. 2058,comma 2, c.c., qualora si tratti di diritto reale, la cui tutela infatti esige la rimozione del fatto lesivo, come nel caso di riduzione in pristino per violazione delle norme sulle distanze, atteso il carattere assoluto del diritto leso, tranne nell’ipotesi in cui la distruzione della res indebita mente edificata venga a costituire un pregiudizio all’economia pubblica”.
Premesso il principio di diritto generale, ne discende, pertanto, che secondo il Supremo Consesso nella fattispecie de qua, in caso di costruzioni abusive non è sufficiente il risarcimento del danno per equivalente del danneggiato confinante, ritenendosi necessario, piuttosto, il diritto alla reintegrazione in forma specifica.
IL FATTO – I giudici di merito di Firenze, a seguito di appello proposto dai difensori degli imputati condannati e dal difensore della parte civile, dichiaravano non doversi procedere nei confronti degli stessi per prescrizione dei reati loro ascritti di cui agli artt. 110 c.p. e 20, lettera b), L. 47/1985, per aver costruito un fabbricato nella città di Pistoia in assenza di concessione edilizia. Tanto premesso, in ragione di ciò, i giudici revocavano anche l’ordine di demolizione a carico degli imputati, condannandoli piuttosto al risarcimento dei danni alla parte civile da liquidarsi in separato giudizio.
Il difensore della parte civile presentava ricorso lamentando la negazione del risarcimento in forma specifica (sub specie ripristino o demolizione), motivata dai giudici territoriali, per il preteso difetto di elementi certi alla stregua dei quali poter effettuare una specifica valutazione. La parte civile rilevava altresì, fra l’altro, che l’azione civile inserita nel processo penale è rivolta a far valere tutti i diritti risarcitori e non solo il risarcimento per equivalente, evidenziando puntualmente come d’altronde il risarcimento non poteva essere impedito dall’eventualità di nuovi atti amministrativi emanandi.
DIFFERENZA TRA AZIONE DI REINTEGRAZIONE IN FORMA SPECIFICA E AZIONE DI RISARCIMENTO PER EQUIVALENTE – L’interessante pronuncia offre, tra gli altri, anche lo spunto per richiamare e puntualizzare la ratio di istituti fondamentali dell’ordinamento civile, strettamente connessi al risarcimento del danno.
Segnatamente, l’art. 2058 c.c. statuisce che il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile. Il 2° comma, poi, precisa che il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore.
La reintegrazione di cui in parola, poi, può consistere sia nella prestazione di una cosa eguale a quella distrutta, sia nella riparazione materiale delle avarie cagionate alla cosa, sia nell’eseguire, a spese dell’obbligato, autore del danno, le opere necessarie a ricondurre la cosa nello stato primitivo, eliminando ciò che è stato fatto in violazione del diritto del proprietario, come nel caso specifico delle azioni volte ad ottenere la riduzione in pristino.
Si tratta di una norma, che sebbene trovi la sua collocazione nel Libro IV, Titolo IX del Codice Civile dedicato “Dei fatti illeciti”, quale norma di chiusura insieme con l’art. 2059 c.c. del sistema risarcitorio della responsabilità aquiliana, ciò non toglie che la dottrina più arguta, con l’avallo della giurisprudenza di legittimità hanno ritenuto applicabili gli istituti de quibus anche in caso di illecito contrattuale, sull’assunto che trattasi di istituti di portata generale in materia di risarcimento del danno (cfr. Bianca, La responsabilità).
Ora, dal dato letterale succitato è facilmente inferibile come il Legislatore, inserendo una disposizione di tal sorta nel sistema civilistico, abbia inteso compiere una chiara scelta di favore nei confronti di un sistema risarcitorio del danno che predilige il risarcimento in forma specifica dell’avente diritto, rispetto ad un risarcimento per equivalente, ponendo quale limite a tale favor, l’impossibilità totale o parziale della realizzazione della stessa, ovvero l’eccessiva onerosità per il debitore.
Ciò premesso, peculiare è la differenza che caratterizza i due istituti di cui in parola.
Specificamente, il risarcimento del danno per equivalente altro non è se non una reintegrazione del patrimonio del creditore, che si realizza mediante l’attribuzione allo stesso di una somma di danaro pari al valore della cosa o del servizio oggetto della prestazione non adempiuta e, quindi, si atteggia come forma tipica di ristoro del pregiudizio subito dal creditore per effetto dell’inadempimento del debitore; mentre il risarcimento in forma specifica, essendo diretto al conseguimento dell’ eadem res dovuta, tende a realizzare, piuttosto, una forma più ampia di ristoro del pregiudizio dallo stesso arrecato, dato che l’oggetto della pretesa azionata non è costituito da una somma di danaro, ma dal conseguimento da parte del creditore danneggiato, di una prestazione del tutto analoga, nella sua specificità e integrità, a quella cui il debitore era tenuto in base al vincolo contrattuale ovvero ex lege, in caso di vincolo extracontrattuale.
Ben si comprende, allora, quella giurisprudenza tralaticia che ha più volte ribadito che costituisce, una semplice emendatio libelli, la richiesta di risarcimento per equivalente, allorché sia stato originariamente richiesto in giudizio il risarcimento in forma specifica, tenuto conto che l’istanza diretta a ottenere, in virtù di un titolo obbligatorio, la restituzione di una cosa determinata della quale il debitore più non dispone, non impedisce all’attore di avanzare la richiesta di risarcimento per equivalente, giacché in tale caso, restando immutata la causa petendi¸ il diverso petitum si rende necessario, perché il ripristino dell’originaria situazione patrimoniale non è più realizzabile e deve rendersene possibile il risarcimento per equivalente (ex multis Cass. Civ. n. 21337/2013; 12964/2005).
Non solo, ma dal dato testuale è possibile facilmente inferire che mentre la richiesta della reintegrazione per equivalente contiene quella della reintegrazione in forma specifica, sicché: domandata la prima (risarcimento per equivalente) si può sempre (validamente) invocare la seconda in corso di causa (che può anche essere concessa d’ufficio dal giudice, senza violare il principio della domanda), la richiesta della prima (esclusivamente riservata a una libera opzione processuale del soggetto danneggiato) non autorizza la scelta della seconda a opera del giudice e non postula, per la sua concessione, l’impraticabilità della riparazione in forma specifica (una per tutte Cass. Civile n. 2095/2005).
Alla luce di quanto appena detto, doverosa risulta la distinzione dell’azione di reintegra dall’azione di adempimento, posto che quest’ultima si caratterizza perché con essa il creditore agisce al fine di ottenere la realizzazione da parte del debitore della prestazione originaria e per ciò solo, presuppone che la stessa sia ancora esigibile, specificamente che il debitore sia responsabile di un mero ritardo che non abbia reso impossibile la tardiva esecuzione della prestazione de qua. In tal senso l’azione di adempimento differisce dalla succitata azione di reintegra che, come brevemente più sopra precisato, altro non è se non un rimedio risarcitorio e in quanto tale presuppone che la prestazione originaria rimasta inadempiuta si caratterizzi per la sua succedaneità, che ne consente il ristoro nelle forme, per l’appunto della reintegra in forma specifica ex art. 2058 c.c.. Ma la stessa, differisce altresì dall’azione di esecuzione forzata in forma specifica di cui agli artt. 2930 e ss. c.c. e artt. 605 c.p.c., posto che quest’ultima è lo strumento voluto dal Legislatore al fine di conferire l’imprimatur dell’esecutività al decisum dell’A.G., tenuto conto che diversamente lo ius del caso concreto sarebbe privo di efficacia cogente nei confronti dei soggetti destinatari dello stesso (Bianca, La responsabilità; Gazzoni, Manuale di diritto privato).
Ciò posto, è d’obbligo specificare che il Legislatore, se è vero che statuendo una disposizione di tal sorta ben esprime il suo favor per l’istituto della reintegrazione in forma specifica, come già detto, d’altro canto pone in essere un bilanciamento degli interessi in gioco tra le parti coinvolte nel risarcimento del danno, individuando innanzitutto un primo limite all’istituto di cui in parola statuendo nel primo comma dell’art. 2058 c.c., che la richiesta legittima da parte del danneggiato della reintegrazione in forma specifica è subordinata alla possibilità che la stessa sia realizzabile. Al 2 comma, poi, del medesimo articolo pone un ulteriore limite, imponendo al giudice nel disporre del soddisfacimento del danno con tale mezzo, purché la reintegrazione non risulti eccessivamente onerosa per il debitore.
Si capisce bene, allora, come il Legislatore, nell’inciso di cui al 2 comma, altro non opera se non un bilanciamento tra due interessi di pari rango, entrambi di natura privata, accordando -per fini di giustizia nell’economia del rapporto obbligatorio ed in piena assonanza con il più generale principio del favor debitoris – preferenza al debitore, al fine di evitare una locupletatio ingiusta per il creditore.
Ora, nel nostro ordinamento civile è possibile rinvenire, secondo autorevole dottrina, non poche ipotesi di reintegrazione in forma specifica. Alla norma generale ex art. 2058 c.c. si aggiungono, pertanto, numerose previsioni contemplate dal nostro ordinamento sia nel codice civile e non solo, che nella legislazione speciale, riconducibili nell’ampio genus della reintegrazione uti supra descritta.
Segnatamente -tra gli altri – l’art. 872, 2 comma c.c. prevede la riduzione in pristino, in materia di edilizia, ad iniziativa del privato danneggiato dall’inosservanza delle distanze nelle costruzioni; l’art. 2599 c.c. dispone che in presenza di atti di concorrenza sleale, previa domanda del concorrente danneggiato, il giudice disponga l’inibitoria onde far cessare l’attività concorrenziale lesiva e adotti i provvedimenti idonei onde rimediare al danno già prodotto dagli atti compiuti (non, dunque, con l’equivalente pecuniario ex art. 2600 c.c., ma con la restituzione in pristino); l’art. 2041 c.c., comma 2, nell’ambito dell’arricchimento ingiustificato, prevede che ove l’arricchimento abbia per oggetto una cosa determinata e questa sussiste al tempo della domanda, l’arricchito è tenuto a restituirla; l’art. 185, 1 comma c.p., nello stabilire che “Ogni reato obbliga alle restituzioni, secondo le leggi civili” prevede la materiale restituzione dello stato di fatto esistente ante delictum.
LA REINTEGRAZIONE IN FORMA SPECIFICA E I DIRITTI REALI- Se è vero, dunque, che all’art. 2058 c.c. il Legislatore compie una chiara scelta di favore per una forma di risarcimento che predilige il sistema della reintegrazione in forma specifica, è pur vero che “(…) rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito (il cui mancato esercizio non è sindacabile in sede di legittimità) attribuire al danneggiato il risarcimento per equivalente anziché in forma specifica come domandato dall’attore (la valutazione di cui all’art. 2058 , 2 comma ,c.c. del pari essendo insindacabile in sede di legittimità, risolvendosi in un giudizio di fatto)”. (Cass. Civ. 3004/2004).
Tale discrezionalità però perde la sua connotazione nella misura in cui viene promossa dal danneggiato un’azione volta a far valere un diritto reale, sub specie azioni di riduzioni in pristino, il cui carattere assoluto non è conciliabile con qualsiasi forma di reintegrazione del diritto leso che non sia quella in forma specifica (Cass. Civ. 11744/2003).
L’unico limite inerente i diritti assoluti attiene all’eseguibilità in forma specifica degli obblighi di non fare previsto dall’art. 2933, comma 2 c.c., che si riferisce esclusivamente alle cose insostituibili ovvero di eccezionale importanza per l’economia nazionale.
Caso emblematico in tal senso è certamente da rintracciarsi nella disciplina delle espropriazioni, in ordine alla quale il Legislatore ordinario sulla scorta della spinta dell’Unione Europea ha apportato un insieme di novelle, tra le altre, anche all’art. 45 T.U. sull’Espropriazioni tendenti a garantire maggiore tutela al diritto di proprietà del privato leso dalla P.A., riducendo di molto la portata applicativa del limite posto dall’interesse pubblico, offrendo sempre maggiore tutela agli interessi legittimi oppositivi dei privati.
Ora, la ratio di tale sistema normativo eccezionale in materia di diritti assoluti è facilmente comprensibile in un’ottica costituzionalmente orientata dello stesso, se solo si tiene conto che l’art. 42 Cost., ai commi 2 e 3, stabilisce rispettivamente che la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti; la proprietà privata può essere nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale.
La funzione sociale della proprietà costituisce, pertanto, la pregnante ipotesi di compressione del diritto assoluto, bilanciata dalla previsione di un ristoro in favore del privato che patisce il sacrificio, sempre più tendente, almeno in via di principio, ad una misura equa.
LA REINTEGRAZIONE E LA VIOLAZIONE DELLE NORME SULLE DISTANZE LEGALI- Ora, malgrado, come appena detto, la tendenza del Legislatore europeo a rafforzare la tutela dei privati rispetto all’eventuale arbitrio della P.A., è inconfutabile come la materia dell’edilizia sia certamente una materia di pertinenza della stessa e non solo, sia piuttosto una materia assai trasversale per disciplina di competenza, posto che il Legislatore se ne occupa, oltre che da un punto di vista amministrativistico, anche sotto il profilo civilistico e non ultimo penalistico, secondo la logica che vede la previsione e dunque la comminazione di una sanzione penale quale extrema ratio, nella progressione della gravità degli illeciti commessi, tenuto conto dell’oggetto della tutela.
In particolare, dal combinato disposto di cui agli artt. 872 e 873 c.c. si rinviene a chiare lettere che è possibile derogare alle sole previsioni che impongono i limiti di distanze legali che siano di natura civilistica e non anche quelle previste dalle norme pubblicistiche, tenuto conto che queste ultime a differenza delle prime sono poste a presidio dell’interesse pubblico.
Segnatamente, l’ordinamento civile con la disciplina dettata dagli artt. 873 e ss. risolve possibili conflitti tra i proprietari confinanti, in base al c.d. criterio della prevenzione, ossia in base alla priorità nell’esercizio dell’attività edificatoria, statuendo le norme sulle distanze legali, il cui fondamento politico, ancor prima che giuridico, si rinviene oltre che nel salvaguardare gli interessi dei proprietari frontisti, anche e soprattutto nella tutela dell’igiene pubblica e cioè che gli edifici vengano privati di aria e luce, oltre che la loro ubicazione favorisca il ristagno di acque e rifiuti (cfr. Galli, Appunti di Diritto Civile).
Vexata questio è quella relativa alla derogabilità o meno delle norme disciplinanti i rapporti di vicinato e dottrina più autorevole e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che le norme civilistiche in quanto regolano rapporti tra privati e dunque interessi di carattere privato possono essere derogate concordemente. Di contra, le norme dei regolamenti edilizi o del piano regolatore, posto che hanno per oggetto l’interesse pubblico, nonché il controllo del territorio cui è deputato la P.A., per converso non sono derogabili (cfr. Galli, Appunti di diritto civile; Galli, Corso di diritto amministrativo).
Ora, la derogabilità delle norme di matrice civilistica, nulla toglie al fatto che laddove non vi sia un accordo tra le parti in ordine alla deroga di tale disposizioni, viene a giuridica esistenza una violazione delle stesse e dunque si dà luogo ad un illecito civile, che alla stregua del combinato disposto di cui agli artt. 873 c.c e 2058 c.c. importano la sanzione della reintegrazione in forma specifica, prima ancora che il risarcimento per equivalente, per le ragioni meglio sopra esposte, ossia perché trattasi di forme di tutela civilistica offerte al diritto assoluto per eccellenza.
Relativamente, poi, all’ordinamento penale, gli illeciti edilizi sono disciplinati all’art. 44 T.U. Edilizia e, nel quadro delle previsioni incriminatrici ivi riportate, le violazioni più gravi sono rappresentate dalle seguenti: le modificazioni del territorio in funzione costruttiva realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire; la prosecuzione dell’attività edilizia nonostante l’ordine di sospensione; la lottizzazione abusiva di terreni a scopo edilizio; infine, gli interventi edilizi nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico, paesaggistico.
Segnatamente, il T.U. de quo ha chiaramente inteso delimitare il campo dell’illecito penale e modulare l’intervento sanzionatorio in ragione della gravità delle violazioni edilizie, operando in tale ottica una netta divisione tra interventi rilevanti sotto il profilo urbanistico- edilizio, per i quali è stato previsto da parte dell’amministrazione comunale il rilascio del permesso di costruire (art. 10 T. U. sull’Edil.) ed interventi minori, per i quali non è stato previsto alcun controllo (art. 6 T.U. Edil.), ovvero si è reputato sufficiente il meccanismo della DIA (art. 22 T. U. Edil.). Conseguentemente, mentre con riguardo alla violazione delle disposizioni che disciplinano il permesso di costruire, così come per gli interventi realizzati in zone sottoposte a vincoli senza le prescritte autorizzazioni, nonché per gli interventi lottizzatori abusivi, consegue l’applicazione di sanzioni oltre che amministrative anche penali ex art. 44 T.U. Edil., la violazione delle disposizioni in materia di DIA integra solo un illecito amministrativo (cfr. Galli, Appunti di Diritto Penale; Galli, Corso di Diritto Amministrativo).
Ora, tale breve panoramica era imprescindile per meglio comprendere la portata della pronuncia de qua, posto che ciò che la parte civile lamentava è che i giudici di merito, avendo dichiarato prescritto il reato di abuso edilizio, sub specie costruzione realizzata in assenza del permesso di costruire, prima ancora della condanna di risarcimento per equivalente avrebbero dovuto pronunciare condanna degli imputati alla restituzione in pristino dello stato dei luoghi ex art. 872 c.c., mediante l’ordine di demolizione della costruzione abusiva, il quale ha natura diversa rispetto a quello di demolizione in base alla normativa sull’edilizia, che costituisce sanzione amministrativa.
In particolare, sul punto la motivazione della Corte territoriale trovava la sua ratio sull’assunto che, seppure avesse ritenuto la sussistenza della violazione di norme sulle distanze legali – e dunque norme civilistiche – la difesa degli imputati avesse allegato in appello un permesso di costruire nel quale si faceva espresso riferimento ad una istanza volta ad ottenere un titolo abilitativo tale che consentisse alla parte interessata, in alternativa alla totale demolizione dell’opera realizzata, la realizzazione di un fabbricato che piuttosto utilizzasse in parte quanto già esistente, previo adeguamento alle disposizioni regolamentari sulle distanze.
La pendenza di tale procedura amministrativa, a dire della Corte territoriale, non rendeva possibile la condanna al risarcimento in forma specifica attraverso la riduzione in pristino, per mancanza di “elementi certi” per valutare se e in che misura persistessero violazioni delle norme di natura civilistica “a seguito dell’eventuale intervenuta modifica dello stato dei luoghi” in ragione dell’eventuale provvedimento emanando della P.A..
I giudici di legittimità hanno ritenuto contraddittorio il ragionamento della Corte territoriale, sull’assunto che la stessa, come da parte motiva della sentenza impugnata, avesse già accertato sia la violazione delle norme civili che di quelle penali e per ciò solo, tale accertamento non poteva essere messo in discussione da una successiva valutazione della P.A., neanche in sede di sanatoria. In tal senso allora si capisce perché la Suprema Corte, nella pronuncia che ci occupa ha cassato la sentenza dei giudici territoriali accogliendo il ricorso della parte civile, facendo riferimento a quella giurisprudenza di legittimità consolidata in forza della quale viene precisato che la tutela offerta dalle norme civilistiche degli interessi privati sotto forma di diritti soggettivi di proprietà attinenti alle distanze non patisce incidenza alcuna dai provvedimenti amministrativi concessori, sub specie il permesso di costruire in sanatoria, posto che qualora sussistono e confliggano con tali diritti per il loro contenuto, possono essere disapplicati dal giudice ordinario (cfr. Cass. Civ. n. 14022/2013).
Precisa ancora il Supremo Consesso che, così facendo viene assicurata piena tutela anche in forma specifica al privato, persino qualora ad avere violato le distanze sia la stessa P.A.. Semmai l’unico limite del diritto soggettivo rispetto alla potestà amministrativa è costituito dall’esistenza, alla base della costruzione del manufatto, sia ad opera della P.A. che da un privato, di un prevalente interesse pubblico, quale esercizio di una attività di pubblica utilità, della quale il privato viene comunque indennizzato.
In tal senso allora si giustifica la giurisprudenza citata in forza della quale “Il provvedimento di acquisizione del bene illecitamente edificato,e dell’area su cui sorge, al patrimonio del Comune, nell’ipotesi in cui il responsabile dell’abuso non provveda alla demolizione di opere eseguite in assenza di concessione, in totale difformità o con variazioni essenziali, ai sensi dell’art. 7, legge 25 febbraio 1985, n. 47 (poi art. 31 D.P.R. n. 380/2001) non può determinare il sacrificio di diritti reali di terzi su beni diversi da quello abusivo; ne consegue che detto provvedimento non è incompatibile con l’esecuzione della sentenza che abbia ordinato la riduzione in pristino della costruzione abusiva per l’accertata violazione delle distanze legali dal fondo finitimo, comparando altrimenti tale acquisizione al patrimonio comunale la costituzione ex lege di una servitù a carico della proprietà del vicino, senza indennizzo alcuno in favore di quest’ultimo”.
Sulla scorta di tanto, il Supremo Collegio giunge a concludere che “(…) non corrisponde al vero che la corte territoriale non fosse in possesso di elementi certi per valutare le violazioni delle norme civilistiche, avendo al contrario essa stessa accertato tali violazioni”. Peraltro, la Corte, evidenziando la contraddittorietà logica della motivazione della sentenza de qua, prosegue puntualizzando argutamente che “(…) se quanto affermato da essa nella parte conclusiva della sua motivazione in ordine alla inesistenza di elementi certi per escludere il risarcimento in forma specifica fosse stato fondato”, allora “avrebbe dovuto essere escluso anche il risarcimento del danno per equivalente”.
Alla luce di quanto sin qui precisato, la Suprema Corte fissa il principio di diritto seguente, secondo cui “ (…) nella liquidazione del quantum risarcibile, la misura del danno deve avere per oggetto l’intero pregiudizio, essendo il risarcimento diretto alla completa restitutio in intergrum – per equivalente o in forma specifica- del patrimonio leso; né d’altronde, la risarcibilità per equivalente può costituire un elusivo strumento di deminutio del risarcimento, il quale si conforma invece proprio alle caratteristiche del diritto leso, il che ha condotto la giurisprudenza proprio ad escludere il risarcimento per equivalente in luogo della reintegrazione in forma specifica ex art. 2058,comma 2, c.c., qualora si tratti di diritto reale, la cui tutela infatti esige la rimozione del fatto lesivo, come nel caso di riduzione in pristino per violazione delle norme sulle distanze, atteso il carattere assoluto del diritto leso, tranne nell’ipotesi in cui la distruzione della res indebitamente edificata venga a costituire un pregiudizio all’economia pubblica”.
Così facendo i giudici di legittimità hanno ritenuto fondato il ricorso proposto dalla parte civile, cassando la sentenza con rinvio.
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