Questo articolo esamina dettagliatamente il caso giudiziario di N.S. + 7, che coinvolge molteplici fasi processuali dalla prima istanza alla Corte Suprema di Cassazione. Esplora le complessità legali e le anomalie procedurali che hanno portato a decisioni contrastanti e paradossali, concludendo con un’analisi critica dell’esecuzione della sentenza. Per approfondimenti consigliamo i volumi: Dibattimento nel processo penale dopo la riforma Cartabia -Con commento e tabelle riepilogative e Come sanare gli abusi edilizi
Indice
1. I fatti in causa
Con decreto di citazione a giudizio, N.S.+ 7 venivano citati a comparire dinanzi il Tribunale collegiale di Patti (ME), per rispondere dei delitti previsti e puniti:
a)dagli artt. 110 e 323 cod. pen.;
b)dagli artt.110 cod. pen. e 44, co. 1, lett. b del T.U. Edil. D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380-già art. 20/1, lett. b. L. 1985 n. 47.
Oltre che agli imputati, il decreto de quo veniva notificato al signor B.B. e al comune di Acquedolci (ME), legale rappresentante, entrambi nella qualità di persone offese e soggetti passivi in riferimento ai reati contestati. Mentre il signor B.B. si costituiva parte civile, l’ente territoriale preferiva restare al di fuori del processo. Per approfondimenti consigliamo il volume: Dibattimento nel processo penale dopo la riforma Cartabia -Con commento e tabelle riepilogative
2. L’iter processuale di merito: abuso d’ufficio e abusi edilizi
Con sentenza n. 187/2013 del 24 maggio 2013, a conclusione del procedimento penale di prima istanza, il Tribunale penale di Patti in composizione collegiale dichiarava, in ordine ai fatti contestati, la responsabilità degli imputati N.S. + 7, rinviati a giudizio per rispondere dei reati di cui ai capi a) e b) della rubrica.
A conclusione della compiuta istruttoria dibattimentale, il Tribunale avendo dichiarato la responsabilità di tutti i prevenuti in ordine ai fatti contestati, li condannava, conseguentemente, (tenuto conto, per ciascuno di essi, dell’accertato grado di responsabilità concorsuale, dei precedenti del rituale penale, nonché della possibilità di applicazione sia delle aggravanti, che delle attenuanti previste dalla legge), alle pene edittali, sia principali che accessorie, con condanna al pagamento del risarcimento dei danni in favore del signor B.B., che, come già detto, si era costituito parte civile, oltre alla demolizione delle opere abusive realizzate.
Si riporta qui di seguito, per la migliore intelligenza della fattispecie, il dispositivo della sentenza affermativa della responsabilità dei prevenuti:
“Visti gli artt. 533 e 535 cod. proc. pen., dichiara N.S.(1), N.S. (2), N.S. (3); N.S. (4), N.S. (5), N.S. (6), N.S. (7) e N.S. (8), colpevoli dei reati ascritti e, ritenuta la continuazione tra i reati in contestazione, condanna: N.S. (5), N.S. (7), N.S. (8), alla pena di mesi cinque di reclusione.
Condanna N.S. (6), concesse le attenuanti generiche, equivalenti alla contestata recidiva, alla pena di mesi sei di reclusione.
Condanna N. S. (1), N.S. (2), N.S. (3),N.S. (4)- concesse le attenuanti generiche, alla pena di mesi otto di reclusione.
Condanna tutti gli imputati, in solido, al pagamento delle spese processuali.
Ordina la demolizione delle opere abusivamente eseguite così come descritte in rubrica, se non altrimenti eseguita.
Pena sospesa per tutti gli imputati a condizione che entro tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza provvedano alla demolizione dell’opera abusiva descritta in rubrica, se non altrimenti eseguita.
Visti gli artt. 538 e 539 cod. proc. pen., condanna gli imputati al risarcimento del danno subito dalla costituita parte civile, da liquidarsi in separata sede, nonché alla rifusione delle spese processuali da questa sostenute che si liquidano in 1.650,00.
Indica il termine di giorni 90 per il deposito della motivazione”.
Avverso la sentenza di condanna le difese degli imputati proponevano appello dinanzi la Corte territoriale. Seguiva parziale rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale.
Con sentenza n. 700/2015, emessa in data 8 luglio 2015, il giudice del gravame così decideva:
“Visto l’art. 605 cod. proc. pen., in riforma della sentenza emessa in data 24/5/2013 dal Tribunale di Patti, appellata da (seguono i nomi degli appellanti) assolve i predetti dal reato sub a), perché il fatto non costituisce reato e dal reato sub b), perché il fatto non sussiste. Indica in giorni 90 il termine per il deposito della motivazione”.
3. L’iter processuale di legittimità
Avverso la sentenza di assoluzione emessa dalla Corte d’Appello di Messina, proponeva ricorso per cassazione, di natura, come in itinere si vedrà, informativa, il signor B.B., costituito parte civile nella fase di prima istanza dinanzi il Tribunale di Patti con prosecuzione della costituzione dinanzi al giudice dell’appello.
In seno all’atto informativo, prodotto dalla parte civile dinanzi al Supremo Collegio, veniva chiarito in modo non equivoco, che il motivo sul quale si fondava la lagnanza della parte civile istante, non atteneva alla violazione, strictu sensu, di un diritto appartenente alla sfera patrimoniale dei suoi diritti soggettivi, bensì era attinente alla gravissima violazione, da parte della Corte d’Appello di Messina, di una norma del codice penale di rito posta dal legislatore a presidio di un presupposto di garanzia riguardante la corretta funzionalità dell’Organo Giudicante, quale è quella che impone (a pena di nullità assoluta, insanabile e inemendabile, rilevabile in qualsiasi stato e grado del giudizio, su notizia proveniente anche da quivis de populo o anche ex officio) l’identità del giudice dell’istruttoria dibattimentale con quello dell’emissione della sentenza (c. d. immutabilità del Giudice ex art. 525, n. 2, cod. proc. pen.) e, nel contempo, la coincidenza del collegio che si è ritirato in camera di consiglio, con l’organo giudicante che ha, poi, redatto la motivazione.
Infatti, era avvenuto che, essendo risultato impedito un consigliere della Corte territoriale nel momento processuale in cui si era oramai conclusa l’istruttoria dibattimentale e l’iter processuale stava per giungere al suo naturale approdo, il componente originario del collegio era stato sostituito da altro giudice, al quale ultimo veniva affidata la funzione di relatore del processo di cui conosceva poco o niente. Nella medesima anomalia processuale era caduto anche il presidente del collegio medesimo.
Con lo scopo esclusivo di rilevare tale monstrum processuale, la parte civile, considerata l’immobilità assunta sia da parte del collegio di difesa degli imputati, soddisfatto, evidentemente, per l’esito assolutorio comunque conseguito, che da parte della Procura Generale presso la Corte d’Appello, ha ritenuto di informare la Suprema Corte di Cassazione dell’anomalia verificatasi.
Il ricorso prodotto dalla parte civile costituita veniva assegnato alla Sezione Terza Penale della Corte Suprema di Cassazione, dinanzi alla quale veniva allibrato al n. 17151/2016.
Con sentenza n. 38854 del 7 aprile 2017, la Terza Sezione Penale del S.C., dopo avere premesso che il ricorso della parte civile, non era mirato alla riparazione della violazione di suoi diritti soggettivi, bensì a far valere, rilevandola e portandola a conoscenza del Giudice delle Regole, la violazione della norma contenuta nell’art. 525, n. 2, cod. proc. pen., riteneva assolutamente fondata la doglianza rappresentata, per cui assumeva, con sottostante ineccepibile statuizione giuridica, la seguente decisione:
“Annulla la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per valore e in grado di appello”.
Il Supremo Collegio non disponeva il rinvio dinanzi al giudice penale individuandolo e indicandolo in una Corte d’Appello diversa da quella che aveva emesso la sentenza annullata, per il semplice motivo, così come rilevato dalla difesa della parte civile, che nessuno dei soggetti processuali, cui competeva di gravare la sentenza della Corte territoriale di ricorso per cassazione, si era mosso in tal senso. Infatti, né la Procura Generale presso la Corte d’Appello, sebbene sollecitata dalla difesa della parte civile, né la difesa medesima degli imputati (che avrebbe potuto e dovuto ricorrere, in quanto il rispetto delle norme rituali rappresenta criterio imprescindibile del buon funzionamento della Giustizia, soprattutto se, come nel caso che ci occupa, la sua osservanza venga esatta dal legislatore a pena di nullità degli atti compiuti, per cui una sentenza, anche se di assoluzione, non produce alcun effetto se viene, poi, annullata), avevano impugnato, con ricorso per cassazione, la sentenza resa dalla Corte territoriale.
Malgrado la decisione a carattere terminativo della S.C., Terza Sezione Penale, la difesa degli imputati non si acquietava, proponendo, questa volta, e a sua volta, ricorso per cassazione pretendendo di fondarlo sulla motivazione per cui la Suprema Corte, Sezione Terza Penale, sarebbe incorsa in un errore di fatto e chiedendo, per questo, l’annichilimento della decisione (di annullamento) emessa.
I ricorsi venivano assegnati alla Quarta Sezione Penale del S.C., la quale, con sentenza n. 435/2018 del 9 marzo 2018, dopo avere correttamente rilevato che:
“Con memoria depositata il 19 febbraio 2018, la difesa della parte civile B.B. aveva concluso per inammissibilità-improponibilità dei ricorsi, ritenendo essersi conclusa la vicenda penale con la definitiva condanna degli imputati PER REVIVISCENZA DELLA SENTENZA DEL TRIBUNALE DI PATTI”, ha ritenuto di condividere detta posizione della parte civile ed ha, per questo, statuito di accoglierne la posizione processuale sotto il duplice profilo, sia della inammissibilità del gravame proposto dalla difesa degli imputati, che della reviviscenza della sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Patti, decidendo nel modo seguente:
“Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di duemila euro alla cassa delle ammende, nonché in solido alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile B.B. che liquida in euro duemilacinquecento oltre accessori di legge”.
A questo punto, chiunque, dotato di comune buon senso, avrebbe ritenuto la questione conclusa nell’unico modo ermeneuticamente ortodosso.
Ma non è andata così.
4. L’iter processuale di esecuzione
Conclusasi la vicenda processuale dinanzi il S.C., la parte civile costituita, con propria istanza fondata e documentata si rivolgeva al Tribunale di Patti, quale giudice dell’esecuzione penale, chiedendo che, in dipendenza della sentenza tramite la quale la S. C., Terza Sezione Penale, aveva, sic et simpliciter, annullato, senza rinvio, quella di assoluzione della Corte di Appello di Messina, per cui si poneva la reviviscenza (come annotato dal S.C.) della sentenza di condanna di primo grado emessa dal collegio del Tribunale di Patti, la Sezione del Tribunale, designata per decidere sulla esecuzione penale, volesse attivarsi al fine di dare esecuzione alla condanna emessa in primo grado.
Il Tribunale adito, in funzione di Giudice dell’esecuzione penale, ritenendo la propria incompetenza, con suo provvedimento, inviava gli atti alla Corte d’Appello di Messina ritenendola competente avendo emesso la sentenza assolutoria ed essendo il processo transitato in grado di appello nell’ambito, appunto, della sua competenza (non facendo alcuna menzione del suo annullamento ex art. 525, n. 2., cod. proc. pen., pur avendone il ricorrente dato prova negli atti).
La Corte d’Appello, appostandosi sulla stessa linea decisionale del Tribunale di Patti, dichiarava “nulla a provvedere”, sull’ evidente presupposto (anche se non lo si dice in modo espresso), che gli imputati erano risultati assolti.
Il ricorso veniva reiterato, ma seguiva la medesima sorte che è stata appena illustrata.
Prima di giungere ad interpretare l’atteggiamento della Giustizia sul caso in esame, appare opportuno richiamare, alcuni principi chiarificatori sia riguardo alla richiesta della parte civile di applicazione delle pene erogate, sia riguardo alla posizione assunta dal Tribunale di Patti, quale giudice dell’esecuzione penale.
Dalla narrazione dei fatti appare di tutta evidenza come la S. C., Sez. III^ Penale (che ha annullato la sentenza della C.A. di Messina) abbia ritenuto fondato il ricorso della parte civile, non già perché lamentava la compressione di un suo diritto soggettivo stricto sensu, ma perché denunciava un inciampo ermeneutico con grave violazione di una norma processuale, qual’ è quella contenuta nell’art. 525, n. 2, cod. proc. pen., produttiva di una nullità assoluta, insanabile e inemendabile, il cui rispetto rappresenta un dovere procedurale della Giustizia.
In conseguenza di ciò, il Giudice delle Regole ha annullato la sentenza emessa dalla Corte territoriale di Messina.
Poiché, però, la sentenza di appello non era stata impugnata nelle forme rituali previste dal codice (ricorso per cassazione da parte delle difese degli imputati o da parte della Procura Generale presso la Corte d’Appello), il S. C. non poteva effettuare alcun rinvio presso diversa Corte d’Appello del territorio che, tramite una istruzione dibattimentale legittima, avrebbe dovuto emettere altra sentenza che avrebbe dovuto prendere il posto di quella dichiarata nulla e ciò in quanto mancante formalmente agli atti una richiesta nel senso sopra espresso da parte dei legittimari.
Al contrario, “non avendo più nulla da accertare agli effetti penali” (così come esplicitamente dichiarato nel corpo della sentenza) la Sez. III^ rinviava solo per la quantificazione dei danni della parte civile e ciò in quanto, dopo avere annullato la sentenza di secondo grado, si ha, ipso jure, la reviviscenza di quella di primo grado emessa dal Tribunale di Patti, contenente la statuizione di condanna al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita, da liquidarsi in separata sede: decisione, questa, di assoluta correttezza procedurale.
A dimostrazione della correttezza del ragionamento che precede, si riporta un arresto giurisprudenziale della Cassazione assunto a SS.UU. :
“La Corte d’Appello dell’Aquila…(su impugnativa proposta dalla Pubblica Accusa) ha dichiarato la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 525, n. 2, cod. proc. pen.,in quanto nel corso del giudizio di primo grado, le prove richieste dalle parti erano state ammesse dal Tribunale in composizione collegiale diversa-limitatamente ad un componente del collegio-e pronunciato la sentenza per cui, trattandosi di una nullità assoluta e, quindi, insuscettibile di sanatoria, risultava irrilevante il comportamento eventualmente acquiescente delle parti”. Conseguentemente la S. C. “annulla la sentenza impugnata e rinvia per il nuovo giudizio dinanzi diversa Corte d’Appello (per la precisione di Perugia) (Cass. SS.UU. Penali, sent. n. 41736 del 30 maggio 2019)”: in tale fattispecie il rinvio dinanzi la diversa Corte d’Appello di Perugia era assolutamente obbligatorio, in quanto la sentenza era stata impugnata dalla Pubblica Accusa, diversamente dal caso di cui oggi ci stiamo occupando nel quale l’impugnativa da parte dei soggetti legittimati a proporla è stata del tutto latitante.
E’ pacifico come la dichiarazione di nullità della sentenza di assoluzione ex art. 525, n. 2, cod. proc. pen. che era stata emessa dalla Corte d’Appello di Messina, produca l’effetto del totale e insanabile annichilimento dell’atto giuridico affetto dalla patologia di irritualità (che, quindi, dovrà essere considerato, a tutti gli effetti, non solo inutiliter datum, ma soprattutto tamquam non esset, ossia come se quel Giudice non l’avesse mai emesso).
La sentenza, quindi, della Corte del territorio non può svolgere alcun effetto giuridico, né assolutorio, né condannatorio, né (se fosse possibile) di non liquet.
Se non fosse così, infatti, non solo la dichiarazione di nullità non servirebbe proprio a niente, ritenendo, con questo, del tutto superfluo l’iter processuale compiuto dalla Sezione III^ del S.C., quanto se la sentenza di appello fosse stata impugnata dalla Procura Generale presso il Giudice a quo, oppure dal collegio di difesa degli imputati, la Suprema Corte delle Regole avrebbe dovuto necessariamente rinviare dinanzi altra, diversa Corte d’Appello per l’instaurazione, ex novo, del giudizio di secondo grado, all’esito del quale l’emittenda sentenza avrebbe preso il posto, in locum et jus, della sentenza d’appello dichiarata nulla e avrebbe, simultaneamente, o confermato la sentenza di primo grado, in ipotesi di rigetto dei gravami proposti, oppure la avrebbe modificata, in ipotesi di accoglimento dei gravami stessi.
E’ appena il caso di rammentare come l’art. 178 cod. proc. pen. si riferisca alle nullità di ordine generale in cui incorrono tutti quegli atti procedurali adottati non osservando, anzi violandole, le prescrizioni in esso contenute.
Il susseguente art. 179 del medesimo codice di rito ribadisce, in modo chiaro e ineludibile, che sono da considerarsi insanabili e, inoltre, rilevabili d’ufficio (e, dunque, anche ad impulso della parte civile malgrado la decisione non sia direttamente lesiva dei suoi diritti soggettivi intesi, stricto sensu) in ogni stato e grado del procedimento, le nullità previste dall’art. 178 cod. proc. pen., con l’aggiunta, pro ermeneuta, di quanto contenuto al n. 2 del medesimo articolo che così recita: “Sono altresì insanabili e sono rilevate d’ufficio le nullità definite assolute da specifiche disposizioni di legge”.
Esprimendosi come sopra. l’art. 178, n. 2 non fa altro che effettuare un rinvio in bianco a tutte quelle norme che, facenti parte del diritto positivo vigente, definiscano come assolute determinate nullità, disponendo, come giuridica conseguenza, che esse siano da ritenersi insanabili e, anche, rilevabili ex officio in ogni stato e grado del procedimento.
E’ evidente che tra le norme del diritto positivo vigente nel suo complesso, alle quali l’art. 178 opera un esplicito rinvio, questa volta non più in bianco, ma ad hoc, rientri la previsione normativa dell’art. 525 cod. proc. pen., il quale in un suo specifico locus letterario, quello costituito dal co. 2, riferendosi alla sentenza penale, ha la seguente recitazione:
“Alla deliberazione concorrono, A PENA DI NULLITA’ ASSOLUTA, gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento”
“Il principio di immutabilità del giudice previsto dall’art. 525, n.2, prima parte, cod. proc. pen., impone che il giudice che provvede alla deliberazione della sentenza sia non solo lo stesso giudice davanti al quale la prova è assunta, ma anche quello che ne ha disposto l’ammissione, fermo restando che i provvedimenti sull’ammissione della prova emessi dal giudice diversamente composto devono intendersi confermati, se non espressamente modificati o revocati” (Cass. Pen. SS.UU., 10 ottobre 2019, n. 41736).
Per ciò che attiene alla diversa composizione del Collegio della Corte d’Appello di Messina, secondo il rilievo effettuato dalla parte civile B.B., la S.C., Sez. III^ Pen., ha così deliberato (pag. 5, Considerazioni in diritto, n. 2):
“E’ fondato il primo e pregiudiziale motivo di ricorso laddove si lamenta la difformità nella composizione tra il collegio che, all’udienza dell’ 8-7-2015, ebbe a decidere sugli atti di appello e il collegio che ebbe a redigere la motivazione della stessa decisione, depositata in data 2-10-2015”.
E, ancora (pag. 6, nn.2 e 3):
“Deve ricontrarsi, come già anticipato, la fondatezza della doglianza incentrata sulla difformità tra collegio decidente e collegio successivamente redigente la motivazione, circostanza, questa, indubbiamente tale da integrare la violazione dell’art. 525, comma 2, cod. proc. pen.- Infatti, come illustrato sopra, la motivazione della sentenza risulta essere stata sottoscritta dal consigliere estensore G. e dal presidente C., che tuttavia non risultano, in base al verbale dell’udienza di decisione dell’ 8-7-2015 in atti, avere composto il collegio decidente”.
E, per finire (pag. 7):
“P.Q.M., annulla la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello” (E ciò anche per la liquidazione delle spese alla parte civile relative al ricorso).
L’illustrazione che precede è la ricostruzione fedele dei fatti e delle circostanze così come si sono svolti. Ancora oggi la parte civile, costituita in primo grado e insistente nella costituzione durante le successive tre fasi del procedimento penale (una in appello e due in cassazione), si chiede perchè dal Tribunale di Patti, in funzione di Giudice dell’esecuzione penale, non sia stata applicata la sentenza condannatoria emessa dallo stesso Tribunale della cognizione penale il quale, addirittura, si è dichiarato incompetente con conseguente invio degli atti alla Corte di Appello di Messina, con evidente violazione della norma contenuta nell’art. 665 cod. proc. pen., il quale al suo n. 3, così recita:
“Quando vi è stato ricorso per cassazione (606) e questo è stato dichiarato inammissibile o rigettato, ovvero quando la Corte ha annullato senza rinvio il provvedimento impugnato, è competente il giudice di primo grado”.
Dall’inciso sopra riportato, che, come già affermato, è stato escerpito in modo letterale dall’art. 665 del codice di rito, si ricava, agevolmente e definitivamente, il principio seguente:
“Se la norma individua il giudice dell’esecuzione penale in quello della cognizione di primo grado, da ciò deriva, in modo matematicamente consequenziale, che nell’ipotesi trattata rivive la sentenza di prime cure, ovverosia, per il caso che oggi ci occupa, la sentenza di condanna del Tribunale di Patti”.
Come è facilmente intuibile, il caso, così come si è evoluto, rappresenta un vero e proprio monstrum juris, soprattutto perché con tale atteggiamento è come se la sentenza del Supremo Collegio, Sezione Terza Penale non fosse stata mai emessa. In altri e più chiari termini, avere dichiarato la nullità della sentenza di appello sarebbe, dunque, (ed è stato) un lavoro inutile in quanto non produttivo di alcun effetto giuridico: anzi, a bene vedere, sarebbe produttivo esclusivamente di un effetto esattamente contrario a quello predisposto dall’ordinamento giuridico vigente, come se la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Messina fosse da ritenersi legittima poiché non è intervenuto su di essa alcun provvedimento censorio.
Tali risultati sono davvero paradossali, in quanto, mentre sul piano giuridico gli imputati sono stati dichiarati colpevoli dei fatti contestati, sul piano pratico e fattuale essi stanno beneficiando di una assoluzione sui generis, che non può essere definita se non di fatto, e non certo di diritto.
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