Fatto
La vicenda che ha dato origine alla decisione oggetto del presente commento riguarda la richiesta di risarcimento dei danni per violazione del consenso informato avanzata da un paziente nei confronti di un Ospedale veneto e del medico oculista a seguito di una terapia farmacologica somministratagli, da cui era scaturita una patologia al rene del paziente medesimo.
In particolare, sosteneva il danneggiato di essersi rivolto alla struttura sanitaria e al medico oculista perché affetto da una malattia agli occhi e che l’oculista gli aveva somministrato dei farmaci per la cura di detta malattia senza averlo monitorato prima e dopo il trattamento e soprattutto senza avergli fornito tutte le informazioni sulle possibili conseguenze negative collegate al trattamento farmacologico. A seguito dell’assunzione dei farmaci prescritti, il paziente subiva una disfunzione renale dovuta proprio all’uso del farmaco.
In ragione di ciò, il paziente si rivolgeva prima al Tribunale di primo grado, che però rigettava la sua richiesta risarcitoria nei confronti dell’Ospedale e del medico, e successivamente alla Corte di Appello di Venezia, che confermava la decisione di primo grado.
Il paziente adiva, quindi, la Corte di Cassazione ritenendo la decisione di secondo grado errata nella misura in cui il collegio non aveva riconosciuto la violazione del proprio diritto a scegliere di rifiutare la terapia farmacologica proposta dall’oculista, per evitare il rischio degli effetti collaterali al proprio rene, e quindi a scegliere di mantenere la patologia oculistica piuttosto che rischiare l’insorgere di una nuova patologia renale. In altri termini, il motivo del ricorrente si basa sulla mancata corretta informazione da parte dell’oculista che non gli ha permesso di conoscere gli effetti collaterali connessi all’assunzione del farmaco e conseguentemente non gli ha permesso di decidere di non curarsi.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso promosso dal paziente e ha quindi cassato la decisione di seconde cure, riportando un’accurata disamina dei principi applicabili in materia di consenso informato.
In primo luogo, gli Ermellini hanno ricordato che l’acquisizione del consenso informato del paziente è una prestazione a carico del medico separata e distinta rispetto alla prestazione di cura del paziente e quindi deve essere autonomamente valutata per verificare la eventuale responsabilità del medico per il caso in cui tale consenso informato non venga acquisito correttamente.
Dal punto di visto dal paziente, quindi, vi sono due distinti diritti in capo a quest’ultimo:
- il consenso informato è inerente al diritto all’autodeterminazione del paziente, cioè alla sua consapevole adesione (o meno) al trattamento sanitario che il medico gli propone per curare la patologia, esplicazione del principio costituzionale secondo cui nessuno può essere obbligato a subire un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge;
- il trattamento medico terapeutico, invece, è inerente al diritto alla salute del paziente, quindi tutela detto diverso diritto.
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In considerazione del fatto che si tratta di due distinti diritti, quindi, i giudici devono analizzare e valutare entrambe le relative prestazioni del medico in maniera distinta per verificare se uno di essi sia stato leso.
Conseguentemente, prosegue la Cassazione, nel caso in cui non sia stato validamente acquisito un consenso informato del paziente, l’intervento del medico è sempre illecito (a meno che non si rientri nei casi di trattamento sanitario obbligatorio per legge), anche nel caso in cui detto intervento sia posto in essere nell’interesse del paziente e addirittura anche quando il suo risultato sia totalmente favorevole per il paziente. Ciò in quanto il consenso informato è la base che legittima il trattamento sanitario.
Il consenso informato si sostanzia nell’obbligo a carico del medico di fornire al paziente tutte le informazioni circa le prevedibili conseguenze che possono derivare a carico del paziente che si sottopone ad un trattamento medico. Ciò in modo che egli possa decidere in maniera consapevole se effettuare o meno il trattamento stesso.
Affinché il consenso sia effettivamente consapevole, l’informazione fornita dal medico deve:
- avere ad oggetto i rischi di un esito negativo del trattamento sanitario nonché di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente e anche di una possibile inutilità del trattamento stesso (cioè del fatto che il trattamento potrebbe non portare alcun effetto migliorativo della patologia);
- essere espressa in termini e con un linguaggio adatti al livello culturale del paziente che riceve l’informazione e per lui comprensibili, anche in relazione allo stato soggettivo in cui il paziente si trova e il livello di conoscenze specifiche di cui egli dispone.
Inoltre, la Corte Suprema ha precisato che il consenso informato del paziente deve essere acquisito anche quando la probabilità che si verifichi l’evento pregiudizievole per il paziente siano talmente basse da essere prossime al caso fortuito nonché quando invece sono così alte da rendere quasi certo che detto evento si verifichi. Ciò in considerazione del fatto che soltanto il paziente deve compiere la valutazione dei rischi connessi al trattamento.
Infine, gli Ermellini hanno evidenziato come la prestazione del consenso informato da parte del paziente non può mai essere presunta o tacita, ma deve sempre essere fornita dal paziente, dopo che egli ha ricevuto appunto un’adeguata informazione in maniera esplicita. Ciò che può essere fornita in via presuntiva è soltanto la prova che il paziente abbia effettivamente reso un consenso informato in modo esplicito. Il relativo onere probatorio, poi, grava totalmente sul medico e sulla struttura sanitaria: che dovranno appunto dimostrare di aver fornito al paziente le informazioni di cui sopra (con le caratteristiche poc’anzi indicate) e che il paziente ha manifestato in maniera esplicita il proprio consenso all’esecuzione del trattamento. Da un punto di vista pratico, gli Ermellini hanno in via esemplificativa rilevato come sia stato ritenuto non valido un consenso che era stato ottenuto dalla struttura sanitaria attraverso la sottoposizione e la sottoscrizione da parte del paziente di un modulo del tutto generico oppure un consenso prestato oralmente da cui non era possibile avere la certezza che il paziente avesse ricevuto le informazioni necessarie.
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