Adozione persona maggiorenne: derogabilità divario minimo di età

Marco Rossi 29/09/23

L’adozione di persona maggiorenne è un tema comunemente relegato in secondo piano rispetto alla più ampiamente studiata e regolamentata adozione di soggetti in età minorile. Differentemente dalle altre tipologie di adozione, l’istituto in questione, disciplinato dagli articoli 291e ss. del codice civile, nasce con lo scopo di tutelare l’interesse dell’adottante, generalmente privo di discendenza, a trasmettere il proprio cognome e ad evitare quanto più possibile la dispersione del patrimonio ereditario. Successivamente alla sentenza n. 557 del 19 maggio 1988 emanata dalla Corte Costituzionale, si estende la possibilità di ricorrere all’adozione di persona maggiorenne anche ai soggetti che non siano necessariamente privi di discendenti legittimi facendo venir meno, di fatto, il precedente rigore della ratio dell’istituto e consentendo una più vasta applicazione di questa particolare forma di adozione in favore di una documentata affectio familiaris.
Tuttavia, anche a seguito dell’intervento del giudice delle leggi, permangono valide le disposizioni circa l’età minima dell’adottante e sul divario di età minimo tra le parti coinvolte nel processo adottivo. In merito a quest’ultimo requisito si è discusso in giurisprudenza circa la possibilità di derogare al limite che, seppur imposto da una norma imperativa, appare contrastare con il moderno ordinamento giuridico per la via della sua anacronistica attitudine all’ingerenza nei rapporti familiari.

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Indice

1. L’adozione di persona maggiorenne


La legge consente, alle persone che abbiano compiuto almeno trentacinque anni di età e che non abbiano figli minori o incapaci di esprimere valido consenso, di adottare un soggetto maggiorenne. Trattasi di una specifica tipologia di adozione, la cui procedura presenta sostanziali differenze rispetto all’adozione di minori: essa non incide in alcun modo sui diritti e i doveri dell’adottato verso la sua famiglia di origine e non da vita ad alcun rapporto civile verso i parenti dell’altra parte. Inoltre, l’istituto, estraneo a qualsivoglia scopo educativo o formativo, non attribuisce alcun potere personale all’adottante nei confronti dell’adottato. Come anticipato in introduzione, l’istituto dell’adozione di maggiorenne, nella sua configurazione contemporanea, non è più primariamente indirizzato a soddisfare un interesse economico dell’adottante; piuttosto, esso funge da meccanismo giuridico per la formalizzazione e il consolidamento di relazioni familiari di fatto preesistenti, stabilite e assestate nel corso del tempo.
Il legame che sorge dall’adozione è limitato agli attori della vicenda e implica, quindi, il consenso sia da parte dell’adottante che dell’individuo adottando. L’art. 297 c.c. prevede che vi sia inoltre  “l’assenso dei genitori dell’adottando e l’assenso del coniuge dell’adottante e dell’adottando, se coniugati e non legalmente separati”. Per di più, in virtù delle sentenze della Corte Costituzionale n. 227 del 1998 e n. 245 del 2004, si rende indispensabile ottenere il consenso degli eventuali figli maggiorenni dell’adottante, ove presenti.
Un primo ed immediato effetto prodotto dall’adozione di un individuo maggiorenne è l’assunzione da parte dell’adottato del cognome dell’adottante. Conformemente a quanto stabilito dall’art. 299 c.c., primo comma, il cognome dell’adottante deve essere anteposto a quello dell’adottato. Nel caso in cui a procedere all’adozione sia una coppia coniugata, sempre l’art. 299 c.c., al quarto comma, prevede che l’individuo adottato assuma il cognome del marito. Si è visto, molto recentemente, come quest’ultima disposizione sia da reputarsi, avuto riguardo dei principi sanciti dalla Costituzione, parzialmente illegittima “nella parte in cui non consente ai coniugi, in caso di adozione compiuta da entrambi, di attribuire, di comune accordo, anche il cognome materno al momento dell’adozione[1] e come, al fine di tutelare il proprio diritto all’identità, l’adottato maggiorenne possa aggiungere anziché anteporre il cognome dell’adottante al proprio[2].
Oltre agli effetti inerenti al cognome e al reciproco obbligo alimentare ex artt. 433 e 436 che sorge tra adottante e adottato, quest’ultimo succede mortis causa al primo con gli stessi diritti dei figli. Si sottolinea che, in materia di successione, l’adottato è l’unica parte nei quali confronti sorgono nuovi diritti, differentemente dall’adottante che – coerentemente con la ratio originaria dell’istituto dell’adozione di maggiorenne – non acquista alcun diritto di successione nei confronti dell’adottato.


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2. Condizioni per l’adozione in merito all’età delle parti


L’art. 291 stabilisce imperativamente che possono procedere con l’adozione di un maggiorenne le persone “che hanno compiuto gli anni trentacinque e che superano almeno di diciotto anni l’età di coloro che essi intendono adottare”. La disposizione continua, al secondo comma, prevedendo la possibilità per il tribunale di derogare al limite di età di trentacinque anni quando “eccezionali circostanze lo consigliano” e qualora l’adottante abbia raggiunto l’età di almeno trent’anni. Nulla viene previsto dalla legge in deroga al divario minimo di diciotto anni che appare quindi, di primo impatto, vincolante e non superabile mediante le ordinarie tecniche di interpretazione della legge.
Volendo approfondire l’intento del legislatore nello stabilire tali limiti di età, esso è evidentemente connesso all’esigenza di instaurare il rapporto di adozione all’interno di un contesto quanto più risembrante la filiazione naturale (adoptio enim naturam imitatur). Permettere, ad esempio, ad un soggetto di appena venticinque anni di adottare una persona maggiorenne – pur legata ad esso da una comprovata affectio familiaris – non potrebbe in alcun modo dirsi in linea con il principio per cui le adozioni, generalmente dette, devono tendere, per quanto possibile, al rapporto familiare naturale.

3. Derogabilità del divario minimo di età


Nel corso degli ultimi anni, la Corte Suprema di Cassazione ha valutato positivamente la possibilità di operare l’adozione di persona maggiorenne in deroga al limite del divario minimo di età tra adottante e adottato. A detta degli ermellini, la norma dell’art. 291 c.c., nel richiedere la differenza di diciotto anni tra le parti coinvolte nel processo di adozione, “appare una evidente ingiusta limitazione e compressione dell’istituto dell’adozione di maggiorenni, nell’accezione e configurazione sociologica assunta dall’istituto negli ultimi decenni, in cui – come è indiscusso sia in dottrina che nella giurisprudenza – ha perso la sua originaria connotazione diretta ad assicurare all’adottante la continuità della sua casata e del suo patrimonio, per assumere la funzione di riconoscimento giuridico di una relazione sociale, affettiva ed identitaria, nonché di una storia personale, di adottante e adottando, con la finalità di strumento volto a consentire la formazione di famiglie tra soggetti che, seppur maggiorenni, sono tra loro legati da saldi vincoli personali, morali e civili[3].
Il giudice di legittimità riconosce, pertanto, l’evoluzione della natura dell’istituto, oggi considerato di valenza solidaristica, ritenendo il limite dei diciotto anni “un ostacolo rilevante ed ingiustificato all’adozione dei maggiorenni, un’indebita ed anacronistica ingerenza dello Stato nell’assetto familiare in contrasto con l’art. 8 Cedu, interpretato nella sua accezione più ampia riguardo ai principi del rispetto della vita familiare e privata[4]. Oltre a ciò, si evidenzia come il limite di cui all’art. 291 c.c. contrasti, ove venga interpretato in senso letterale, con l’art. 2 Cost. poiché impedirebbe alla parte adottata di formalizzare un rapporto di affectio fattuale e consolidato nel tempo. Inoltre, considerata l’ingiustificata e irragionevole disparità di trattamento tra l’adottando maggiorenne che presenti una differenza di età di diciotto anni e quello che invece “presenti una differenza d’età marginalmente inferiore al tetto legale”, l’applicazione letterale della norma circa il divario di età può dirsi contrastante anche con l’art. 3 Cost.
Sulla base delle precedenti considerazioni sull’interpretazione evolutiva delle disposizioni circa l’adozione di persona maggiorenne e visti i profili di contrasto con le fonti di rango costituzionale e sovrannazionale, la giurisprudenza della Cassazione, rivolgendosi al giudice che debba pronunciarsi sull’adozione di un soggetto maggiorenne, stabilisce il principio per il quale “nell’applicare la norma che contempla il divario minimo d’età di diciotto anni tra l’adottante e l’adottato, deve procedere ad un’interpretazione costituzionalmente compatibile dell’art. 291 c.c., al fine di evitare il contrasto con l’art. 30 Cost., alla luce della sua lettura da parte della giurisprudenza costituzionale e in relazione all’art. 8 della Convenzione Europea per la Protezione dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali, adottando quindi una rivisitazione storico-sistematica dell’istituto, che, avuto riguardo alle circostanze del singolo caso in esame, consenta una ragionevole riduzione di tale divario di età, al fine di tutelare le situazioni familiari consolidatesi da lungo tempo e fondate su una comprovata affectio familiaris[5].
In altre parole, per il suddetto principio di diritto vivente, il giudice avente ruolo nel processo di adozione deve necessariamente tenere conto delle circostanze del caso, interpretando la regola conformemente alle fonti di rango superiore e dando tutela alle situazioni familiari di fatto, potendo così derogare – seppur marginalmente – alla norma sul divario minimo di età.
Le prove sulla sussistenza di un concreto interesse meritevole di tutela acquisiscono quindi maggiore rilevanza nel processo decisionale del giudice, specialmente nel caso in cui questo debba ricorrere al summenzionato modus interpretativo dell’art. 291 c.c., per permettere all’adozione di operare a suggello di una oramai consolidata situazione familiare di fatto e a giustificare un’eventuale riduzione dei termini imperativi.

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Note

  1. [1]

    Corte Cost., 8 novembre 2016, n. 286;

  2. [2]

    Corte Cost., 10 maggio 2023, n. 135;

  3. [3]

    Cass. civ., Sez. I, 3 aprile 2020, n. 7667;

  4. [4]

    ibid;

  5. [5]

    ibid;

Marco Rossi

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