Affermazioni del detenuto, idonee ad orientare la procedura ex art. 35 ter ord. pen.

La particolare condizione del soggetto ristretto realizza le condizioni – nei procedimenti instaurati ai sensi dell’art. 35 ter ord. pen. – per l’inversione dell’onere della prova, nel senso che l’affermazione dell’istante (contenuta in istanza ammissibile e riscontrata quanto alla avvenuta privazione di libertà nel periodo indicato) è da ritenersi assistita da una presunzione relativa di veridicità dei suoi contenuti che è compito dell’amministrazione ribaltare attraverso la produzione di elementi di smentita idonei.

(Annullamento con rinvio)

(Normativa di riferimento: Ord. pen., art. 35 ter)

Il fatto

Il Tribunale di Sorveglianza di Sassari, con decisione emessa in data 23 marzo 2017, respingeva il reclamo proposto avverso la decisione del Magistrato di Sorveglianza di Sassari in procedura ex art. 35 ter ord. pen.  (risarcimento da trattamento detentivo inumano o degradante).

Quanto al diniego di accesso al rimedio compensativo per il periodo trascorso dal detenuto nella casa di reclusione di Napoli, previa identificazione del periodo di detenzione, così come prospettato dal reclamante nella istanza originaria (dal 1995 al 1997), il Tribunale affermava che la Direzione della casa di reclusione non fosse stata in grado di fornire elementi conoscitivi sulle condizioni di detenzione, atteso il tempo trascorso.

Ciò conduceva, secondo il Tribunale, al rigetto della domanda, atteso che non veniva ritenuto possibile accertare la violazione ‘esclusivamente’ sulla base delle indicazioni contenute nella domanda iniziale del detenuto che, ad avviso del Tribunale, era stata carente di specificità.

Il reclamo veniva, altresì, respinto in riferimento al periodo di detenzione sofferto in Trapani, in virtù delle precise informazioni fornite dalla amministrazione penitenziaria, tali da escludere la fondatezza in fatto della domanda.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso detta ordinanza proponeva ricorso per cassazione – con personale sottoscrizione – il detenuto, deducendo violazione di legge.

In riferimento al periodo detentivo sofferto in Trapani il ricorrente ribadiva come il locale bagno non fosse separato dalla camera detentiva.

In riferimento al periodo detentivo sofferto in Napoli il ricorrente evidenziava invece di aver indicato tutte le conoscenze in suo possesso, relative al sovraffollamento, e riteneva ingiusto il diniego, posto che non era intervenuta smentita alcuna da parte dell’amministrazione, in assenza di dati disponibili.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione accoglieva il ricorso proposto in riferimento al periodo di detenzione sofferto in Napoli mentre la parte del ricorso relativa alle condizioni detentive vissute in Trapani, si stimava manifestamente in fatto risolvendosi in una mera riproposizione dei contenuti del reclamo.

Le ragioni che hanno indotto i giudici di Piazza Cavour ad addivenire a questa scelta decisoria sono le seguenti.

Prima di tutto gli ermellini osservavano che, quanto al periodo detentivo sofferto in Napoli, non poteva parlarsi di genericità dell’istanza introduttiva, essendo stato indicato in sede di primo reclamo il periodo di detenzione (risultato conforme ai dati storici), il luogo di detenzione e la ragione essenziale della domanda di ristoro (fenomeno del sovraffollamento, che pacificamente rientra nella nozione di trattamento inumano o degradante).

Di conseguenza, ad avviso della Corte, risultavano dunque integrati i requisiti di validità della domanda, atteso che, come più volte affermato sempre dalla Corte di legittimità, in tema di reclamo ai sensi degli artt. 35-ter, ord. pen., la natura essenzialmente compensativa, più che risarcitoria in senso stretto, dell’azione, finalizzata ad ottenere una riparazione effettiva delle violazioni dell’art. 3 CEDU, derivanti dal sovraffollamento, esclude che la domanda debba essere corredata dalla indicazione precisa e completa degli elementi che si pongono a fondamento della stessa; ne consegue che ai fini dell’ammissibilità del reclamo è sufficiente l’indicazione dei periodi di detenzione, degli istituti di pena e delle specifiche condizioni detentive, in relazione ai quali l’interessato deduce un trattamento penitenziario subito in violazione dell’art. 3 Cedu (tra le molte, Sez. I n. 876 del 16.07.2015, rv. 265855).

Da ciò se ne faceva derivare la erroneità in diritto della decisione impugnata che essenzialmente si fondava: a) sul rilievo di genericità della domanda, come si è detto, non fondato; b) in ogni caso sulla insufficienza dei contenuti della domanda a determinare la ‘prova’ della esistenza della violazione.

Quanto al secondo aspetto, gli ermellini facevano presente come la Cassazione avesse già avuto modo di affermare (in due decisioni, entrambe non massimate, Sez. I n. 46543/2017 e n. 46435/2017) che lì dove la domanda introduttiva del detenuto sia ammissibile il Tribunale di Sorveglianza, in presenza di contrasto con affermazioni di segno contrario introdotte dall’Amministrazione, ha il dovere di attivare i propri poteri di accertamento ex officio (ai sensi dell’art. 666 comma 5 cod. proc. pen.) lì dove residuino dubbi; inoltre, nel caso in cui le informazioni sul periodo di detenzione, da parte dell’Amministrazione, manchino (ferma restando la conferma dello stato detentivo) il reclamo va deciso in senso favorevole all’istante, sulla base del principio della «vicinanza della prova», già affermato in più arresti dalla giurisprudenza civile.

Tali principi, non solo vengono ribaditi in questa pronuncia, ma sono ulteriormente specificati nel senso di stabilire quali siano i criteri di metodo che il Tribunale di Sorveglianza è tenuto ad adottare in simili casi, aspetto che non risulta espressamente normativizzato, almeno nel corpo della disposizione di cui all’art. 35 ter nè in quella di cui all’art. 35 bis ord. pen. (contenente i riferimenti in rito), e ciò anche perché tale disposizione legislativa, come è noto, fa rinvio al modello procedimentale di cui all’art. 666 cod. proc. pen., che parimenti non contiene regole di valutazione degli elementi di prova.

Posto ciò, i giudici di legittimità ordinaria mettevano innanzitutto in evidenza come nell’intero sistema esecutivo manchi una disposizione espressa che orienti l’interprete sulle regole di introduzione e valutazione della prova, il che determina la necessità di far riferimento ai principi generali dell’ordinamento.

Infatti, prosegue la Corte nel suo ragionamento decisorio, se è vero che il giudizio di cognizione penale è ispirato ancorato al cosiddetto principio dispositivo (art.190 co. 1 cod. proc. pen.) ampiamente temperato dalla possibile iniziativa di completamento istruttorio ex officio (art. 190 comma 2 cod. proc. pen.), in un contesto dominato dalla presunzione di non colpevolezza (art. 27 Cost.) e dal correlato onere dimostrativo incombente sulla pubblica accusa, è altrettanto vero che il  procedimento esecutivo è, per converso, caratterizzato da pluralità e diversificazione di oggetti e di attori, il che determina seri interrogativi circa la possibilità di ritenere vigenti i medesimi principi della cognizione e l’unica disposizione dedicata dal legislatore in via diretta a profili ricostruttivi è quella dell’art. 666 comma 5 cod. proc. pen., tesa a ribadire l’esistenza – anche in sede esecutiva – del potere di completamento istruttorio di ufficio.

Al contempo si evidenziava come l’esistenza dell’obbligo del giudice di provvedere con ordinanza motivata (ed impugnabile) fosse indicativa del dovere argomentativo in fatto del giudice della esecuzione, non ancorato – tuttavia – ad un criterio specifico di valutazione della prova fermo restando che ciò determina talune difformità di vedute – emerse anche nella presente sede di legittimità – tra i sostenitori, in via interpretativa, della ‘trasposizione’ del principio (vigente in cognizione) della necessità di provare il fatto costitutivo della domanda (anche se l’attore è il condannato) con assoluta pienezza (in tal senso, di recente Sez. I n. 11313/2018 ric. omissis) ed arresti che ritengono possibile una parziale attenuazione dell’onere dimostrativo lì dove l’attore in sede esecutiva sia il soggetto condannato (Sez. I n. 31690/2017 ric. omissis) in sede di accesso a misure alternative o ad altri istituti di favore previsti dalla legge di ordinamento penitenziario.

In simile quadro, peraltro, si rilevava come la procedura di cui all’art.35 ter, tesa alla verifica del rispetto – o meno – delle condizioni di legalità convenzionale della detenzione, avesse caratteristiche sue proprie, trattandosi non già di delibare una domanda di ammissione ad un beneficio di legge (con effetti, in tesi, migliorativi della condizione), quanto di riconoscere – o meno – l’esistenza di un condotta dell’Amministrazione, in tema di offerta complessiva rivolta al soggetto ristretto, tale da violare il divieto di trattamenti inumani o degradanti, principio fondamentale con rilevanza costituzionale (art. 27 Cost.) e convenzionale (art. 3 Cedu) e quindi pur non trattandosi – come si è affermato in numerosi arresti – di un contenzioso civilistico in senso stretto, si reputava evidente come le coordinate in cui si è mosso il legislatore, dato il monito contenuto nella decisione Corte Edu Torreggiani ed altri – fossero quelle della rapidità, effettività ed adeguatezza dello strumento giuridico posto a disposizione del soggetto privato della libertà, come precisato dalla stessa Corte Costituzionale nella decisione numero 204 del 2016.

Evidenzia inoltre la Corte che in tale arresto, intervenuto sul tema della esistenza e adeguatezza del ristoro nei confronti del soggetto condannato all’ergastolo non soltanto si ribadiva che l’art. 35 ter ord. pen. è la risposta che il legislatore ha dato alle sollecitazioni – provenienti prima dalla sentenza Torreggiani della Corte di Strasburgo e dopo dalla sentenza 279 del 2013 della stessa Corte costituzionale – affinché “fosse garantita una riparazione effettiva delle violazioni della CEDU derivanti dal sovraffollamento carcerario in Italia” (§ 1 del cons. dir.), ma si realizza un legame ben preciso tra ratio legis e tecniche interpretative della disposizione in parola, già ipotizzato come possibile in precedenti arresti di questa Corte di legittimità, posto che con la sentenza Torreggiani la Corte di Strasburgo ha chiesto all’Italia di introdurre procedure attivabili dai detenuti per porre fine e rimedio a condizioni di detenzione o a trattamenti carcerari in contrasto con l’art. 3 della CEDU, le quali, a differenza di quelle al momento in vigore, avrebbero dovuto essere accessibili ed effettive; deve trattarsi, in altri termini, di procedure idonee a produrre rapidamente la cessazione della violazione e, anche nel caso in cui la situazione lesiva fosse già cessata, ad assicurare con rapidità e concretezza forme di riparazione adeguate e questa richiesta deve costituire un indefettibile criterio ermeneutico ai fini della corretta applicazione della disciplina successivamente introdotta dal legislatore (3 cons. dir.).

Questa impostazione, ritenuta condivisibile dalla Cassazione, conduceva la medesima a ritenere doverosa l’adozione di una tecnica interpretativa che verifichi la possibilità o meno di riconoscere – in ragione della asimmetria delle condizioni di fatto tra detenuto ed amministrazione quanto all’accesso a determinate informazioni – attenuazioni della rigidità del principio dell’onere della prova incombente sull’attore (art. 2697 cod. civ.) nello specifico caso del procedimento instaurato dal soggetto ristretto ai sensi dell’art.35 ter ord. pen., atteso che la ricaduta del dubbio (circa la fondatezza, in fatto, della domanda) sull’attore potrebbe derivare non già dalla assenza di veridicità di quanto esposto ma dall’assenza di collaborazione ricostruttiva dell’Amministrazione, con il concreto rischio di complessiva ineffettività del rimedio.

Nell’affrontare, pertanto, il tema della ricostruzione probatoria del fatto generatore della violazione (il trattamento non conforme ai parametri di legalità convenzionale) introdotto dal soggetto istante, la Corte stimava come non si potesse prescindere dall’esaminare i contenuti della stessa giurisprudenza della Corte di Strasburgo, posto che è la stessa disposizione interna (art. 35ter ord. pen.) ad imporne la considerazione.

Detto ciò, si evidenziava come la Corte di legittimità, in numerosi ed univoci arresti (di recente Sez. I n. 13378/2018), avesse ribadito che la particolare tecnica di formulazione della disposizione in esame (nella parte in cui, al fine di apprezzare come sussistente la violazione dei diritti fondamentali del detenuto, si compie riferimento a quanto previsto dall’art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo) comporta la necessità di identificare gli stessi parametri «legali» del trattamento attraverso una particolare operazione interpretativa, orientata a rinvenire nelle decisioni applicative i caratteri essenziali del trattamento «difforme» dal contenuto dell’art. 3 Conv. (e tali da violare il generale divieto in esso contenuto) e da ciò se ne faceva derivare che i principi espressi dalla Corte Edu – nelle decisioni sui casi concreti – da un lato contribuiscono ad identificare i contorni del precetto, dall’altro vanno ritenuti rilevanti anche in rapporto alle coordinate di metodo che orientano la decisione del giudice nel settore della ripartizione degli oneri probatori e ciò in ragione del fatto che la stessa introduzione del particolare rimedio dell’azione de qua – avente natura indennitaria e matrice solidaristica (Sez. I n. 831/2017 ric. omissis, Sez. I n. 876/2016 ric. omissis; Sez. I n. 31475/2017, ric. omissis) è avvenuta (d.l. n.92 del 26 giugno 2014) come si è detto, allo scopo di porre rimedio alla  constatata – nella nota decisione Corte Edu Torreggiani ed altri risalente al 2013 – ineffettività dei precedenti strumenti interni di tutela, il che porta ad adottare una tecnica interpretativa che valorizzi il principio di effettività del nuovo rimedio e che tenga conto della particolare condizione vissuta – durante la detenzione – dal soggetto privato della libertà.

Esaminando, pertanto, i criteri di metodo seguiti dalla Corte di Strasburgo sul terreno delle regole di giudizio e di ripartizione dell’onere dimostrativo – in riferimento alle ipotesi di violazione dell’art. 3 Conv. – emergeva, secondo la Corte, con nettezza la tendenza a realizzare – in quella sede – una inversione dell’onere della prova rispetto alla tradizionale regola ‘actori incumbit probatio’ in guisa tale che lì dove la domanda del soggetto ristretto abbia connotati di specificità la Corte di Strasburgo – anche mediante ricorso a documentazione proveniente da organi diversi rispetto alla amministrazione penitenziaria – tende a ritenere provato il fatto introdotto dall’attore lì dove non emergano elementi di ‘smentita della sua veridicità’ apportati dall’Amministrazione o comunque acquisiti al giudizio.

A sostegno di questo assunto si citavano i contenuti di diversi arresti, partendo dal par. 72 della stessa decisione Torreggiani ed altri: (172. La Corte, sensibile alla particolare vulnerabilità delle persone che si trovano sotto il controllo esclusivo degli agenti dello Stato, quali le persone detenute, ribadisce che la procedura prevista dalla Convenzione non si presta sempre ad un’applicazione rigorosa del principio affirmanti incumbit probatio (l’onere della prova spetta a colui che afferma) in quanto, inevitabilmente, il governo convenuto è talvolta l’unico ad avere accesso alle informazioni che possono confermare o infirmare le affermazioni del ricorrente (omissis, n. 6847/02, § 113, CEDU 2005-X (estratti); e omissis, n. 106/02, § 34, 10 maggio 2007; omissis, n. 6586/03, § 48, 7 aprile 2009; omissis, sopra citata, § 123).

Tal che si giungeva alla conclusione alla stregua della quale il semplice fatto che la versione del Governo contraddica quella fornita dal ricorrente non può, in mancanza di un qualsiasi documento o spiegazione pertinenti da parte del Governo, indurre la Corte a rigettare le affermazioni dell’interessato come non provate (omissis, n. 24708/03, § 43, 27 maggio 2010) e, pertanto, poiché il Governo non ha presentato alla Corte informazioni pertinenti idonee a giustificare le sue affermazioni, la Corte esaminerà la questione delle condizioni detentive dei ricorrenti sulla base delle affermazioni degli interessati e alla luce di tutte quante le informazioni in suo possesso.

In particolare, tra le decisioni emesse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, si citavano in particolare, quelle in cui, da un lato, si afferma che, per l’apprezzamento degli elementi di prova nella materia della privazione della libertà, essa considera il criterio della prova «al di là di ogni dubbio ragionevole» anche perché la procedura prevista dalla Convenzione non si presta sempre ad una applicazione rigida del principio di attribuzione dell’onere della prova affermanti incumbit probatio e, quando gli avvenimenti in causa sono conosciuti esclusivamente dalle autorità, per esempio nel caso di persone sottoposte al loro controllo in stato di fermo, tutte le ferite od eccessi sopravvenuti durante questo periodo di detenzione danno luogo a delle forti presunzioni in fatto il cui onere della prova pesa in questi casi sulle autorità che devono fornire una spiegazione soddisfacente e convincente (si veda, tra molte altre, omissis [GC], n° 29226/03, §§ 88-89, CEDH 2012), dall’altro, si postula che, nei procedimenti davanti alla Corte, non ci sono ostacoli procedurali all’ammissibilità di prove o formule predeterminate ai fini della valutazione ivi comprese le deduzioni che potrebbero derivare dai fatti e dalle dichiarazioni delle parti.

Alla luce di queste decisioni (oltre ad altre sempre citate in questa pronuncia), la Cassazione rilevava come il punto di maggior interesse – comune a tali decisioni – fosse rappresentato dalla affermazione relativa all’esistenza di una ragionevole presunzione relativa di veridicità delle affermazioni rese dal soggetto detenuto, in considerazione della necessità di bilanciare l’asimmetria derivante da tale condizione, per cui l’Amministrazione è unico soggetto detentore di quel complesso di informazioni idonee ad apprezzare la legalità del trattamento e, pertanto, la domanda, che si poneva la Corte in questa decisione, era se tale criterio possa o meno essere adottato – in assenza di una specifica disposizione legislativa sul tema – dal giudice interno, quale criterio idoneo ad orientare la trattazione e la decisione delle procedure instaurate ai sensi dell’art. 35 ter ord. pen., da ritenersi in via generale assoggettate al principio per cui la tutela viene concessa lì dove il fatto costitutivo del diritto all’indennizzo, introdotto dall’attore risulta «più probabile che non» (quanto alla distinzione tra criterio penalistico del ‘ragionevole dubbio’ e civilistico della ‘preponderanza dell’evidenza’ v. Sez. III civ. n. 10285 del 5.5.2009, rv 608403) .

Orbene, la risposta è per la Corte positiva in virtù delle seguenti considerazioni.

La prima veniva fatta risalire nella necessità (Corte Cost. n. 204/2016) di additare criteri interpretativi della disposizione in esame tesi ad attribuire allo strumento introdotto dal legislatore nel 2014 il maggior grado possibile di effettività.

La seconda ragione veniva ricondotta nel fatto che anche nel sistema interno, in campo civile, il principio di «prossimità» alla prova è da tempo utilizzato in chiave di riequilibrio processuale di asimmetrie sostanziali, in rapporto a quanto previsto in tema di effettività della difesa ed azione in giudizio dall’art. 24 Cost. e ciò crea conformità di assetto tra le regole seguite in sede convenzionale e gli approdi interpretativi interni, con ulteriore allineamento sistematico dei livelli di tutela fruibili in rapporto alla ipotizzata lesione della medesima posizione soggettiva.

Dunque alla luce di questo percorso interpretativo, dovendosi risalire ai principi generali dell’ordinamento, non si può che includere le consapevolezze maturate in campo civilistico, ferma restando la affinità solo parziale tra le situazioni in comparazione.

Ciò pertanto induceva la Corte a ritenere che anche nel sistema interno, innanzi al Magistrato ed al Tribunale di Sorveglianza, debba trovare applicazione il principio di diritto per cui la particolare condizione del soggetto ristretto realizza le condizioni – nei procedimenti instaurati ai sensi dell’art. 35 ter ord. pen. – per l’inversione dell’onere della prova, nel senso che l’affermazione dell’istante (contenuta in istanza ammissibile e riscontrata quanto alla avvenuta privazione di libertà nel periodo indicato) è da ritenersi assistita da una presunzione relativa di veridicità dei suoi contenuti che è compito dell’amministrazione ribaltare attraverso la produzione di elementi di smentita idonei.

Specificava la Corte come però una operazione ermeneutica di questo genere non comporta di qualificare i contenuti assertivi della domanda in termini di prova legale, quanto di riconoscere che il sistema di tutela dei diritti fondamentali del soggetto privato della libertà richiede a fini di effettività – e per i fatti avvenuti in costanza di detenzione – l’adozione di una diversa ripartizione dell’onere dimostrativo che imponga al detentore delle informazioni lo sforzo di introdurre nel procedimento la conoscenza eventualmente impeditiva fermo restando come sia fatta salva, in simile contesto procedimentale, l’attivazione dei poteri di verifica ex officio, il cui esercizio va ritenuto necessario, sempre sulla base dei principi generali, lì dove venga – anche in virtù delle controdeduzioni dell’amministrazione o in rapporto a documentazione comunque acquisita -, a determinarsi una condizione di incertezza probatoria non altrimenti superabile.

Conclusioni

La sentenza si palesa condivisibile in quanto frutto di un articolato e ben ponderato ragionamento giuridico fondato su molteplici decisioni (molte di queste emesse dalla stessa Corte europea dei diritti dell’uomo).

In particolar modo, nel sostenersi che l’affermazione dell’istante (contenuta in istanza ammissibile e riscontrata quanto alla avvenuta privazione di libertà nel periodo indicato) è da ritenersi assistita da una presunzione relativa di veridicità dei suoi contenuti che è compito dell’amministrazione ribaltare attraverso la produzione di elementi di smentita idonei, rende dunque sempre possibile che l’amministrazione penitenziaria possa superare questa presunzione relativa attraverso la produzione di prove di cui solitamente sono nella sua disponibilità.

Di conseguenza, da un lato, viene garantito il detenuto nelle sue prerogative difensive, dall’altro, sono contestualmente tutelate anche le guarentigie difensive dello Stato che potrà sempre dimostrare come il detenuto non sia stato ristretto in condizioni di detenzione tali da violare l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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